lunedì 5 aprile 2010

Dizionario di tutte 'e cose - D comme Déracinée, mais pas sans mémoire

Sono sradicata, ma non lo sono per il fatto che non vivo più in Italia da diversi anni. Non ho avuto difficoltà in Germania prima (mi manca, la Germania, o forse solo alcuni suoi abitanti, non so bene) e non ho difficoltà ora in Francia ad inserirmi nel contesto di un Paese nuovo. Sono sradicata dalla nascita, anzi, ad essere più precisa, da ben prima della mia nascita. Dalla parte paterna, la mia bisnonna si chiamava Slobec di cognome, mio nonno Ivančič, italianizzato a forza sul finire degli anni Trenta (mio nonno non resistette alle pressioni fasciste), senza troppa fantasia, visto che Ivan è Giovanni, in Giovannini. Erano i tempi in cui gli italiani di Trieste invitavano gli sloveni di Trieste, in modo più o meno convincente, a resentarse el nome (cioè a sciacquarselo per lavarselo dalla sporcizia slava, ad italianizzarlo insomma), talvolta recapitando a casa, per rendere più chiara e concreta l’idea, dei pezzi di sapone. A Tullio Kezich, il critico cinematografico, capitò letteralmente così: ne riporta testimonianza nel libro Il campeggio di Duttogliano. Niente di drammatico ormai, almeno non per la mia generazione, è cosa passata, tuttavia è una cosa che fa parte di me.

Tutto questo, limitato al massimo per non cadere nel sentimentalismo, che non mi si confa, e per non indulgere nell’inutile e tardivo vittimismo per violenze che pur ci furono, solo per dire che certi libri non sono solo testimonianze altrui, ma si intrecciano con le mie origini e il mio sentire. È per questo che un libro è rimasto sul mio comodino a lungo ed è stato preso, riposto e ripreso in mano molte volte prima di poter essere concluso, pur nella consapevolezza che nessuna esperienza sia esclusiva e che anzi molti altri hanno sofferto e soffrono ancora molto di più di quanto abbiano sperimentato gli sloveni nati in Italia. Il primo esempio che ho sotto mano è quello di un’amica algerina, la cui famiglia, pur algerina e musulmana di Algeri, non ha mai parlato l’arabo se non un arabo rudimentale, annacquato dal francese dominante, colonizzatore del Paese. Lei si è trovata, madrelingua francese, straniera in patria e, dopo la fuga precipitosa dall’Algeria in preda alle convulsioni da guerra civile degli anni novanta, straniera in Francia. Paradossalmente, ma forse neanche tanto, le ci è voluta la Germania per non sentirsi finalmente più tanto straniera.

***
Una paura indistinta la coglie ogni volta che attraversa quell’androne che nemmeno una giornata di sole estivo riesce a rischiarare, tanto è alto; la finestra opaca sul pianerottolo dà sulla corte interna. Solamente al secondo piano l’illuminazione migliora, ma di poco. Peggiora però la vista sui muri: al piano di sotto il buio impedisce di distinguere chiaramente la sporcizia dell’intonaco e i disegni che si susseguono lungo tutta la ripida scalinata. Enormi “W” capovolte, seguite dalla parola “s’ciavi”. Al terzo piano, invece, delle “W” rovesciate, è scritto “A morte” e, prima di “s’ciavi”, “quei porchi”. Ovunque, a enfatizzare la stessa ingiuria, disegni che di solito si trovano sulle pareti dei gabinetti pubblici: una ellisse attorniata da raggi contro i quali è puntato un piccolo cannone su due ruote. Quando durante una delle sue prime visite il discorso era caduto sulle scale, la signora Marija non riusciva a trovare le parole per dar voce alla propria indignazione; le figlie le avevano raccomandato di calmarsi, ricordandole che loro erano l’unica famiglia slovena dello stabile e che perció quello minacce di morte erano dirette a loro, e poi, per quanto conoscessero bene gli autori di quelle scritte e di quegli scarabocchi, nulla potevano fare contro le giovani camicie nere che, quanto meno, li avrebbero malmenati alla prima occasione. “Pian piano ci si abitua a quelle scritte, non ci si fa nemmeno più caso”, aveva detto Vera. “Lo stesso vale anche per gli scarabocchi”.
(…)
Si alzò, accostò la finestra e tornò a distendersi. Non vuole che lo svolazzare delle tendine s’intrometta nei suoi pensieri. In questo modo è più isolata dall’atmosfera che aleggia in Cittavecchia, ma è ingiusta perché questo è un quartiere dove l’emarginazione è già incisa sulle facciate delle case e imprigionata nell’odore acido che emana dagli androni lugubri investendo i passanti. Probabilmente per questo è ingiusta, visto che gli abitanti di queste umide forre sono discriminati come gli sloveni, solo in altro modo. Sono dannati a causa della loro povertà, mentre gli sloveni lo sono a causa della lingua. Tutti infetti. Tutti hanno ereditato l’infezione. Questi però li lasciano qui a riprodursi come pantegane nei canali delle fogne; gli sloveni, invece, dicono di volerli sterminare come cimici che infestano gli appartamenti. Così ha scritto qualcuno. Come cimici. Il fatto che questi parassiti si moltiplichino in questa città da dodici secoli non ha alcun valore. Perciò condividono la stessa sorte degli abitanti di questo quartiere.
(…)
Nemmeno quell’ambiente, in fondo, avrebbe avuto grande influenza su coloro che vi venivano per essere educati alla rinuncia, se non si fosse preteso da loro un sacrificio pari alla morte dell’anima. No, non da tutti, solo dai convittori sloveni e croati. Questi, per compiere il loro cammino verso la perfezione, avrebbero dovuto rinunciare alla loro madre lingua. Dagli allievi italiani non si esigeva tanto. Come se per loro il cammino verso la santità fosse facilitato dall’aver succhiato col latte materno le prime sillabe di una parlata fiorita come una tenera gemma dalla salda radice latina. Naturalmente anche gli studenti italiani dovevano fare un tacito fioretto nel loro percorso formativo, ovvero accogliere con benevolenza in mezzo a loro gli allogeni, figli di piccoli contadini carsolini o istriani, che però prima dovevano liberarsi del fardello della loro parlata. È vero, anche la maggioranza degli italiani proveniva da famiglie istriane di contadini o di pescatori, ma nel loro caso l’estrazione sociale non poteva gettare ombre sul ruolo notevole, quasi determinante, svolto dalla nobile lingua di Dante.
(…)
“In un certo senso, per un nero la vita è molto più semplice, perché sa che i bianchi non lo sopportano per il colore della sua pelle. Di conseguenza sa dare un perché al senso di inferiorità inoculato alla sua stirpe. Ma per noi sloveni in Italia, il motivo non è chiaro, visto che la nostra pelle è bianca e le nostre labbra non sono più carnose di quelle di qualsiasi altro bianco”.
Guardava davanti a sé, come se contasse i merletti delle onde spumose. Ema, invece, pensava al padre, all’ostinata ribellione che gli aveva roso l’anima.
“D’altro canto, un nero sta peggio di noi, perché non può nascondersi. Non c’è abito che tenga. Può celarsi nella notte, ma un sorriso svelerebbe la sua pelle. Non può nascondersi, il che è grave, molto grave. In questo, noi ce la passiamo meglio, ci basta prendere in prestito la lingua del padrone e i giochi sono fatti. Un nero venderebbe la propria anima per ottenere i privilegi di cui le popolazioni slovene godono su questo versante delle Alpi Giulie”.
Da Qui è proibito parlare di Boris Pahor, traduzione dallo sloveno di Martina Clerici, Fazi editore 2009 (tradotto in italiano 46 anni dopo la prima edizione slovena)

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Tutte cose sepolte nel passato? Ma magari, ma magari, e non solo in fatto di lingue, ma anche, purtroppo, in fatto di mancata condivisione della memoria. Ne fornisco un esempio, proveniente ancora dagli stessi territori, ancora non per qualche presunzione di esclusività, ma solo perché sono quelli che conosco meglio.

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Nel dicembre del 2009, con il tempismo e le modalità che contraddistinguono il lembo nordorientale dell'Italia chiamato Venezia Giulia, Roberto Dipiazza, sindaco del PDL (Partito Della Libertà, quello di Berlusconi) di Trieste al suo secondo mandato, ha deciso di attribuire allo scrittore triestino Boris Pahor, ancora lui, una benemerenza civica. Un po’ di fonti e di reazioni in rete si possono trovare sul Corriere della sera, su Il Piccolo e sul blog del consigliere regionale della Slovenska Skupnost Igor Gabrovec. La motivazione recitava: “Per le sofferenze subite durante il nazismo” e si riferiva all’esperienza dello scrittore nei campi di concentramento nazisti in Germania e in Alsazia. Pahor ne ha scritto, tra l’altro, in Necropoli, un testo del 1967 (Nekropola) pubblicato per la prima volta in Italia nel 1997 dal Consorzio culturale del Monfalconese, dopo che diverse case editrici italiane, incluse grandi case editrici come Feltrinelli e Adelphi, non avevano degnato Pahor nemmeno di una risposta:
Non era facile far conoscere ad un editore uno scrittore sloveno, proveniente da una regione a lungo segnata dai conflitti nazionali. Ho spedito il testo di Necropoli, battuto a macchina e tradotto vent’anni prima dal professor Ezio Martin, a diverse case editrici italiane, ma non ho mai ricevuto risposta. Feltrinelli mi rispedì il pacco senza nemmeno aprirlo. Dopo il successo oltralpe, l’amico Evgen Bavčar, rappresentante della cultura slovena in Francia, inviò una copia di Necropoli, con il titolo francese Pèlerin parmi les ombres, all’editore Adelphi, ma non ebbe alcun riscontro.
Da Tre volte no, Boris Pahor, Rizzoli 2009.

Ora che Necropoli è pubblicato anche in Italia da una piccola grande casa editrice nazionale, Fazi Editore, e che persino il sindaco di Trieste si è sentito di insignire Pahor di una benemerenza, Pahor non l’ha accettata e lo ha fatto proprio per il tipo di motivazione prevista: non per quello che in essa c’era, ma per quello che in essa non c’era. Lo scrittore, ovviamente, non ha messo in discussione il ruolo del nazismo, ma ha avvertito la necessità di esprimere la mancanza del benché minimo riferimento, nella motivazione, alla parola “fascismo”:
Il nazismo, certo, mi perseguitò duramente; tuttavia, le prime sofferenze mi furono inflitte dal fascismo, che mi rubò l’adolescenza e l’identità. Ecco, avrei voluto che si aggiungesse una parola in più. Quella parola.
Il sindaco Dipiazza ci ha allora ripensato:
A caval donato non si guarda in bocca. (I benemeriti) non possono anche dettare i testi delle benemerenze. Fascismo, nazismo, crimini di Pol Pot e tutte le altre tragedie vanno lasciate agli storici. Dobbiamo guardare avanti, lasciamo la storia agli storici. Sono pronto a ritornare sui miei passi, cioè a conferirgli la Benemerenza civica, se Pahor, uomo di grande valore, abbassasse i toni.
Una questione di toni, dunque. Eppure i toni di Pahor sono pacati, semplicemente restano saldamente ancorati alla verità storica e alla richiesta che essa venga rispettata in toto. Una verità come quella ricordata ne Il rogo nel porto, Zandonai 2008, in cui lo scrittore testimonia uno dei più gravi episodi di violenza fascista avvenuto a Trieste nel luglio del 1920, l’incendio della casa della cultura slovena Narodni dom. L’incendio fu provocato dai fascisti, non dai nazisti, dai fascisti, da fascisti italiani scatenatisi ben due anni prima della marcia su Roma in una città che in parte li appoggiava e in parte stava a guardare:
Ma quella volta la sera non veniva e sembrava che non ci sarebbe stata neppure la notte, giacché sopra le case il cielo era rosso come se fosse intriso di sangue. Nell’aria odore di fumo.
Si era forse incendiato un vaporetto nel porto? Avevano preso fuoco i capannoni? Ardevano i vagoni con il legname? Brucerà tutta Trieste? Branko teneva Evka per mano e insieme corsero a casa, giù per la ripida discesa, su per la scala a pian terreno, giù per gli scalini del seminterrato, dalla mamma che era sola.
La lampada a petrolio ardeva sul tavolo, ma le due finestre rilucevano di un rosso scarlatto come se il sole al tramonto fosse caduto nel cortile. Ora ardeva nella cassa di cemento e il muro davanti alle finestre brulicava di fiamme che lambivano i vetri.
«Mamma» disse Branko stringendosi a lei.
«Mamma» pianse Evka aggrappandosi alla sua gonna.
Ma la mamma era strana. Taceva in mezzo al locale dalle finestre infuocate e neppure sembrava la loro mamma. Come fosse prigioniera in un carcere sottoterra e non sentisse che loro le erano accanto. Non si arrabbiava perché erano andati a zonzo. Aveva messo Olgica a letto ed era rimasta lì con il sole che, caduto dal cielo, ardeva nel cortile. Non li sentiva piangere perché presto ci sarebbe stata la fine del mondo.
«A letto» disse.
Assomigliava a una statua rossa nel chiarore infuocato e si muoveva come in mezzo alle fiamme mentre spogliava Evka.
Rossa in volto, rosse le mani. Tutto era rosso, anche il tavolo e il lume sul tavolo.
Allora si spalancò la porta e apparve Mizzi. Ma non silenziosa e compunta come al solito. I suoi occhi erano grandi e impauriti, sgranati e scarlatti per via del riflesso infuocato alle finestre. Il suo seno si sollevava in un respiro agitato e le mani tremavano nel riverbero purpureo.
«Gospa» (Signora) disse. «Gospa.»
Ma la mamma non reagì.
«Kako strašno, gospa.» (E’ terribile, signora)
Camminava intorno al tavolo e il pesante cercine di capelli scuri le si era sciolto sulle spalle. Camminava intorno al tavolo e andava ripetendo: «Signora, signora». Sembrava volesse scappare davanti alle fiamme, ma le fiamme l’avevano già avvolta, e con lei la mamma, Branko ed Evka che si stavano nuovamente vestendo e infilando le scarpe.
«L’hanno cosparsa di benzina, signora.»
«Mamma!» gridò Branko.
«Hanno inchiodato le porte, così la gente non può uscire.»
«Mammaaa» chiamò piangendo Evka.
«E la gente salta dalle finestre, signora.»
Ma loro due stavano già correndo, fecero appena in tempo a sentire un «ohi» di Mizzi e già correvano su per i gradini e poi giù per la strada. Sulla via Commerciale non era scesa la sera, l’incendio sopra i tetti sembrava venire dal sole che liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo. Il tram per Opčine si era fermato, gli alberi nel giardino dei Ralli apparivano immobili nell’aria color porpora. Loro due correvano tenendosi per mano e nell’aria, sopra le loro teste, volavano le scintille che salivano da piazza Oberdan. 
Come il fratello e la sorella senza casa, come la sorella e il fratello nella fiaba di Mizzi, che la matrigna odiava e il padre voleva abbandonare. Ma non sapevano dove stessero correndo, forse soltanto in direzione delle scintille volanti, simili a lucciole.
Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: «Viva! Viva!».
Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: «Eia, eia, eia!». E gli altri allora di rimando: «Alalà!».
Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.
«Eia, eia, eia, alalà!» gridavano come dei forsennati e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Evka si avvinghiava a Branko perché nella grande casa, oltre alle fiamme, si vedevano anche delle figure umane alle finestre, e una di esse era appena salita sul davanzale guizzando accanto alla lingua rossastra che lambiva la finestra. Evka rabbrividì e anche Branko si strinse a lei.
«Eia, eia, eia, alalà!» cantavano gli uomini dai fez neri, ma i pompieri finalmente svolgevano le lunghe manichette e la folla si andava scostando. I getti d’acqua sprizzarono alti simili a zampilli uggiolanti e scalpitanti nella sera amaranto. Gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli.
In quel momento una scure tagliò una manichetta e il getto d’acqua rimase sospeso in alto, nel cielo, come un fiore di sambuco dorato dal riverbero del fuoco. Poi il fiore cadde e l’acqua continuò a sgorgare dalla manichetta tagliata che il pompiere teneva in mano, come sangue da una vena.
Le guardie municipali spingevano indietro la gente: «Alo indrìo, alo indrìo» (Indietro, dai, indietro, dai).
Gli uomini neri intanto ballavano in un crescendo sfrenato.
«Porci» disse un uomo fra la folla.
Evka e Branko però erano piccoli e non capivano quello che diceva la gente. Sapevano che bruciava la Casa della cultura e che non era giusto che i cattivi fascisti l’avessero incendiata, ma non si spiegavano perché i soldati fossero usciti dalla caserma in piazza Oberdan se ora se ne restavano lì a guardare. Dal muretto sulla soprastante via Romagna loro due li osservavano spesso, i soldati, che saltavano oltre i fossi e s’arrampicavano su per la parete di legno, ma perché erano venuti a guardare le fiamme che divoravano quella casa così bella e grande? Stavano tutt’attorno alla fontana dove di solito i cocchieri abbeveravano i cavalli, ma ora non c’era nessuna carrozza. E perché i pompieri non avrebbero dovuto spegnere il fuoco? Come mai i soldati, calmi e pacifici, guardavano gli uomini neri che spingevano via i pompieri quando questi allargavano il telone e qualcuno vi cadeva sopra da una finestra per poi rimbalzare verso l’alto proprio come Branko quando si buttava sulle molle del letto della mamma?
«Prekleti hudiči» (diavoli dannati) brontolò un uomo fra la folla e ad Evka sembrò di riconoscere quella voce. Ma intanto lo schiamazzo attorno alla casa era aumentato e le guardie cacciavano la gente in malo modo. Tuttavia un attimo dopo Evka si sentì afferrare saldamente da una mano, tanto che si strinse ancor più a Branko.
Quella voce allora esclamò: «A casa, svelti!».
E vide che era il loro papà.
Così dovettero rifare la via Commerciale in salita con il papà che brontolava.
«Maledetti diavoli dannati!» disse.
E tra sé e sé aggiunse: «Perché non ha messo a dormire i bambini…».
Branko avrebbe voluto dire che la mamma piangeva e che loro due erano scappati per paura del fuoco alle finestre. Ma tacque mentre si chiedeva: perché hanno sparso la benzina? Perché i diavoli neri ballavano e gridavano quando alle finestre in fiamme c’era ancora della gente? Le scintille continuavano a volare nell’aria e papà ora teneva il capo chino ed era arrabbiato, ma non più con la mamma.
«Figli del diavolo» disse.
Ma loro non sapevano perché bestemmiasse, Branko in autunno sarebbe andato in terza elementare, Evka solo in prima. La mamma lo rimproverava sempre quando bestemmiava, lui però nominava il diavolo e pronunciava simili parole soltanto quando era arrabbiato. Cioè soltanto nel caso in cui qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E certamente non era giusto che avessero appiccato il fuoco a un edificio tanto bello con quel grande teatro dove il babbo e la mamma li avevano portati a vedere uno spettacolo; come la volta in cui sul palcoscenico c’era Krjavelj. Tanta gente stava seduta al buio e in silenzio, e allorché un uomo nell’oscurità aveva tossito, gli altri avevano fatto sss!… zittendolo. Evka sedeva sulle ginocchia della mamma, Branko invece su quelle di papà. Allora era comparso Krjavelj che si contorceva senza sosta come un fachiro e ammiccava con l’occhio destro. Poi disse che aveva tagliato in due il diavolo e che la prima volta il tonfo aveva fatto patapìm e la seconda patapùm. No, non era giusto che l’avessero incendiato, altrimenti il loro papà non si sarebbe arrabbiato tanto. E non era neanche giusto che la gente alle finestre gridasse: «Aiuto, aiuto!» e che gli uomini neri non permettessero ai pompieri di salvarli. Se salteranno in strada si ammazzeranno tutti, moriranno tutti.
«Canaglie del diavolo» disse papà.
E teneva per mano Evka e Branko mentre saliva lentamente sotto un cielo divenuto una cupola color rosso scuro. Evka aveva paura e avrebbe voluto essere a letto vicino alla mamma per potersi stringere a lei e non vedere quel bagliore sanguigno che trasformava la notte; per stringersi a lei e nascondere gli occhi nel suo grembo.
***

Il problema della mancanza di rispetto della storia nel suo complesso non è purtroppo un problema circoscritto alla memoria selettiva del sindaco di Trieste. La conferma viene da un altro episodio di cronaca recente, quello del campo di concentramento fascista di Visco, in provincia di Udine, l’ultimo campo di cui ci siano ancora delle tracce fisiche, che qualche mese fa ha rischiato lo smantellamento.

A proposito dei campi di concentramento fascisti, ancora Boris Pahor in Tre volte no, formulava una domanda ragionevole e pacata:
Perché non si portano i ragazzi nei campi di concentramento italiani, come quelli di Rab, Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Grumello e altri ancora? E’ giusto che i giovani vadano a visitare le foibe, ma prima devono avere la possibilità di conoscere e studiare tutta la complessa situazione storica. Andare solo alla Risiera di San Sabba, che fu voluta dai nazisti, non basta e perpetua quell’immaginario descritto da Paolo Rumiz: “Innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani brava gente“.
Lo scritto di Paolo Rumiz citato da Pahor è un articolo di raro equilibrio e di grande respiro pubblicato sul quotidiano di Trieste Il Piccolo il 10 febbraio 2009. E’ già disponibile online altrove, ma lo ricopio lo stesso qui perché mi sembra ci stia tutto e per contribuire ad evitare che un giorno possa sparire dalla rete.
Foibe e Risiera, la strana ”simmetria” per pacificare la memoria sugli ex confini
Per arrivare a una pacificazione non è sufficiente onorare soltanto i morti delle Foibe e della Risiera
A due settimane dal Giorno della Memoria, il 10 febbraio – oggi – ritorna il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli d’Istria e Dalmazia e ai morti nelle foibe. Torna con la sua carica di emozioni forti e il suo seguito di dispetti diplomatici fra Italia, Slovenia e Croazia. Ogni volta la stessa storia. Quasi un tormentone a orologeria.
Come noto, per metterci una pietra sopra, Roma chiede a Lubiana e Zagabria di concordare un atto simbolico di omaggio ai due luoghi contrapposti della barbarie: le foibe appunto, e la Risiera di Trieste, unico forno crematorio nazista in terra italiana. Un doppio atto catartico, si afferma. Una contrizione equanime e simmetrica, come i due piatti di una bilancia.
Ma è qui il punto. So bene che molti non saranno d’accordo, ma a mio avviso quella tra le foibe e il Lager triestino è una falsa simmetria. Mi spiego. Noi chiediamo ai nostri vicini di riconoscere una colpa loro, e in cambio offriamo di dolerci di una colpa niente affatto nostra. La Risiera è un simbolo pesante. Ma ha un difetto: venne gestita da tedeschi, e Trieste era territorio del Reich.
È difficile che funzioni. È come saldare un debito con moneta altrui. Perché non si cerca altro? Strano che l’Italia antifascista non ci pensi. Di luoghi alternativi ce n’è d’avanzo. Per esempio l’infame e italianissimo campo di concentramento di Gonars in Friuli, dove civili sloveni e croati furono fatti morire di fame; o il villaggio di Podhum sopra Fiume, una Marzabotto firmata Italia del ‘42, con cento civili fucilati, incendio e deportazione dei sopravvissuti.
Sarebbe facile, ma temo che se le nostre controparti ci dicessero davvero “offriteci un pentimento un po’ più italiano”, saremmo colti da amnesia collettiva. Da troppi anni il Paese evita il nodo del pentimento; si genuflette ad Auschwitz ma sorvola sui delitti del Ventennio. Squalifica i liberatori, li trasforma in occupatori, minimizza quel regime che pure Fini ha dichiarato “male assoluto”, e anziché chiedere scusa si limita a costruire un’agiografia di “fascisti buoni” salvatori di ebrei, o dedica strade a propagandisti del Ventennio.
Ma questo crea un rischio concreto: che il 10 febbraio vada in collisione col 27 gennaio, o addirittura lo neghi. L’equivalenza criminale tra foibe e lager triestino sembra fatta per tirarsi dietro un’equivalenza politica: nazifascismo=comunismo, mali assoluti entrambi. Ma come possiamo sostenerlo senza negare proprio l’evento fondativo del Giorno della Memoria, e cioè che il 27 gennaio a entrare ad Auschwitz fu l’Armata Rossa?
Non basta. Il 10 febbraio lascia intendere che pure noi italiani abbiamo avuto la nostra Shoah. Le nostre vittime, si dice, furono “martiri”. Ma il termine indica l’accettazione della morte in nome di un’idea, cosa che non fu, tanto è vero che non viene applicato nemmeno ai morti di Auschwitz. Difendere questa parola non rischia di sminuire l’orrore incommensurabile dell’Olocausto?
Da noi tutto è soggetto a lifting, dalla faccia dei primi ministri alle leggi finanziarie: figurarsi il Ventennio. In questa cosmesi Trieste ha una funzione-chiave. Qui i liberatori dell’Est e dell’Ovest andarono a scontrarsi e la ferocia vendicativa dei primi si scatenò come sappiamo. Ciò ne fa una piazza irrinunciabile per la Destra. Il posto ideale per equiparare i partigiani ai briganti e riciclare i fascisti come difensori della frontiera minacciata dal comunismo.
Ma se questo è il fine, allora il 10 febbraio e il 27 gennaio rischiano entrambi di svuotarsi di senso e ridursi a un’autoassoluzione. In fondo la colpa dei forni crematori è tedesca, quella delle foibe slava, e dunque possiamo sempre concludere: innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani “brava gente”.
Pensiamoci un attimo. Siamo l’unica nazione europea che ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto per esigere scuse da altri. Ma allora a che serve questo nostro 10 febbraio? A celebrare morti e confortare profughi, come è doveroso, oppure ad assolvere gli stessi squadristi che plaudirono alle leggi razziali?
L’Italia ignora che quelle leggi furono proclamate settant’anni fa proprio a Trieste ed ebbero un tragico preludio nella repressione contro sloveni e croati fin dal 1920, con diciotto (!) anni di anticipo sulla Notte dei Cristalli. E pochi sanno che i “nostri” ebrei furono portati a morire sulla base di liste tutte italiane, accuratamente redatte nel ‘39 dall’ufficio “anagrafe e razza”. Perché non lo si dice chiaro?
Perché quel giorno infausto, di cui è appena trascorso il settantesimo anniversario, è stato ricordato in tono minore? Perché non s’è detto chiaro che quel tragico annuncio in piazza Unità ebbe in risposta non un silenzio attonito ma sette – ripeto, sette – ovazioni? C’è chi dice che le leggi razziste dipesero dall’influenza tedesca, ma Mussolini fu esemplarmente chiaro: “Coloro i quali credono che noi abbiamo obbedito a imitazioni – disse – sono poveri deficienti cui non sappiamo se dirigere disprezzo o pietà”.
Oggi in Italia si bruciano barboni, le ronde vanno a caccia di “musi neri”, nelle banlieues è scattata l’emergenza etnica, la presidenza del consiglio invece di unire il Paese lo spacca drammaticamente. Lo stesso Fini e parte della Destra sono preoccupati. Ma non è proprio questo che li dovrebbe obbligare a tener desta la memoria per evitare derive balcaniche al Paese? I Balcani non sono forse una tragedia etnica costruita sul cattivo uso della memoria?
Invece l’antislavismo resta un pregiudizio vivo a Nordest, e Trieste continua a essere un tappo formidabile sulla Ostpolitik italiana. Il Muro è caduto vent’anni fa, il confine con la Slovenia è caduto, ma la “svendita dell’italianità” è ancora il termine insultante con il quale certa nostra imprenditoria, per invocare protezionismi, bolla in nome della patria ogni tentativo di accordo di frontiera, lasciando così in apnea il porto di Trieste.
Non si capisce una cosa ovvia. La potenza tedesca si basa su un pilastro: l’aver chiesto scusa. È questo che ha dato credibilità all’espansione economica di Berlino a Oriente. Noi – che con tutta evidenza ci siamo macchiati di colpe minori – non l’abbiamo fatto, con la conseguenza che l’allargamento dell’Unione europea a Est va a due velocità. A Nord arriva alle porte di Pietroburgo; a Sud non arriva a Punta Salvore.
Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni! Non si dice che nel ‘19, dopo i bei Ragazzi del Novantanove, sulla frontiera arrivarono uomini neri a portare arroganza, sopraffazione e morte. Si omette che decine di migliaia di austriaci se ne andarono da Trieste a guerra finita perché l’Italia aveva chiuso le loro scuole, dopo che Vienna aveva lasciato fiorire la lingua italiana.
Si dice che Trieste fu “redenta”, ma non aveva nulla da cui redimersi. Il porto funzionava, Vienna investiva cifre enormi nello sviluppo, la rete ferroviaria era al top. Il fascismo invece castigò l’Adriatico: la flotta passò al Tirreno e Genova con Napoli saldarano il conto della sconfitta navale di Lissa, inflitta 50 anni prima dagli istro-dalmati sotto il vessillo dell’aquila bicipite.
Perché oggi si dedicano discorsi persino ai papalini uccisi a Porta Pia, ma non agli istriani, dalmati, goriziani e triestini che morirono sul fronte russo per obbedire al loro imperatore? Per essi nemmeno un fiore sui Carpazi. Vanno dimenticati solo perché disturbano l’immagine di Trieste italianissima? Quanta storia inghiottita da un buco nero.
Giampaolo Pansa fa le pulci alla Resistenza. Benissimo. La storia va sviscerata senza paura. Il problema è che pochi fanno le pulci al fascismo. Chi parla delle repressioni nella Trieste operaia, degli assalti agli sloveni e della loro lingua negata? Chi dei cognomi italianizzati in massa, o dei lager del Duce dove tanti bambini stranieri morirono di stenti tra il ‘41 e il ‘43? Silenzio indecente su tutto, anche sui 300 criminali di guerra mai passati in giudicato, o sugli squadristi riabilitati nel dopoguerra.
È dal ‘45 che la Destra persegue coerentemente questa rilettura. Ora ha in gran parte raggiunto il suo obiettivo. A furia di insistere ha ottenuto di fissare il Giorno del Ricordo al 10 febbraio, data del “tradimento” (il trattato di pace che ha ceduto terre a Tito) che mi pare scelta apposta per fomentare revanscismi. Nulla è più pertinace della memoria dei Vinti.
Il risultato è che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana. Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica. Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa, e il giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole.
Per fortuna, pare che il campo di concentramento di Visco non rischi più di essere smantellato come sembrava qualche mese fa.
Visco dovrebbe sopravvivere, ma a Gonars, ancora in provincia di Udine, c’è solo un monumento nel cimitero a ricordare la presenza del locale campo di concentramento. In questo caso c’è almeno un luogo della memoria virtuale dedicato al campo, The Gonars memorial, realizzato dal comune di Gonars, da quello di Visco, dalla regione Friuli Venezia Giulia e dalla Commissione Europea. Le medesime istituzioni hanno realizzato anche un documentario:


The Gonars Memorial from nestor anarres on Vimeo.

Segnalo infine alcune letture in rete, che cercherò di aggiornare nel tempo, e dei testi:

Visco: una storia dimenticata

Ferruccio Tassin, Sul confine dell'Impero, Comune di Visco, 1998

Una mia visita a Visco

I campi di concentramento per civili gestiti dalla II Armata

Nei campi di concentramento fascisti di Rab – Arbe e Gonars (PDF)

Relazioni italo-slovene 1880-1956 – Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena

Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce - L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi

Sulle foibe, per il momento, mi limito a segnalare:

Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Udine 1997

Giuseppe Casarrubea, Foibe, perché?

Jože Pirjevec, Foibe - Una storia d'Italia, Einaudi

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