sabato 31 dicembre 2011

Neige, glace, jorden

22 novembre 1816. - Un capitaine de vaisseau anglais, jeté par les courans sur la côte de Guinée, eut un jour la sottise de prononcer devant un roitelet du pays les mots de neige et de glace. En entendant dire qu'il y avait un pays où l'eau était dure, le roitelet fut pris d'un rire inextinguible.

Stendhal, Rome, Naples et Florence, Gallimard, 1987

22 novembre 1816. - Un capitano di un vascello inglese, gettato dalle correnti sulla costa della Guinea, un giorno commise la sciocchezza di pronunciare davanti ad un reuccio del paese le parole neve e ghiaccio. Sentendo dire che esisteva un paese dove l'acqua era dura, il reuccio fu preso da un riso inestinguibile.

*

Jag satt en glåmig kväll på tassarfiket på asteroiden Runkstrumpan. (Något som alltid irriterat mig i science fiction-filmerna är de där trista, stereotypa namnen på främmande bebodda himlakroppar. Alla heter Epsilon, Centaurus och liknande fantasilösheter. Eller ännu värre, någon bokstavskombination där x alltid ingår, som XCT, WQX-Alpha och liknande. I verkligheten har ju planeterna nästan alltid påfallande fåniga namn som ofta låter helt vansinniga i andra civilisationers öron.)
Jag satt alltså vid ett plastbord på asteroiden Runkstrumpan, läppjade på ett glas vulkanisk yoghurt och glodde genom siktrutan ner på hangarens smutsgråa betong där vi stod och bunkrade bränsle. Det finns få platser mer deprimerande än dessa ödsliga servicestationer längs yttre malmleden. Allt är väntan, blinkande lysrör, en stjärnhimmel av svidande ensamhet, ett hörn med vanvördiga spelautomater där en fyrbent gruvarbetare gör av med sina surt förvärvade slantar.
Vid stångbordet intill satt några sura gulisar och sörplade vax, mycket mer än vad som var nyttigt för dem. Till sist, av ren tristess, frågade de vad stället jag kom ifrån hette.
- Jorden, sa jag...

Mikael Niemi, Svålhålet - Berättelser från rymden, 2004

Una sera deprimente, me ne stavo seduto al bar dei cosmonisti sull'asteroide Segalzino. (Se c'è una cosa che mi ha sempre irritato, nei film di fantascienza, è proprio la mania di dare nomi squallidi e convenzionali ai corpi celesti abitati ancora sconosciuti. Si chiamano tutti Epsilon, Centaurus e simili: una totale mancanza di fantasia, insomma. Oppure, peggio, si ricorre a combinazioni di lettere in cui è invariabilmente compresa una X, come XCT, WXQ-Alpha e via di questo passo. Nella realtà i pianeti hanno quasi sempre nomi alquanto ridicoli che spesso suonano assurdi alle orecchie delle altre civiltà.)
Ero dunque seduto a un tavolino di plastica sull'asteroide Segalzino, intento a sorseggiare un bicchiere di yogurt vulcanico e guardavo attraverso l'oblò il cemento grigio sporco dell'hangar in cui stavamo facendo rifornimento di carburante. Esistono pochi posti deprimenti come queste desolate stazioni di servizio lungo l'anello metallifero esterno. È tutto attesa, luci al neon lampeggianti, un cielo stellato di bruciante solitudine, un angolo con dei giochi elettronici di bassa lega a cui un minatore quadrupede sperpera i soldi faticosamente guadagnati.
Al tavolo a gambo di fianco al mio erano seduti alcuni tetri gialliti intenti a sorseggiare cera in quantità decisamente eccessive per la loro salute. Alla fine, per pura disperazione, mi chiesero come si chiamava il posto da cui venivo.
"Terra", dissi.
Non capivano e non era soltanto colpa della cera: me ne accorsi dopo qualche istante. Lo tradussi in tutte le dieci lingue che ho nella testa e nelle ulteriori 340 contenute nel traduttore automatico, ma loro rimasero con tutti gli orifizi spalancati per la sorpresa.
"Terra", gesticolai. "Quella dove crescono l'erba e i fiori."
I gialliti parvero ancora più perplessi e alla fine andai all'ingresso, dove erano appese le tute spaziali dei pochi avventori e cavai da un'aiuola di cactus una manciata di terriccio. Tornai al tavolo e lo sparsi sul ripiano, dicendo che il mio pianeta si chiamava così. E quando capirono che era vero, che non stavo scherzando e nemmeno facendo lo spiritoso, scoppiarono a ridere al punto da far sbatacchiare le squame pilifere, avvinghiandosi l'uno all'altro con i tentacoli e sbuffando con le mascelle e dondolandosi avanti e indietro con la cera che fuoriusciva da tutte le parti e alla fine il minatore si voltò e chiese cosa ci fosse di così divertente e allora quelli risposero che venivo dalla Terra, indicando il mio mucchietto di terriccio e a quel punto anche lui scoppiò a ridere, sghignazzare, scompisciarsi facendo grandinare i gettoni per tutto il locale.
Che fare?
"Segalzino!" esclamai, cercando di sganasciarmi a mia volta, ma nessuno capì cosa intendessi, per quanto fosse un nome molto più ridicolo.
"Terra!" strillarono i gialliti facendo volar via con le loro sbruffate il mucchietto di terriccio. Ero costretto a uscire: non potevo assolutamente fermarmi. Mi avvicinai dunque alla palla di peli pesantemente truccata seduta alla cassa e tirai fuori il mio portafogli elettronico, ma in quel momento mi accorsi che si stava sbellicando al punto che per poco non si staccava dal gancio e tra un accesso di risa e l'altro cercava di bofonchiare che la mia consumazione era gratis, perché non si era mai divertita tanto e probabilmente avrebbe dovuto aspettare che ripassassi da quelle parti per farsi un'altra risata così e com'è che si chiamava poi il mio pianeta?
"Terra, e che cazzo."
A questo punto si scatenò una baraonda anche peggiore: si gettarono bocconi per terra, mentre un mascellamolla al tavolo accanto si univa alle risate, seguito a ruota da un paio di pelleragni intenti a mangiare dai loro piatti di crisalidi. Si contorcevano tutti in preda agli spasmi, sgocciolando e cominciando a sfaldarsi lungo i contorni.
"Terra!"
Peggio che mai: accessi ancora più sfrenati, tanto che due tirarono le cuoia, i pelleragni si fusero per poi coagularsi, mentre al banco era seduto un beonzo che ormai tendeva al viola e si teneva íl cranio.
"Terra! Terra!"
Il beonzo spirò con uno schiocco emettendo un'alitata acre e anche i gialliti erano ormai allo stremo e così pensai: se adesso ripeto Terra ancora una volta li faccio fuori tutti e dissi:
"Terra!"
E quelli, scossi dai singulti, si creparono all'interno e si misero a frustare il pavimento con gli arti contratti dagli spasmi e io pensai: merda, sarà meglio che me la batta, altrimenti li faccio schiattare tutti, non devo più ripetere Terra e dissi:
"Terra!" e fu un vero e proprio massacro, così me la filai saltando sul mio mezzo, avviai e decollai dal pianeta Segalzino per non rimetterci mai più piede.
Venni ricercato per omicidio di massa: sostenevano che li avessi massacrati con il laser e quando alla fine mi beccarono mi ritrovai davvero nei pasticci. Ci fu il processo e la mia unica testimone era la palla di peli del bar, rimasta menomata a vita. E quando il giudice volle sentire la mia versione, dissi che venivo dal pianeta Terra. Ma a quel punto lui si mise a sbellicarsi e anche tutta la giuria e i presenti e le guardie e i segretari, e nel caos che si era scatenato la palla di peli morì scossa dalle risate e così io uscii in punta di piedi oltrepassando le guardie che si contorcevano sul pavimento e pensai che non volevo avere altre vite sulla coscienza.
"Terra!" gridai per concedermi un minimo di margine e riuscii a farmi dare un passaggio da un cargo e da allora in poi ho sempre evitato quell'angolo della galassia.

Mikael Niemi, Il manifesto dei cosmonisti, Iperborea, 2007 -  traduzione di Laura Cangemi

venerdì 30 dicembre 2011

Cartolina di anno vecchio

Questa è la porta della sua memoria. Dell'edificio dove ha passato la sua infanzia. Avenida Independencia. Numero 331. Questa è la porta che non attraversa più, il chiavistello che non gli gira, la soglia a cui si ritorna solo di spalle. Guardarla lo intimidisce. Attraversarla lo invecchia. Se ora tocca il campanello, non riconoscerà la voce che gli dovesse rispondere. Potrebbe essere la sua.

La memoria è di Andrés Neuman.

giovedì 29 dicembre 2011

Ave Atque Vale



"Im Paradies fliegen einem die gebratenen Tauben in den Mund".
(In paradiso i piccioni arrosto volano in bocca.)


David Byrne, Jerry Harrison


Schaue ich heute, schreibt Michael Hamburger, zurück auf Berlin, dann sehe ich bloß einen schwarzblauen Hintergrund und darauf einen  grauen Fleck,  eine Griffelzeichnung, undeutliche Ziffern und Buchstaben, ein scharfes Eß, ein Zet,  ein Vogelvau, mit dem Tafellappen verschmiert und ausgelöscht.
W.G. Sebald, Die Ringe des Saturn. Eine englische Wallfahrt.
(Se oggi volgo di nuovo lo sguardo a Berlino, scrive Michael Hamburger, non vedo altro che uno sfondo azzurro e nero e, sopra di esso, una macchia grigia, un disegno a matita, cifre e lettere confuse, una ß tedesca, una zeta, una v a forma di uccello, sfumati e cancellati come il gesso su una lavagna.)


Ave Atque Vale

Moments remain, the sculpted, painted, drawn
Split second millennia long,
Current word silenced, ambered into song
Where nothing can change, no bee molest these petals
Which, met, undo me, leave me unborn or dead,
Unable to compare,
Let hand, make memory meddle.
Momentous did they seem? Not now, so still.
They are, are, are, are, are, the things I see
And will be when they're lost, obliterated,
The model passed away,
On this old empty vase glazed patterns dance,
Above it fixed wings beat, the migrants' flight.

Good morning, present, absent ones, good night.

Michael Hamburger


Non restano che momenti, le frazioni di secondo
scolpite dipinte disegnate lunghe millenni,
parola corrente messa a tacere, imprigionata dall'ambra in una canzone
in cui nulla può cambiare, nessun'ape infastidire questi petali
che, toccandomi, mi disfano, mi lasciano non nato o morto,
incapace di comparare,
di lasciare che la mano, di far sì che la memoria si intrometta.
Sembravano importanti? Non ora, con questa quiete.
Sono, sono, sono, sono, sono, le cose che vedo
e saranno quando saranno perdute, cancellate,
il modello ormai passato,
su questo vecchio vaso vuoto danzano disegni smaltati,
e, sopra il vaso, un battere di ali fisse, il volo dei migranti.

Buon giorno, presenti, assenti, buona notte.

lunedì 26 dicembre 2011

L'intruso