Mi sono accorta solo di recente, e solo perché me l'hanno fatto notare, che sono una grande lettrice di targhe e cartelli. Ultimamente, per lavoro mi è capitato di muovermi in un paesaggio che ne offriva moltissimi, tutti però, purtroppo, a me illeggibili. Riconoscendo solo qualche manciata di caratteri kanji e meno di cinque sillabe kana, il resto era buio totale, se non fosse stato per la fantasia, cui devo essermi affidata per riempire i vuoti, e per un prepotente ritorno ai due dialetti familiari, che probabilmente sono riemersi nella mia testa con lo stesso inconscio scopo. Così, per esempio, l'uscita (出口) si è venuta naturalmente a confondere con un uomo che cerca una via di fuga verso un'apertura sbracciandosi, inseguito dalle fiamme di un indomabile incendio, mentre l'ufficio (局) con una sedia sotto cui cade una carta appallottolata ed il mare (海) con una nassa immersa nell'acqua che col tempo si arrugginisce al punto tale da dover ricorrere ad un martello, per poterla aprire. Così, poi, gli ideogrammi sono diventati pupoli, i kimoni flaide e il sonno, cui un discreto numero di giapponesi si lascia andare non appena si siede a bordo di un qualsiasi mezzo di trasporto pubblico, si è automaticamente tradotto in una irresistibile, pesantissima sonera.
Una strada di Ōsaka
Un karaoke di Kyōto
Un incrocio di Daitō
Una casa di Takayama
Un bar di Takayama
Un fabbro di Takayama