sabato 30 luglio 2011

e la prora ire in giù, com’altrui piacque

Non avevo ancora 10 anni, il 2 agosto del 1980. Se provo a depurare i miei ricordi dalle conoscenze sulla strage di Bologna che ho accumulato negli anni seguenti, vedo, all'indomani della strage e nei giorni immediatamente successivi, solo pagine di quotidiani lasciati su teli da bagno di una spiaggia della costiera triestina, con fotografie in bianco e nero, ad ingiallire al sole d'agosto. Eppure, nonostante la gravità dell'attentato di Bologna, di tutte le innumerevoli azioni terroristiche che hanno costellato gli anni della mia infanzia, il punto più alto, in termini di netta percezione di un senso di smarrimento che necessariamente assorbivo dal mondo degli adulti, è stato il sequestro Moro, non la strage di Bologna, come se gli italiani - mi vien da pensare ora - a parte le prime naturali reazioni di sgomento, fossero allora già intimamente rassegnati a quella sequenza di morte di Stato avviata da piazza Fontana (o, meglio, da Portella della Ginestra) e all'impossibilità, proprio in quanto morte di Stato, di conoscerne tutti gli artefici e tutte le menti. C'è una fotografia impressa nel mio cervello che ritrae un momento di pausa nei miei giochi di strada con i miei compagni di allora: me su una bicicletta a fianco di un cancello verde, di cui impugno una sbarra per tenermi in equilibrio da ferma per evitare di mettere i piedi a terra, mentre cerco di esprimere le mie paure e la mia incapacità di comprendere e pongo domande ad una bambina di appena un anno più grande di me, ma già per questo considerata in grado di dare possibili risposte ai miei interrogativi, alla nebulosa delle mie incomprensioni. È, questa, la mia personale istantanea dei lunghi giorni del sequestro Moro. Di Bologna, se escludo gli anni successivi, non mi resta niente, a parte quei giornali sulla spiaggia e, in secondo piano, il sospiro di sollievo della mia famiglia nel pensare che lo zio Paolo, allora studente al DAMS, quei giorni a Bologna non c'era.

Il governo fa benissimo a non inviare alcun suo rappresentante alle commemorazioni per la strage. La sinistra, dopo trentuno anni, potrebbe fare altrettanto, se non altro per quello che non ha saputo fare, se non altro perché non ha affrontato il nodo del segreto di stato, se non altro perché si trova ancora una volta impotente ed inadeguata di fronte all'ennesimo governo i cui più alti rappresentanti hanno avuto in tasca tessere della P2. Non sarà così, ma sarebbe bello se il 2 agosto 2011, a Bologna, per una volta, parlassero solo ed esclusivamente i superstiti e i parenti dei morti e dei feriti, italiani e stranieri, e tutti gli altri, per un giorno, tacessero.

In occasione della prima commemorazione pubblica organizzata dal Comune, che da subito fu contestata da coloro - cattolici, posto che sia necessario dirlo - che dichiaravano che i morti si sarebbero dovuti commemorare in silenzio, il 31 luglio del 1981, dalla Torre degli Asinelli, Carmelo Bene non ricordò i morti del 2 agosto di un anno prima, ma i feriti, e lo fece declamando Dante. Dante è uno dei nostri primi rifugi quando ci arrendiamo e non siamo disposti ad ammetterlo. È un brutto, bruttissimo segno, quando gli italiani leggono Dante in pubblico.

venerdì 29 luglio 2011

白日依山尽

Alle 14:23 di giovedì 28 luglio 2011, sul mio quaderno di cinese la carta ha lentamente assorbito, tratto dopo tratto, dell'inchiostro nero, dando forma al primo verso della prima poesia cinese che abbia mai imparato direttamente dall'originale: 

白日依山尽


Il momento andava documentato con la dovuta ufficialità.
Per una possibile versione italiana di una poesia che in Cina conoscono pure i bambini allo stesso modo in cui i bambini tedeschi conoscono la storia delle mele marce che Schiller teneva nel cassetto della scrivania per trarre ispirazione dal loro odore, posso passare ancora tranquillamente dei giorni a pensare ad un sole bianco che dopo essersi posato sulla montagna declina fino a sparire alla vista.

giovedì 28 luglio 2011

Accoglienze trionfali

È un peccato, trovo, che G. si limiti a scrivere delle email. Se solo si dedicasse un po' alla scrittura con la stessa attenzione e costanza che riserva ai pomodori, alle patate, alle lingue, alla storia e alla fisica quantistica, potrebbe scrivere un testo, anche breve, di un centinaio di pagine. Un centinaio di pagine basterebbero per raccontare una storia. La sua, conoscendolo, sarebbe una storia semplice e cristallina, con presente e passato (e tracce di futuro) in reciproco, armonico dialogo.
Ho preso un libro, "La lunga notte dei Mille", Paolo Brogi, Aliberti editore. Racconta come è andata a finire con i Mille dal punto di vista delle loro storie personali: in molti casi male, furono tutti maltrattati e malvisti. 
Forse ti ricordi di X, che da noi aveva funzioni di portiere, messo, ecc.: si è laureato e si occupa di cose storiche. Scrive che nel 1867 Garibaldi andò a Vicenza (e a Lonigo e a Chioggia e in altre parti del Veneto) per sostenere alle elezioni il candidato della sinistra, in opposizione al conte Fedele Lampertico. L'accoglienza a Garibaldi fu trionfale, parlò dalla Basilica ad una folla che riempiva tutta la Piazza dei Signori. Lampertico divenne senatore del regno. Solo X conosce il nome dell'altro candidato. 
Il prof. Isnenghi, intervistato alla radio qualche giorno fa, raccontava, per la medesima tornata di elezioni, che a Chioggia l'entusiasmo per Garibaldi fu tale che la folla staccò il cavallo e portò direttamente a spalle il calesse con dentro Garibaldi, in centro città. Ma i voti a Chioggia li prese quell'altro. 
Da un'email di G., 26 luglio 2011
Il nome dell'altro candidato - scopro ora, grazie a Google Books e a Silvio Lanaro - era Angelo Piloto. Tanto per non lasciare da solo X con il fardello di un mezzo-segreto proprio ora che si è riuscito a liberare da chi, come ogni sostenitore dei Lampertico dei giorni nostri che si rispetti, gli prospettava di fare il portiere, il messo, ecc. per tutta la vita.
È anche per attrazione verso sentieri segnati da tracce così che una delle fonti delle mie distrazioni è la storia e - ahimè - la storia italiana.

Aggiornamento del 29 luglio 2011, ovvero se Maometto non va alla montagna...

G. ha aggiunto qualche altro particolare, dopo aver precisato, travisando intenzionalmente il senso delle mie parole, ma gratificandomi al contempo con il dono di qualche parola in una bellissima lingua, che la sua vita non è così importante da poter scrivere un libretto con la sua storia (mejin leven, denk ik, is niet zoveel gewichtig dat ik en boekje met meijn geschiedenis schrijven kan).
Ci sono in effetti due novità, come spesso capita una buona e una cattiva, e delle altre strade che si diramano a partire dalle elezioni politiche del 1867. La notizia positiva è che i suoi pomodori sono grandi, rotondi e rossi (Meijn tomaten zijn groot, rond en rood). Non hanno invece avuto la stessa buona sorte le patate, quest'anno, forse per la troppa pioggia (Maar de aardappelen deze jaar gaan helemaal niet... Te veel regen, misschien).
Quanto alle altre strade, ora a G. e a me resta una curiosità, che sarà probabilmente difficile riuscire a soddisfare appieno, quella di sapere che fine fece Piloto, che X ha confermato essere proprio il candidato che, come da copione, perse le elezioni a Vicenza contro il conte Lampertico, il famoso industriale delle filande. Per il momento, siamo solo riusciti a trovare che nel suo testamento Piloto diede indicazione di dare vita ad una fondazione, che prese il suo nome, "per la parte più bisognosa e sofferente della classe operaia di Vicenza, preferendo sempre quelli che, in onta al continuo lavoro ed al risparmio, non guadagnino tanto quanto basti loro per vivere".
Abbiamo poi entrambi notato, grazie al summenzionato Lanaro, che un secondo eletto si chiamava Fogazzaro: purtroppo ignoriamo - altra curiosità da soddisfare, seppure solo in seconda battuta - se questi fosse parente di quell'Antonio che a Velo d'Astico nel 1907 si fece costruire, mobilitando non meno di 200 operai, una villa (menzionata nel suo Leila). La villa fu distrutta nel '16 dal fuoco amico inteso a fermare la ben nota Strafexpedition degli imperialregi. Fogazzaro/Valmarana possedeva altresì un castello e vaste proprietà a Montegalda, nonché una grande villa sul lago d'Orta (personalmente indissociabilmente legato al poeta Ragazzoni, come sanno i lettori che passano di qui). Antonio, come noto, fu il modernista che, grazie alle sue ricchezze e ai suoi possedimenti, si potè permettere di litigare un po' con madre chiesa, la quale, per punirlo, non esitò a trafficare con gli svedesi per evitare che gli concedessero il premio Nobel. Fu così che nel 1906 lo vinse il senza dio Carducci dell'inno a Satana (A te, de l'essere/Principio immenso,/Materia e spirito,/Ragione e senso).
Per quanto riguarda infine il terzo eletto di Vicenza, il Rossi dei lanifici di Schio, ci piace ricordare che fu quello che nel '98, l'anno di Bava Beccaris, lasciò senza lavoro 300 operai rei di avere scioperato a causa delle condizioni di lavoro inumane cui erano sottoposti nei suoi stabilimenti: quasi tutti lasciarono l'Italia per il Brasile.
Ricostruita negli anni '20 e poi divenuta proprietà dell'ordine religioso delle Passioniste di San Paolo della Croce, non va confusa con la Villa Valmarana, a Seghe di Velo, della suocera di Antonio, nonché sorella del senatore Fedele LamperticoGiuseppina Lampertico-Valmarana:  tout se tient.

mercoledì 27 luglio 2011

Europa mira siempre para otro lado

Ogni stato europeo si è chiuso in sé: uno apre la guerra in Libia, un altro, appena fatto il giusto esame sui diritti umani ai cinesi in visita, vende 200 carri alla radicata democrazia saudita per reprimere i riottosi, affini agli stessi che in Libia diciamo di voler sostenere come primavera nordafricana, un terzo addestra forze saudite contro gli insorti yemeniti, definiti coraggiosi, salva la Siria, un quarto rimuove unilateralmente le regole frontaliere di Schengen, un quinto finge di non aver mai saputo dei metodi del grande magnate liberista australiano dei mezzi di comunicazione, un sesto si balocca da più di un anno senza governo su beghe da condominio, un settimo mantiene pervicacemente al potere un uomo condannato per truffa e corruzione, tutti accettiamo le valutazioni di una o più agenzie private non europee, che non hanno saputo e voluto prevedere la crisi, poiché ne sono complici, sul debito degli stati, dando infine tutti addosso ai greci che contano per il 2% dell'economia europea, chiedendo loro, un ottavo paese membro, stolidamente il Partenone come garanzia.
Naturalmente tutti siamo per la pace e il progresso e intanto in casa succedono i fatti di Norvegia. Come dice oggi El País "Europa mira para otro lado": me parece que Europa mira siempre para otro lado e non si accorge che il mondo sta cambiando. 
Da un'email del mio amico G., 26 luglio 2011

山寨/Entschöpfung

[...]

Com'è arrivato Byung-Chul Han alla lingua e alla filosofia tedesca? Da dove ha attinto l'energia per una tale carriera, che lo ha portato fino all'abilitazione, cosa che nessun altro asiatico ha conseguito nell'ambito delle discipline umanistiche tedesche?
Han ha posto una serie di ostacoli nel gioco domanda-risposta che costituisce il fondamento di ogni ritratto giornalistico. Non solo mi ha gentilmente ma perentoriamente chiesto di spegnere il registratore e di affidarmi ai soli appunti presi a mano, si è anche rifiutato di rispondere alla mia semplice domanda sulla sua età. In Asia, spiega - in parte per vezzo, in parte scusandosi - la data di nascita di una persona ha molta meno importanza di quanta ne abbia in Occidente. Una cultura che considera il mondo come un processo che si ripete ciclicamente non affronta né la nascita né la morte pateticamente, come fa il pensiero occidentale. Niente racconti sulla genesi come in Occidente [a lezione di cinese l'insegnante mi ha parlato del caos, di un uovo e di Pángǔ], niente miti a fondamento della società. E Han è già al cuore della sua teoria della "Entschöpfung" [un suo neologismo: "decreazione"], che egli espone nel suo ultimo saggio "Shānzhai". Il neologismo cinese si può tradurre con "falso" ["prodotto contraffatto"] e designa in superficie le cose tangibili del mondo delle merci: per esempio i telefoni cellulari prodotti in Cina, che assomigliano più o meno ai loro modelli e rispondono a nomi più o meno simili come "Nokir" o "Samsing". Prodotti che si sviluppano via via in direzioni più distanti dall'originale, così che la nota marca "Adidas" dapprima è Adidos e poi diventa Adadas, Adadis, Adis ed infine Dasida.

Il significato di "contraffazione" si attaglia solo in parte a quello che in prospettiva occidentale sono efficaci appropriazioni degli originali. In fin dei conti, sostiene Han, il concetto cinese di originale non è determinato da un atto creativo estemporaneo. Non si può pensare in termini di un'identità definitiva perché tutto è sottoposto a continua trasformazione. Attraverso gli occhiali-shānzhai, l'istanza dell'unicità sembra altrettanto assurda della categoria della contraffazione. Quando per esempio si è saputo che i soldati di terracotta cinesi esposti nel 2007 dal Museo Etnologico di Amburgo non erano altro che repliche realizzate sul posto parallelamente al recupero in Cina di quelli antichi, il museo tedesco si è sentito imbrogliato e ha chiuso con sdegno la mostra. I cinesi, tuttavia, non hanno avuto la percezione di aver agito con l'inganno o di aver commesso qualcosa di vietato; ai loro occhi la pratica della copiatura si riconduceva con continuità all'antichissimo processo di produzione delle figure, che - avessero o meno una data di produzione vecchia o nuova - svolgevano comunque sempre la medesima funzione.

[...]

La parola artificiale shānzhai non designa niente altro che un metodo di decostruzione. "Shānzhai," dice Han, "è Ent-Schöpfung" e significa: prima dell'inizio del mondo occidentale, trasformato in feticcio, prima del mito, della nascita e dell'assioma filosofico, c'è sempre già qualcosa d'altro - cioè creazione ["Schöpfung"], c'è una pozza da cui attingiamo l'acqua ["schöpfen" significa anche attingere acqua]. Se abbandoniamo i concetti sclerotizzati di originalità e genio e di una creatio ex nihilo, così auspica il filosofo, potrebbe essere possibile un pensiero di gran lunga più flessibile. La filosofia potrebbe così rilassarsi in un gioco produttivo, che potrebbe farci ottenere risultati completamente nuovi. "Noi tutti dovremmo" - così richiede - "giocare di più e lavorare di meno. Allora creeremmo anche di più!" Oppure è solo per caso che i cinesi, ai quali i concetti di genio e originale sono estranei, sono responsabili di tutte le invenzioni - dalla pasta alla pirotecnica - che hanno plasmato la cultura occidentale?

[...]

martedì 26 luglio 2011

XII

Entonces estaba yo
en un bar alemán del centro de Roma
con una bebedera de cerveza y un habla
hasta por los codos de cuanto existe con una
becaria venezolana cuando de pronto
se me vino de necedades con aquello
de que “la cuestión de nuestros pueblos
se ve más clara desde Europa” pero
sus ojos eran dos culos de botella
y entonces los últimos tragos
los tomé lejos solo en Trastévere

Víctor Valera Mora
Cantares romanos, XII


Dunque me ne stavo
in un bar tedesco del centro di Roma
bevendo birra e parlando
senza sosta di quello che esiste con una
borsista venezuelana quando all'improvviso
mi son venute in mente scemate tipo quella
che “la questione dei nostri popoli
si vede più chiaramente dall'Europa” ma
i suoi occhi erano due fondi di bottiglia
e allora gli ultimi sorsi
li ho presi lontano da solo a Trastevere

lunedì 25 luglio 2011

E sei sempre tu

E sei sempre tu, hai quegli occhi nel '43
li avevi nel '17
li avevi a Solferino nel '59
sei sempre tu dalle truppe di Napoleone
di Attila di Cortez
di Cesare e Scipione
tu, disertore di professione
nascosto tra i cespugli
a spiarli mentre fanno i bisogni
per fermare la storia.
Tu, scarico della memoria.

Franco Buffoni
Guerra, Milano, 2005

(Et c'est toujours toi, t'as ces yeux-là en 1943/tu les avais en 1917/tu les avais à Solférino en 1859/c'est toujours toi des armées de Napoléon/d'Attila de Cortez/de César et de Scipion/toi, déserteur de profession/caché dans les buissons,/qui les espionnes quand ils font leur besoins/pour arrêter l'histoire./Toi, décharge de la mémoire.)

((La guerra, soprattutto quella di Napoleone, è presente dietro e sotto i nomi di molte stazioni del métro: lui stesso, dopo esser stato strappato dalla noia di Sant'Elena, si trova proprio sopra la stazione Invalides. Solférino si è meritata una stazione tutta per sé. Verdun invece, con le sue centinaia di migliaia di morti, no: ci ho pensato ieri sera, lasciando, un po' immalinconita, la Gare de l'Est, sotto il cui pannello del métro c'è scritto proprio Verdun, ma a lettere molto più piccole di quelle usate per la Gare de l'Est, il che significa che se i soldati francesi non fossero partiti per il fronte da quella stazione, per Verdun probabilmente non ci sarebbero neanche quei piccolissimi caratteri. La stazione Au déserteur non ci sarà mai da nessuna parte, se escludiamo questo blog.))

Sehr verehrte Damen und Herren, alle fünf Sekunden

Originariamente il sociologo svizzero Jean Ziegler avrebbe dovuto tenere il discorso di apertura del festival di Salisburgo di quest'anno. A causa della sua presunta vicinanza con il despota libico Gheddafi, gli è stato però ritirato l'invito. Ciò nonostante, Ziegler ha scritto il suo discorso. Il sito sueddeutsche.de ne documenta il testo.

*
Buongiorno, 
il testo di Jean Ziegler qui tradotto e pubblicato per intero è protetto da diritto d'autore e non può assolutamente essere pubblicato senza autorizzazione. La prego di toglierlo entro oggi, 09/11/2011, altrimenti gli avvocati dei Proprietari dei diritti (Ecowin Verlag, Austria) dovranno prendere i dovuti provvedimenti. Grazie per la collaborazione. 
Sibylle Kirchbach
Agenzia Letteraria Internazionale, Milano


*

Buongiorno,
rimosso il 9 novembre 2011. Prego. Peccato, però.

giovedì 21 luglio 2011

Zapomniane przez wielki dzień

Ignorati dalla luce diurna, i cardi, le erbacce e i fiori campestri fiorivano a profusione, grati per la pausa che passavano a sognare a margine del tempo, ai confini del giorno infinito. Un enorme girasole, issato su un potente stelo e sofferente di ipertrofia, aspettava vestito di giallo lutto la fine dei suoi giorni, piegato sotto il fardello della propria mostruosa corpulenza. Ma le ingenue campanule di periferia e i semplici fiorellini di percalle rimanevano impotenti nelle loro inamidate camicette rosa e bianche, indifferenti alla tragedia del girasole.

Da Août (Sierpień), Les boutiques de cannelle (Sklepy Cynamonowe), traduit du polonais par Georges Lisowski.
Bruno Schulz, Oeuvres complètes, Denoël 2004

Bonus version: Augusztus.

Венецианские строфы (2), VIII

Я пишу эти строки, сидя на белом стуле
под открытым небом, зимой, в одном
пиджаке, поддав, раздвигая скулы
фразами на родном.
Стынет кофе. Плещет лагуна, сотней
мелких бликов тусклый зрачок казня
за стремленье запомнить пейзаж, способный
обойтись без меня.

Иосиф Бродский, Венецианские строфы (2), VIII, 1982

Io scrivo questi versi, seduto su una sedia bianca,
a cielo aperto, d'inverno, in giacca,
ebbro, e pronuncio frasi che allargano gli zigomi
nella lingua che è mia.
E intanto nella tazza si raffredda il caffè.
Sciaborda la laguna e tormenta con cento minimi sprazzi
lo sguardo intorbidito dall'ansia di fissare questo paesaggio
capace di fare a meno di me.

Iosif Brodskij, Strofe veneziane (2), VIII, 1982
Traduzione di Giovanni Buttafava

O piątej godzinie rano

Alle cinque del mattino - mattinata rutilante di un sole precoce - la casa era già immersa nel chiarore ardente e silenzioso dell'alba. A quest'ora solenne in cui nessuno spia - mentre al riparo delle tende di tela abbassate per le camere correva ancora il respiro fraterno dei dormienti - tutto l'edificio entrava sempre nel braciere silenzioso della sua facciata, modellata, si sarebbe detto, da palpebre chiuse sulla soavità dei sogni. Approfittando della tregua di quelle ore propizie, priva di luce, la casa, con il suo aspetto ancora assopito, con tutto il groviglio dei suoi tratti leggermente tremolanti sotto i sogni dell'ora intensa, beveva le prime luci del giorno. Ondeggiante nel chiarore, l'ombra dell'acacia sulla piazza veniva a ripetere sulla calda superficie delle palpebre, come su una tastiera, la sua piccola frase scintillante, sempre la stessa, appena lavata dalla brezza, e si sforzava, ma invano, di penetrare fin nel vivo di quel sonno dorato. Tratto dopo tratto, la tela delle tende beveva l'incendio del mattino e, inabissandosi nello sconfinato nitore, aggiungeva sempre la sua tinta di bronzo.
A quest'ora vergine, incapace di ritrovare il sonno, Papà, sovraccarico di libri, scendeva dalle scale per aprire il negozio, situato al piano terra dell'edificio. Rimaneva così in piedi un momento, immobile, gli occhi chiusi, affrontando il potente attacco della luce solare. Dolcemente, la facciata soleggiata lo assorbiva fino all'annientamento nella sua piattezza beatamente levigata e lucida. Lo spazio di un istante, e diventava un padre piatto, si incrostava nel muro e sentiva le proprie mani tiepide e vibranti diventare ramoscelli, rapprendersi tra gli ornamenti in stucco del muro. (Quanti padri - alle cinque del mattino - sono penetrati per sempre nella facciata della loro casa, nel momento stesso in cui hanno finito di scendere dall'ultimo gradino! Quanti padri sono così assurti a bigliettai perpetui della loro porta, mascheroni d'oro scolpito, la mano ancora sulla maniglia, il viso decomposto in solchi dolcemente paralleli, ritrovati più tardi uno ad uno dalle dita che accarezzano i loro figli che ne elemosinano le ultime vestigia, per sempre fusi nell'universale sorriso della facciata!) Ma presto, per un residuo di volontà, riusciva a strapparsi dal muro, a riconquistare la terza dimensione e, di nuovo uomo, liberava la porta di ferro del negozio dal suo ciarpame di chiavistelli e lucchetti.

Arditamente da La morte-saison (Martwi sezon), Le sanatorium au croque-mort (Sanatorium pod klepsydrą), traduit du polonais par Allan Kosko
Bruno Schulz, Oeuvres complètes, Denoël 2004
(In rete circola un'altra traduzione in francese che, pur essendo dello stesso traduttore, è leggermente diversa da quella del volume qui indicato.)

mercoledì 20 luglio 2011

So, jetzt kehre ich zu meinen Zahnschmerzen zurück

Prag, 6.2.1914
Mein lieber Max!

Ich sitze zuhause mit Zahnschmerzen und Kopfschmerzen.
[...]
Du hättest Musil meine Adresse gar nicht geben sollen. Was will er? Was kann er, und überhaupt jemand, von mir wollen? Und was kann er von mir haben?
So, jetzt kehre ich zu meinen Zahnschmerzen zurück.
[...]

Franz
(aus einem Brief an Max Brod)

(Robert Musil, der damals Redakteur der Neuen Rundschau war, wollte Kafka als Mitarbeiter gewinnen.) 

23. II 14
Ich fahre. Brief von Musil. Freut mich und macht mich traurig, denn ich habe nichts.
(Tagebücher)




(Die Verwandlung (nichts!) hatte Musil sehr gut gefallen, aber...)


Verehrter Herr Doktor!

In dieser Sache geschieht mir Unrecht und gewiß auch Ihnen. Die Geschichte wurde geprüft, lag genug lange in der Redaktion, um in jeder Hinsicht, auch auf die Länge hin, geprüft werden zu können und wurde schließlich bedingungslos angenommen oder vielmehr nur unter der einen von mir überreichlich erfüllten Bedingung, daß man mit der Veröffentlichung längere Zeit warten dürfe. Und jetzt nachdem auch seit dieser Annahme Monate vergangen sind, verlangt man, ich solle die Geschichte um 1/3 kürzen. Das ist unwürdig gehandelt.

Praga, 6.2.1914
Mio caro Max!

Sono a casa con il mal di denti e il mal di testa.
[...]
Non avresti dovuto dare a Musil il mio indirizzo. Cosa vuole? Cosa può volere - lui e comunque chiunque altro - da me? E cosa può avere da me?
Ecco, ora ritorno al mio mal di denti.
[...]

Franz
(da una lettera a Max Brod)

(Robert Musil, che allora era redattore della Neue Rundschau, voleva avere Kafka come collaboratore.) 

23.2.14
Parto. Lettera di Musil. Mi fa piacere e mi rende triste, perché non ho niente.
(Diari)

(A Musil era molto piaciuta La metamorfosi (niente!), ma...)

Egregio Signor Dottore!

In questa cosa si fa torto a me e sicuramente anche a Lei. La storia è stata esaminata, è rimasta abbastanza a lungo in redazione per poter essere esaminata in ogni aspetto, anche quanto a lunghezza, e alla fine è stata accettata senza condizioni o, piuttosto, solo a condizione, da me oltremodo soddisfatta, che si dovesse aspettare più a lungo per la pubblicazione. E ora, dopo che anche da questa approvazione sono passati dei mesi, si pretende che io debba accorciare la storia di 1/3. È un trattamento indegno.

Ale książki

Ale książki będą na półkach, prawdziwe istoty,
Które zjawiły się raz, świeże, jeszcze wilgotne,
Niby lśniące kasztany pod drzewem w jesieni,
I dotykane, pieszczone, trwać zaczęły
Mimo łun na horyzoncie, zamków wylatujących w powietrze,
Plemion w pochodzie, planet w ruchu.
Jesteśmy — mówiły, nawet kiedy wydzierano z nich karty
Albo litery zlizywał buzujący płomień.
O ileż trwalsze od nas, których ułomne ciepło
Stygnie razem z pamięcią, rozprasza się, ginie.
Wyobrażam sobie ziemię kiedy mnie nie będzie
I nic, żadnego ubytku, dalej dziwowisko,
Suknie kobiet, mokry jaśmin, pieśń w dolinie.
Ale książki będą na półkach, dobrze urodzone,
Z ludzi, choć też z jasności, wysokości.

Czesław Miłosz, Kroniki, Kraków 1988


Tuttavia i libri

Tuttavia i libri saranno sugli scaffali, veri esseri
che apparvero una volta, freschi, ancora umidi,
come luccicanti castagne sotto un albero in autunno,
e toccati, accarezzati, cominciarono a vivere
malgrado i fuochi all'orizzonte, i castelli esplosi,
le tribù a passo di marcia, i pianeti in moto.
Noi siamo - dicevano, persino quando le pagine
venivano strappate, o una fiamma tremolante
ne lambiva ed asportava le lettere.
Così più duraturi di noi, il cui debole calore
si raffredda con la memoria, si dissipa, svanisce.
Immagino la terra quando non ci sarò più:
e niente, nessuna perdita, ancora uno strano sfoggio,
abiti femminili, lillà coperti di rugiada, una canzone nella valle.
Tuttavia i libri saranno sugli scaffali, nati bene,
da esseri umani, ma anche da splendore, da cime.

(cfr., volendo)

martedì 19 luglio 2011

пустяк: дыра, - но небольшая

Теперь меня там нет. Означенной пропаже
дивятся, может быть, лишь вазы в Эрмитаже.
Отсутствие мое большой дыры в пейзаже

не сделало; пустяк: дыра, - но небольшая.
Ее затянут мох или пучки лишая,
гармонии тонов и проч. не нарушая.

Иосиф Бродский, Пятая годовщина (4 июня 1977)


Ora non sono più laggiù. E di questo passaggio
di stato si stupiscono, forse, solo i vasi all'Ermitage.
La mia assenza un gran buco nel paesaggio

non ha fatto; un'inezia: un buchetto, piccino.
Lo copriranno muschi e ciuffi di lichene.
Senza infrangere, a non dir altro, l'armonia dei toni.

Iosif Brodskij, Quinto anniversario (4 giugno 1977)
Traduzione di Giovanni Buttafava

Che polli che siamo

Prag, 10 VII 14

Liebe Ottla nur paar Worte in Eile vor dem Versuch zu schlafen, der in der gestrigen Nacht gänzlich mißlungen ist. Du hast mir, denke nur, mit Deiner Karte einen verzweifelten Morgen in Augenblicken erträglich gemacht. Das ist das wahre Reiben und so wollen wir es bei Gelegenheit weiter üben, wenn es Dir recht ist. Nein, ich habe niemanden sonst am abend. Von Berlin schreibe ich Dir natürlich, jetzt läßt sich weder über die Sache noch über mich etwas Bestimmtes sagen. Ich schreibe anders als ich rede, ich rede anders als ich denke, ich denke anders als ich denken soll und so geht es weiter bis ins tiefste Dunkel.

Franz

Grüße alle! Den Brief mußt Du weder zeigen, noch herumliegen lassen. Am besten Du zerreißt ihn und streust ihn in kleinen Stücken von der Pawlatsche den Hühnern im Hof, vor denen ich keine Geheimnisse habe.

Franz e Ottla a Zürau


Praga, 10.7.14

Cara Ottla solo un paio di parole di fretta prima del tentativo di dormire, che la scorsa notte è totalmente fallito. Con la tua cartolina penso che in un attimo mi hai reso sopportabile una mattina disperata. Questo è il vero scontro e così alla prima occasione bisognerebbe che ci esercitassimo ancora, se per te va bene. No, non ho nessuno da me la sera. Da Berlino ovviamente ti scriverò, ora non riesco a dire qualcosa di preciso né sulla cosa né su di me. Scrivo diversamente da come parlo, parlo diversamente da come penso, penso diversamente da come dovrei pensare e così via fino all'oscurità più profonda.

Franz

Saluti a tutti! La lettera non la devi né mostrare né lasciare in giro. Sarebbe meglio che tu la strappassi  e che ne gettassi i pezzetti dal balcone ai polli giù in cortile: per loro non ho segreti.

La cosa è lo scioglimento del fidanzamento con Felice Bauer.
Pawlatsche è termine ceco trasposto in tedesco. Si trova anche in Lettera al padre. Secondo un'etimologia popolare, deriverebbe da parvula loggia.

lunedì 18 luglio 2011

ein trauriges Stück

Kratzau, Marktplatz
Stempel (timbro): Kratzau - 25. 11. 11

Es wird Dich doch liebe Ottla interessieren, daß ich in dem Hotel zum Roß auf der andern Seite einen Kalbsbraten mit Kartoffeln und Preiselbeeren, hierauf eine Omelette gegessen und dazu und hierauf eine kleine Flasche Apfelwein getrunken habe. Unterdessen habe ich mit dem vielen Fleisch das ich bekanntlich nicht zerkauen kann, teilweise eine Katze gefüttert, teilweise nur den Boden verschweinert. Dann setzte sich die Kellnerin zu mir und wir sprachen von des »Meeres und der Liebe Wellen«(*) zu denen abends zu gehn wir unabhängig von einander uns entschlossen hatten.
Es ist ein trauriges Stück.

Ti interesserà di sicuro sapere, cara Ottla, che all'hotel zum Roß dall'altra parte ho mangiato un arrosto di vitello con patate e mirtilli rossi, e poi un'omelette e poi ho anche bevuto una piccola bottiglia di sidro. Frattanto, con la molta carne che, come sai, non riesco a masticare bene, ho in parte dato da mangiare ad un gatto, in parte imbrattato il pavimento. Poi la cameriera è venuta a sedersi da me e abbiamo parlato delle Onde del mare e dell'amore, a cui avevamo deciso di andare la sera indipendentemente l'uno dall'altro.
È un dramma triste.


* Im Theater dreimal immer ausverkauft: Des Meeres u. der Liebe Wellen: ich saß auf dem Balkon, ein allzu guter Schauspieler macht mit dem Naukleros zu viel Lärm, ich hatte mehrmals Tränen in den Augen so beim Schluß des ersten Aktes als die Augen Heros und Leanders von einander nicht los können. Hero tritt aus der Tempeltür, durch die man etwas sieht was nichts anderes als ein Eiskasten sein kann. Im zweiten Akt Wald wie in frühern Prachtausgaben, er geht ans Herz, Lianen schlingen sich von Baum zu Baum. Alles moosig und dunkelgrün. Die Hintergrundmauer des Turmgemaches kehrt an einem nächsten Abend in Miss Dudelsack wieder. Vom dritten Akt ab Niedergang des Stückes, als sei ein Feind dahinter her.
Reise nach Friedland und Reichenberg, Februar 1911

A teatro tre volte sempre tutto esaurito: Le onde del mare e dell'amore: avevo un posto in balconata, un attore troppo bravo faceva troppo rumore con Naukleros, io ebbi più volte le lacrime agli occhi, come alla fine del primo atto, quando Ero e Leandro non riescono a staccarsi gli occhi di dosso. Ero esce dalla porta del tempio, attraverso la quale si vede qualcosa che non può essere altro che una ghiacciaia. Nel secondo atto, il bosco come in precedenti edizioni di lusso va diritto al cuore, liane si attorcigliano da un albero all'altro. Tutto ricoperto di muschio e verde scuro. Il muro di fondo nella stanza della torre è riproposto la sera seguente in Miss Dudelsack. A partire dal terzo atto il declino del dramma, come se dietro ci fosse un nemico.
Viaggio a Friedland e Reichenberg, febbraio 1911

sabato 16 luglio 2011

Storia di un esergatore - 3

Diventare esergatore di professione, in fondo, a pensarci adesso, è stato un ripiego. Avrei voluto fare il catalogatore specializzato nella catalogazione delle opere letterarie che contengono riferimenti al principio di indeterminazione di Heisenberg. Da camparci per una vita intera. Mi ha trattenuto dal dare corso alla mia aspirazione l'idea che un mio apprendista, un giorno, avrebbe incluso il mio catalogo nella lista. 

venerdì 15 luglio 2011

Voroněž

Hned ve žvanivém nádražním hemžení:
rubášný muž!
Pane Osipe, dovolte, abych
setřel prach obuvi vaší.

Nedovolil.

Ludvík Kundera

Proprio nel brusio brulicante della stazione:
un uomo in un sudario!
Signor Osip, mi permetta
di toglierle la polvere dalle scarpe.

Non me lo permise.

giovedì 14 luglio 2011

Sotto il rombo degli aerei da guerra

Il paradosso del 14 luglio

Paradoxe (paradosso): anticamente paradoce; "contraddizione". Ripreso, alla fine del Medioevo, dal greco paradoxos, "contrario all'opinione comune". Cosa c'è di più paradossale della sfilata militare del 14 Luglio? Immaginiamo che una folla armata si raduni davanti ad una prigione parigina allo scopo di prenderla d'assalto e di liberarne i detenuti (esattamente quello che è successo il 14 luglio 1789). Le forze armate interverrebbero più che probabilmente per disperderla, e d'altra parte è per questo che esistono. Ed ecco che l'esercito di oggi "commemora" un evento che i suoi predecessori non erano riusciti ad impedire: un po' come se Madame Boutin guidasse un carro armato al gay pride.

Langue sauce piquante, le blog des correcteurs du Monde.fr, 14.7.2008

Magari uno pensa che sia la Francia di Sarkozy. Eh. Il 14 luglio 2011, Madame Aubry, candidata alle primarie del partito socialista per le prossime presidenziali, pensa all'esercito francese, a cui rende omaggio, e ai soldati francesi, impegnati nel mondo, che difendono con coraggio i valori della Francia.
Magari poi uno pensa che è in Europa che la memoria si è addormentata. Eh. Un allievo giapponese della mia insegnante di cinese, sempre nel luglio del 2011, sostiene che i giapponesi sono entrati in guerra per respingere (repousser) i tedeschi.
Aggiornamento del 15 luglio: Madame Joly, che si presenterà alle presidenziali per i verdi, è la sola a desiderare, per il 14 Luglio, una sfilata cittadina e non militare. È stata prontamente bacchettata a 360°.
Per ricordare i valori della Francia, hanno accompagnato i fuochi d'artificio di rito con dei pezzi tratti da commedie musicali, per la stragrande maggioranza, visto il genere, statunitensi. Il pubblico ha dimostrato di apprezzare.
Il motto Liberté, égalité, fraternité, ovvero la triade dei valori repubblicani, come si sa, è stato formulato da Robespierre. Non c'è neanche una via a lui dedicata in tutta Parigi. Lo so prima di tutto perché l'avevo verificato tempo fa cercando rue, avenue, place, ecc. (persino scala, avevo cercato) Robespierre, anche se a dire il vero un dubbio residuo m'era rimasto (e se gli avessero riservato un vicoletto o uno slarghetto? - mi chiedevo). Poi ne ho trovato conferma quando recentemente hanno dato la notizia che la richiesta del Front de Gauche di intitolargli una via è stata respinta. È il Terrore che ha impedito la dedica, è il Terrore la maggiore controversia. Nessuna controversia invece per dedicare una piazza all'imperatore Napoleone III. Place Napoléon III non è un vecchio residuo toponomastico: la piazza in questione è stata così battezzata nel 1990.
Aggiornamento del 27 luglio: oggi, con inspiegabile ritardo, ho scoperto che la linea 9 del métro di Parigi ha la stazione Robespierre, il che per un pelo non ha distrutto completamente tutto quanto scritto finora: la stazione Robespierre, anche se solo per un pelo, non rientra nel territorio del comune di Parigi. Il sentimento di aver detto complessivamente delle sciocchezze, però, rimane.

diese Stelle wollte mit dem Tagebuch nicht stimmen

Riva, Il Porto colla torre Aponale
Stempel (timbro): Riva, 18. September 1913

Heute war ich in Malcesine, wo Goethe das Abenteuer gehabt hat, das Du kennen würdest, wenn Du die »Italienische Reise« gelesen hättest, was Du bald tun sollst. Der Kastellan zeigte mir die Stelle, wo Goethe gezeichnet hat, aber diese Stelle wollte mit dem Tagebuch nicht stimmen und so konnten wir darin nicht einig werden, ebensowenig wie im Italienischen.
Grüße alle!
Franz

Oggi sono stato a Malcesine, dove Goethe ha avuto l'avventura che tu conosceresti se avessi letto Il viaggio in Italia, cosa che devi fare presto. Il castellano mi ha mostrato il posto dove Goethe ha disegnato, ma questo posto non voleva coincidere col diario e così non siamo riusciti a metterci d'accordo, né siamo riusciti a farlo in italiano.
Saluti a tutti!
Franz

mercoledì 13 luglio 2011

me estoy esperando inútilmente

   Imagino al hombre como una ameba que tira seudópodos para alcanzar y envolver su alimento. Hay seudópodos largos y cortos, movimientos, rodeos. Un día eso se fija (lo que llaman la madurez, el hombre hecho y derecho). Por un lado alcanza lejos, por otro no ve una lámpara a dos pasos. Y ya no hay nada que hacer, como dicen los reos, una es favorito de esto o aquello. En esta forma el tipo va viviendo bastante convencido de que no se le escapa nada interesante, hasta que un instantáneo corrimiento a un costado le muestra por un segundo, sin por desgracia darle tiempo a saber qué,
   le muestra su parcelado ser, sus seudópodos irregulares,
   la sospecha de que más allá, donde ahora veo el aire limpio,
   o en esta indecisión, en la encrucijada de la opción,
   yo mismo, en el resto de la realidad que ignoro
   me estoy esperando inútilmente.

   (Suite)
   Individuos como Goethe no debieron abundar en experiencias de este tipo. Por aptitud o decisión (el genio es elegirse genial y acertar) están con los seudópodos tendidos al máximo en todas direcciones. Abarcan con un diámetro uniforme, su límite es su piel proyectada espiritualmente a enorme distancia. No parece que necesiten desear lo que empieza (o continúa) más allá de su enorme esfera. Por eso son clásicos, che.
   A la ameba uso nostro lo desconocido se le acerca por todas partes. Puedo saber mucho o vivir mucho en un sentido dado, pero entonces lo otro se arrima por el lado de mis carencias y me rasca la cabeza con su uña fría. Lo malo es que me rasca cuando no me pica, y a la hora de la comezón –cuando quisiera conocer-, todo lo que me rodea está tan plantado, tan ubicado, tan completo y macizo y etiquetado, que llego a creer que soñaba, que estoy bien así, que me defiendo bastante y que no debo dejarme llevar por la imaginación.

   (Ultima suite)
   Se ha elogiado en exceso la imaginación. La pobre no puede ir un centímetro más allá del límite de los seudópodos. Hacia acá, gran variedad y vivacidad. Pero en el otro espacio, donde sopla el viento cósmico que Rilke sentía pasar sobre su cabeza, Dame Imagination no corre. Ho detto.

Julio Cortazár, Rayuela, 84

   Immagino l'uomo come un'ameba che tira pseudopodi per raggiungere ed avvolgere il proprio alimento. Ci sono pseudopodi lunghi e corti, movimenti, giri. Un giorno egli si fissa (quel che si chiama la maturità, l'uomo bello e fatto). Da un lato arriva lontano, dall'altro non riesce a vedere una lampada a due passi. E non c'è niente da fare, come dicono i colpevoli, uno è favorito di questo o di quello. In questa forma il tizio continua a vivere abbastanza convinto che non gli sfugga niente di interessante, finché un istantaneo slittamento al fianco gli mostra per un secondo, senza dargli disgraziatamente il tempo di sapere perché,
   gli mostra il suo essere a particelle, i suoi pseudopodi irregolari,
   il sospetto che più in là, dove ora vedo l'aria limpida,
   o in questa indecisione, all'incrocio dell'opzione,
   io stesso, nel resto della realtà che ignoro
   mi sto aspettando inutilmente.

   (Suite)
   Individui come Goethe non dovettero abbondare in esperienze di questo tipo. Per attitudine o decisione (il genio è eleggersi geniale e riuscirci) stanno con gli pseudopodi tesi al massimo in ogni direzione. Abbracciano un diametro uniforme, il loro limite è la loro pelle proiettata spiritualmente a distanza siderale. Non sembra che abbiano bisogno di desiderare quello che comincia (o continua) oltre la loro enorme sfera. Per questo sono classici, ecco.
   All'ameba uso nostro, lo sconosciuto si avvicina da tutte le parti. Posso sapere molto o vivere molto in un dato senso, però l'altro si avvicina dalla parte delle mie carenze e mi gratta la testa con la sua unghia fredda. Il problema è che mi gratta quando non mi prude, e all'ora del prurito  – quando vorrei conoscere - tutto quello che mi circonda è così ben piantato, così ben piazzato, così completo e massiccio ed etichettato, che arrivo a credere di aver sognato, di star bene così, di difendermi abbastanza e di non dovermi lasciare andare all'immaginazione.

   (Ultima suite)
   L'immaginazione è stata eccessivamente elogiata. La poverella non può andare un centimetro oltre il limite degli pseudopodi. Al di qua, grande varietà e vivacità. Però nell'altro spazio, dove soffia il vento cosmico che Rilke si sentiva passare sopra la testa, Dame Imagination non corre. Ho detto.

*

Vom Eise befreit sind Strom und Bäche
Durch des Frühlings holden, belebenden Blick,
Im Tale grünet Hoffnungsglück;
Der alte Winter, in seiner Schwäche,
Zog sich in rauhe Berge zurück.
Von dort her sendet er, fliehend, nur
Ohnmächtige Schauer körnigen Eises
In Streifen über die grünende Flur.
Aber die Sonne duldet kein Weißes,
Überall regt sich Bildung und Streben,
Alles will sie mit Farben beleben;
Doch an Blumen fehlts im Revier,
Sie nimmt geputzte Menschen dafür.
Kehre dich um, von diesen Höhen
Nach der Stadt zurück zu sehen!
Aus dem hohlen finstern Tor
Dringt ein buntes Gewimmel hervor.
Jeder sonnt sich heute so gern.
Sie feiern die Auferstehung des Herrn,
Denn sie sind selber auferstanden:
Aus niedriger Häuser dumpfen Gemächern,
Aus Handwerks- und Gewerbesbanden,
Aus dem Druck von Giebeln und Dächern,
Aus der Straßen quetschender Enge,
Aus der Kirchen ehrwürdiger Nacht
Sind sie alle ans Licht gebracht.
Sieh nur, sieh! wie behend sich die Menge
Durch die Gärten und Felder zerschlägt,
Wie der Fluß in Breit und Länge
So manchen lustigen Nachen bewegt,
Und, bis zum Sinken überladen,
Entfernt sich dieser letzte Kahn.
Selbst von des Berges fernen Pfaden
Blinken uns farbige Kleider an.
Ich höre schon des Dorfs Getümmel,
Hier ist des Volkes wahrer Himmel,
Zufrieden jauchzet groß und klein:
Hier bin ich Mensch, hier darf ichs sein!
Johann Wolfgang von Goethe, Faust I, 904-940

Il gelo sgombra fiume e rivi
al mite sguardo di primavera
e torna vita: la valle è verde dall'allegra speranza.
Il vecchio inverno, sfinito com'è,
s'è ritirato fra aspre montagne
e di là manda, in fuga, appena
qualche sprazzo impotente di grandine
a strisce, sui prati già rinverditi.
Ma il sole non tollera nulla di bianco:
vuole a ogni cosa dar vita e colore,
tutto si muove a esistere, a salire.
Se bene spogli di fiori, i campi
recano gente vestita a festa.
Vòltati: e giù da questi colli
guarda verso la città:
dall'arcor buio della porte esce
un brulichio multicolore.
Come sono contenti nel sole!
È la festa di Resurrezione.
Perché anche loro sono risorti:
da stanze grame di case basse,
da servitù di mestieri e di traffici,
da pressura di tetti e di cuspidi,
da vicoli fitti di calca,
da chiese solenni di tenebra
tutti sono sospinti alla luce.
Guarda, su. Guarda. Come va in fretta
la folla e si spande per orti e per campi,
come in lungo e in largo sul fiume
filano tanti gai battelli,
e come, carica che quasi affonda,
s'allontana quell'ultima barca.
Fin dai sentieri lontani dei monti
i colori delle vesti brillano.
Odo già il brusio del borgo.
Qui è paradiso vero del popolo,
felici e contenti tutti quanti.
Qui sono uomo. Qui posso esserlo.

Traduzione di Franco Fortini



Atmen, du unsichtbares Gedicht!
Immerfort um das eigne
Sein rein eingetauschter Weltraum. Gegengewicht,
in dem ich mich rhythmisch ereigne.
Einzige Welle, deren
allmähliches Meer ich bin;
sparsamstes du von allen möglichen Meeren, –
Raumgewinn.
Wieviele von diesen Stellen der Räume waren schon
innen in mir. Manche Winde
sind wie mein Sohn.
Erkennst du mich, Luft, du, voll noch einst meiniger Orte?
Du, einmal glatte Rinde,
Rundung und Blatt meiner Worte.

Rainer Maria Rilke, Sonetten an Orpheus, II, I

Respiro, tu invisibile poesia!
Spazio puro del mondo di continuo
scambiato col proprio essere. Contrappeso
in cui accado ritmicamente.
Onda unica di cui
a mano a mano sono il mare;
infinitamente più piccolo di ogni possibile mare, –
spazio conquistato.
Quanti di questi posti negli spazi sono già stati
dentro di me. Alcuni venti
sono come figli miei.
Mi riconosci, aria, tu ancora piena di luoghi un tempo miei?
Tu, una volta liscia scorza,
rotondità e foglio alle mie parole.

domenica 10 luglio 2011

An die Wäsche denke ich manchmal

Weimar, Goethes Gartenhaus, Schlafzimmer
Stempel: Prag - 2. 1. 18
(Weimar, Padiglione di Goethe, camera da letto
Timbro: Praga, 2.1.18)

Liebe Ottla, so etwa wollte ich es hören und es ist gut. Wann ich komme weiß ich noch nicht, der Direktor macht Schwierigkeiten, heute gehe ich zum Professor, vielleicht bin ich wirklich zu gesund und muß die schwere Probe der Kündigung bestehn. Geht es nicht anders, tue ich es. Wegen Oskar werde ich Dir vielleicht wirklich telegraphieren müssen, aber würdest Du dann im Geheimen eine Nacht in Prag bleiben? Ich werde es zu vermeiden suchen. - Die Phantasie von der glücklichen Mutter im Badezimmer hat mein 2ter Brief schon widerlegt. - An die Wäsche denke ich manchmal. Da sie geflickt war, muß sie, wenn sie wieder geflickt wird, in der Zwischenzeit wieder zerrissen worden sein. Kündige ich hier, werde ich auf die Wäsche nochmehr achtgeben müssen als früher. Übrigens - die Prager Zeit habe ich bisher nicht schlecht bestanden, das gibt Hoffnung.
Franz
Grüße Toni und Hr. Hermann


Cara Ottla, volevo proprio sentire qualcosa di simile: bene. Quando vengo non lo so ancora, il direttore pone delle difficoltà, oggi vado dal professore, forse sono veramente troppo sano e devo passare la difficile prova del licenziamento. Non c'è niente da fare, lo faccio. A causa di Oskar ti dovrò forse veramente telegrafare, ma resteresti una notte a Praga in segreto? Cercherò di evitarlo. - La fantasia della mamma felice nel bagno è già stata confutata dalla mia 2a lettera. - Alla biancheria, qualche volta ci penso.  Siccome era rammendata, se viene di nuovo rammendata, nel frattempo deve essere di nuovo strappata. Qui mi ritiro, dovrò badare ancora più di prima alla biancheria. A proposito: finora non ho sopportato male il periodo praghese, fa ben sperare.
Franz
Saluti a Toni e al sig. Hermann

Innerlich

Nirgends, Geliebte, wird Welt sein, als innen. Unser
Leben geht hin mit Verwandlung. Und immer geringer
schwindet das Außen. Wo einmal ein dauerndes Haus war,
schlägt sich erdachtes Gebild vor, quer, zu Erdenklichem
völlig gehörig, als ständ es noch ganz im Gehirne.
Weite Speicher der Kraft schafft sich der Zeitgeist, gestaltlos
wie der spannende Drang, den er aus allem gewinnt.
Tempel kennt er nicht mehr. Diese, des Herzens, Verschwendung
sparen wir heimlicher ein. Ja, wo noch eins übersteht,
ein einst gebetetes Ding, ein gedientes, geknietes -,
hält es sich, so wie es ist, schon ins Unsichtbare hin.
Viele gewahrens nicht mehr, doch ohne den Vorteil,
dass sie's nun innerlich baun, mit Pfeilern und Statuen, größer!

Rainer Maria Rilke
Aus der Siebenten Elegie, Duineser Elegien

La rocca del castello di Duino visto, minuto minuto, da Sistiana (cliccando sulla foto è un po' meno minuto)

Da nessuna parte, amata, sarà mondo, se non dentro di noi. Il nostro
vivere procede per metamorfosi. E sempre più minuta
diventa la realtà, fino a sparire. Dove una volta c'era una casa sicura,
adesso si presenta solo una forma escogitata, storta, tutta
appartenente al pensabile, come se stesse ancora tutta nella mente.
Ampie riserve di forza si crea lo spirito del tempo, senza figura
come la tensione palpitante che esso da tutto ottiene.
Templi non ne conosce più. Questo spreco, del cuore,
risparmiamo più segretamente. E se sopravvive qualcosa,
una cosa una volta pregata, servita, venerata in ginocchio -,
si protende, così com'è, nell'invisibile.
Molti non la sentono più, ma senza il vantaggio
di costruirla ora interiormente, con pilastri e statue, più grande!

Rainer Maria Rilke
Dalla settima elegia, Elegie duinesi

Nota riservata a coloro che amano gli esperimenti
Esperimento n. 3 - difficoltà: media
Si ripercorra a mente, interiormente, la settima elegia visitando la basilica di San Pietro.

Esperimenti precedenti:
n. 1 - difficoltà: elevata
n. 2 - difficoltà: bassa

sabato 9 luglio 2011

I fallimenti non finiscono mai

Forze italiane di invasione della Cina, 1900

Non paga degli scarsi risultati raggiunti nei miei tentativi di imparare un po' di ungherese e, prima di questo, il russo, il finlandese e il ceco, il proseguimento del cui apprendimento continuo a rimandare sine die esattamente come faccio con il completamento della lettura di Der Mann ohne Eigenschaften, mi sono iscritta ad un corso di cinese. Pur sembrandomi già una specie di meraviglia il fatto che il mio francese venga compreso perfettamente dall'insegnante cinese e viceversa, credo che i progressi saranno tanto lenti quanto numerose le digressioni: nel corso delle prime ore di lezione ci siamo già perse in Mongolia, tra le calli di Venezia, nella Cina di Marco Polo e sui balconi dell'amore (o della bellezza) della Venezia cinese (Sūzhōu) per finire nell'estate del 1900, realizzando che quella che per lei è la guerra delle 8 nazioni per me è (ma ora direi: era solamente) la rivolta dei boxer, il che illumina meglio di mille esempi il modo in cui viene insegnata e trasmessa la storia ovunque, ognuno considerandosi, di volta in volta, al centro del mondo (che, parlando di Cina - paese di mezzo -, casca pure a fagiolo).


Troops of the Eight nations alliance of 1900. Left to right: Britain, United States, Russia, British India, Germany, France, Austria-Hungary, Italy, Japan.

Muito mais nossos amigos que nós seus

La lettera(1) di Pero Vaz de Caminha al re Manuele I del Portogallo è una preziosa testimonianza dell'arrivo dei portoghesi in Brasile nel 1500. Essendo un rapporto destinato al re, contiene, per forza di cose, delle osservazioni che con non felice linguaggio odierno potremmo chiamare politicamente corrette oppure, non so se più felicemente, conformiste ed ossequiose. Vi si può dunque leggere il resoconto di come i portoghesi, appena arrivati, vi celebrarono la prima messa e vi eressero la prima croce, alcune descrizioni dell'aspetto e dei costumi dei brasiliani quando ancora non sapevano di essere tali (la nudità dei loro corpi, l'osso o il legno infilato in un foro praticato nel labbro inferiore, i copricapi di piume di uccello colorate, le capanne in grado di accogliere grandi nuclei familiari, il cibo), del loro atteggiamento pacifico (deponevano sempre arco e frecce a terra quando i portoghesi facevano loro cenno di farlo), aperto e rassicurante per l'avvenire del Portogallo, tanto da generare una ferma fiducia nella possibilità di convertirli alla santa fé católica, e dei primi scambi di doni avvenuti durante quei primi contatti.
Vi si trovano però anche alcune osservazioni che ai miei occhi sembrano più spontanee, come ad esempio l'incredulità del portoghese rispetto al fatto che i brasiliani non apprezzassero il vino che veniva loro offerto e, a mo' di contraltare, la sicurezza con cui contava che col tempo ci avrebbero preso l'abitudine ed il gusto, e soprattutto il frequente rilevare la loro totale assenza di malizia e la loro bellezza fisica, nonché una vera e propria perla. Questa:




Enquanto ali, este dia, andaram, sempre ao som dum tamborim nosso dançaram e bailharam com os nossos, em maneira que são muito mais nossos amigos que nós seus.

Finché furono con noi, quel giorno, non smisero di danzare e ballare con noi al suono del tamburino, di modo che sono molto più amici loro nei nostri confronti che noi nei loro.


Carta de Pedro vaz caminha so-
bre o descobrimento(2) da Terra nova
q[ue] fez Pedro Alves. Feita na Ilha de
Vera Cruz em o 1.º de Maio de
1500
Gaveta 8.ª
Maço 2.º-N.º 8
Aqui esta junta huma Copia para
milhor inteligencia deste original
Transcripto do L. 13 da Reforma
dos Documentos das Gavetas a f. 43 

2. Secondo una nota in La lettre de Pero Vaz de Caminha au roi Manuel sur la découverte de la "Terre de la vrai croix", dite aussi Brésil, Chandeigne(3), 2011, descobrimento (scoperta) è parola usata a partire dal XVI secolo inoltrato. Nella lettera di Vaz de Caminha si trova invece il suo precedente (achamento), che rimase in uso fino ai primi anni del XVI secolo.
3. Grazie a Chandeigne, l'anno scorso sono riuscita ad andare in Giappone, sempre al seguito di un portoghese.

domenica 3 luglio 2011

Degli occhi crudeli sono il solo modo intelligente che possa avere uno scrittore per amare il proprio paese

La fortuna di avere incontrato Tito Maniacco, dicevo. La vado ad illustrare con un lungo lavoro da amanuense su un suo scritto, che mi piace copiare perché il Friuli, che è stato a lungo il mio vicino di casa quando vivevo dopo il trattino del Friuli-Venezia Giulia, è una terra di confine che non mi sembra essere molto nota nel resto d'Italia.

C'eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974

Figuriamoci quindi se può essere noto l'immaginario collettivo degli abitanti di Trasaghis, dei loro vicini di Peonis e di tutti quelli (pochi, tutto sommato) che li circondano nel nord-est italiano, che Maniacco descrive senza indulgenza, ma in modo serio ed articolato e per niente generico, nonostante la intrinseca impalpabilità e fluidità del soggetto. In realtà, il Friuli è un territorio ancora più piccolo di quel che sembra, se si considerano le particolarità delle sue fasce confinarie, in cui è compenetrato da culture diverse da quella friulana, vale a dire la veneta, l'austriaca e la slovena. Quest'ultima, a sua volta, è diversa dalla cultura a me più familiare del microcosmo degli sloveni della Venezia Giulia, su cui di tanto in tanto ho già speso qualche parola in passato. Per limitarsi alla differenza più evidente, basti pensare che gli sloveni di luoghi come la val Canale e le valli del Natisone sono sempre stati, politicamente, tendenzialmente bianchi, mentre quelli del Carso triestino e di Trieste sono stati politicamente piuttosto orientati verso il colore rosso. In realtà, a guardarlo con la lente di ingrandimento, il Friuli è proprio piccolissimo, forse addirittura, almeno in parte, pura opera di fantasia, perché il suo cuore batte stretto tra la Bassa Friulana a sud e la Carnia a nord, in cui i veri conoscitori potrebbero trovare (e trovano) delle ulteriori nuances che ci allontanerebbero ancora dal suo carattere più profondo. La Carnia, in effetti, è Friuli e al contempo non lo è: spero proprio che la Carnia dica qualcosa al di là del Friuli, se non altro perchè la Carnia, ricordo, ha conosciuto, come la val d'Ossola, l'esperienza della repubblica partigiana (che comprendeva l'ormai notissimo Trasaghis; ah, e Peonis, naturalmente).
Da ultimo, ma forse avrei dovuto porlo come primo motivo, mi faccio amanuense perché, a dispetto delle apparenze e forse delle intenzioni stesse di Maniacco, mi pare che il Friuli condivida con molte altre terre il suo immaginario in tema di inferiori e diversi.
Aggiungerò delle note: le mie saranno marcate con delle lettere(a) per distinguerle dai numeri attribuiti alle note del testo originale. 

*

Gli inferiori e i diversi

Lis feminis àn putrôs cjavêi e pôc ciâf
(le donne hanno molti capelli e poca testa)
proverbio friulano

L'immaginario, dovendo vivere nel mutare delle condizioni storiche, deve convivere con le contraddizioni.
Così la comunità di villaggio, la vicìnia, il cui nucleo ideologico fondamentale alla base dell'immaginario (è stato) elaborato con tanta paziente tessitura da generazioni d'intellettuali, è del tutto svanita.
Due contraddizioni principali emergono ai nostri giorni e tendono ad assumere un'importanza sempre maggiore contro la logica del vecchio immaginario.
Esse sono le donne e gli stranieri.
Il friulano, nel suo inconscio (che si riversa poi sulle pratiche sociali), considera le donne degli esseri inferiori e diabolici: Uélin siet umin a fâ une cjase, e baste une femine a sdrumâle (ci vogliono sette uomini per costruire una casa, e basta una donna per distruggerla! Sdrumâ = crollare, distruggere, ha un senso biblico come fosse pronunciata da Giobbe).
L'emigrazione, in Carnia in particolar modo (forse perché i carnici sono dei friulani particolari, o forse perché sono i soli friulani rimasti, o forse perché sono carnici e basta), ha fornito alla donna un forte potere all'interno della comunità ma è pur sempre un potere delegato. È vero che la donna gestisce il denaro delle rimesse dall'estero e dirige la vita della casa e ha un forte potere sui figli, ma è anche vero che cammina dietro il marito quando esso ritorna a prendere lo scettro.
Si dirà, cose d'altri tempi. Probabilmente è vero: non camminano più in fila indiana, ma i rapporti restano disuguali.
La falsa coscienza, doppio imbarazzante dell'ideologia, che qui assume le suadenti forme di una società ligia alla tradizione, permette un'emancipazione della donna che procede in parallelo con il suo sostanziale e vecchio rapporto di dipendenza patriarcale.
Quando la donna (certe donne, sempre di più, comunque) raggiunge e supera il limite consentito, allora intorno ad essa si racchiude, a forma di conchiglia che tutto riflette e riluce, un settore privilegiato dove l'immaginario, venendo a patti con lo stato delle cose, stabilisce una zona franca in cui tutto è lecito in nome dell'eccezionalità che è data, pragmaticamente, dai risultati.
D'altra parte, la donna in questione, proveniendo dall'imprenditoria o da altre forme moderne dell'attività fra cui lo sport, ad esempio (la terrificante poesia che lo scrittore Maldini ha dedicato sulla prima pagina de Il Messaggero Veneto alla Di Centa, è sicuramente lo specchio più fedele di quel che è la retorica dell'immaginario in questo campo(1)), comprende che deve riunire in sé tutte le caratteristiche (almeno esteriormente), il passato e le radici ancestrali servendo e giustificando e stabilendo delle grandi finalità morali per la sua stessa carriera. Essa, insomma, finisce con l'ammettere la sua eccezionalità e, ammettendola, giustifica quel che l'immaginario dà per scontato, e cioè l'esistenza di uno stato di natura votato ai figli, alla famiglia e, in definitiva, rinchiuso in limiti ben definiti di una società che non è patriarcale, ma semplicemente è così, biologicamente.
Perché, par si dica, le forme sociali e storiche tramontano, non tramontano mai i dati naturali (si può sempre discutere su chi e che cosa li abbia determinati: Dio o il Caos, non cambia niente).
Avendo ottenuto licenza d'agire, essa non può far altro che servire da puntello e strumento illusorio ad un potere maschile.
Che lo faccia in assoluta buona fede (forse) non può far altro che confermare la cinica e meschina funzione che verso il genere l'immaginario, non a caso scritto al maschile, coscientemente esercita.
Il comparire di donne di talento e, in qualche misura, diverse rispetto alla media, non può che confermare e il ruolo di sudditanza di esse e quello di superiorità, assodata a tutti i livelli, dell'uomo, al quale è sempre spettato, spetta e spetterà la funzione di deus ex machina dello strumento sociale.
Lo stesso è avvenuto nei momenti di emancipazione dei lavoratori, socialisti e comunisti, ai quali certamente spetta il merito storico di una rivendicazione del lavoro delle donne e della loro funzione nella storia, parità di orario, parità di paga, fermo comunque restando il fatto che, anche in questi movimenti, l'esaurirsi delle attività dentro il sociale, voto delle donne compreso, non ha mai posto seriamente in discussione il potere maschile negli apparati di lotta sociale, politica, clandestina o pubblica.
Una società contadina e il suo immaginario con i suoi attuali riflessi non riesce certamente a cogliere la complessità di una storia in genere essendo tale storia, una volta per tutte, già stata scritta dal maschio.
La nostalgia per il mondo contadino, che non è solo reazionaria e conservatrice (no?), contiene certamente in sé un'assoluta comunanza di potere maschile, da qualunque parte ideologica essa sia vista.
L'utopia contadina di Pasolini, ad esempio, immagina un mondo com'era prima, e come tale, maschilista. Sarà pur comunista l'ansia di beni necessari(d) con cui vorrebbe connotata tale utopia, ma sempre senza alterare i rapporti di potere fra i generi.
Il problema di fondo è che la questione femminile, in questo immaginario, non è mai stata presa in considerazione.
Se la misoginia è una delle caratteristiche fondamentali della società patriarcale, la sua perenne corrente passa costantemente nella società tutta, ed è accolta, non paradossalmente, anche dalle donne che vi si riconoscono, probabilmente dal giorno in cui la nuova idea del patriarcato fece pendere la bilancia contro l'antico giudizio che riteneva che l'uccisione della madre fosse il peggiore di tutti i delitti(2), tanto che La bisbetica domata pare un testo senza tempo e senza luogo ed una sua traduzione in lingua friulana (o c'è?) potrebbe aggiungersi al trionfale repertorio del teatro locale, che è trionfale proprio perché rappresenta tutti i luoghi dell'anima friulana, cioè quel lato kitsch, perbenista, che alcune cose buone, vanamente scritte negli ultimi decenni, non riusciranno mai a contrastare.
Le dichiarazioni di donne emergenti sembrano proprio andare verso un nuovo tipo di riconoscimento dell'autorità del padre, quasi come una sorta di accettazione-proposta di cogestione (sempre e comunque vincolata dall'autorità degli dèi del patriarcato) della direzione politica, economica e morale della società.
Un aggiustamento, insomma, più che un rovesciamento in un mondo in cui più nessuno osa mormorare la parola proibita rivoluzione.
L'astuzia maschile sta nel fatto che probabilmente l'implicita proposta pare, a queste donne, essere nei fatti e i fatti sembrerebbero dar loro ragione, proprio quando niente spiega meglio lo stato delle cose, nudo e crudo, quanto questa apparenza di vittoria.
Il problema vero è che, nel genere, una sudditanza-discriminazione nel ruolo, nel salario, nella dignità, l'idea stessa di relegare tanta parte della società (oltre la metà del cielo, si suol dire, in quegli insopportabili ritorni come stupidità ripetitiva collettiva di parole o frasi) è una sudditanza concreta, generale. Le vittorie singole, sempre più numerose, è vero, sempre più qualificate, è vero, proprio in virtù dell'essere sempre più numerose, sempre più qualificate, portano peso reale al potere insostituibile del maschio.
Il fatto che in un sogno concreto sembrava scritto che una cuoca potesse dirigere lo stato(3), con tutta la retorica e lo spirito maschilista che vi stava sopra, sotto, intorno, dietro e avanti fino a noi, è un atteggiamento di gran lunga più ricco di possibilità di quanto possa sembrare in tempi tetri come ci tocca di vivere e scrivere.
La comparsa di figure virtuose di donne fa naturalmente parte dell'immaginario. Anzi, si potrebbe dire che senza questa oscura luminosità tutto il discorso complessivo ne risulterebbe ideologicamente menomato; ma quel che non è cambiato è proprio il meccanismo di misoginia messo in movimento dai padri in genere, e da quelli cristiani in particolare. Tutto sommato, ci sentiamo più vicini, nonostante i secoli che ci separano, all'ironico illuminismo di Aristofane che non all'ingombrante madre nascosta dietro Agostino che prefigura il potere di una madre celeste, sempre inferiore, e per questo madre, attraverso la cui mediazione, scorrendo attraverso tutte le madri di questo paese cattolico, sempre inferiori, il reale potere dello spirito passa ai figli celibi di queste, sotto l'innocente aspetto di mediatori fra i poteri del cielo e della terra, cioè come preti(4).
Questo odio sessuofobico evapora da queste figure virtuose, anzi, l'alone mette in luce il caratteristico abito nero di tali umili protagoniste della storia friulana sia come madri esemplari, lavoratrici esemplari, ma sempre circondate e sommerse dal peso realmente materiale dei figli, delle gerle di fieno, dei bozzoli, delle pezze di seta o di lino, del letame, come figlie devote di una Patria, che sarebbe poi la terra dei padri (e infatti la lingua inferiore, il dialetto, non è detto anche lingua materna?) che ha sempre misconosciuti tutti i loro diritti, da quello del lavoro a quello dell'istruzione e del voto, fino all'ottusità della diffidenza italiota per idiomi stranieri e quindi sospetti, ma che, nel momento del bisogno, ad esse ricorre per portare gerle di viveri e di munizioni attraverso sentieri sconosciuti, ai soldati in trincea sui crinali dei monti carnici.
Basta osservare le foto del periodo per rendersi conto della lieta inconsapevolezza di queste passive protagoniste in cui l'immaginario tende ad elevare ad alto potenziale proprio la passività come forma di solida virtù e a ridurre a pura apparenza il protagonismo che è, innanzitutto, biologicamente maschile e socialmente appartiene alle classi dirigenti (basterà solo prendere nota dell'incredibile rapporto esistente fra medaglie d'oro ed ufficiali e medaglie d'oro e soldati, tenendo proprio conto della sproporzione).
Resta chiaro comunque che quel che è comune, nonostante le differenze fra misoginia cattolica e tranquilla superiorità borghese, è la sottoconsiderazione della donna.
Essa appare, alla retorica ugualmente comune, la Madre che tutto sacrifica (non è un caso se l'ignoto soldato è un maschio e se colei che lo veglia è una donna, alla quale l'ipocrisia borghese di una strana fratellanza fra le nazioni civili risparmia, momentaneamente, di essere Antigone - una lotta a morte come quella europea della seconda guerra mondiale, la riproporrà -), colei che in tempo di costante miseria (la carestia è una vibrazione sismica nel corso del tempo generale della miseria), proprio per il privilegio di mangiare o prima o dopo i maschi maturi, si priva della sua parte per i figli, eppure il suo posto sociale, se appare parallelo nelle foto di gruppo, nella realtà è arretrato. Lo sa lei e lo sanno i maschi, con la stessa tranquillità appunto, con cui contemplano i meccanismi della natura (probabilmente sarebbe meglio dire subiscono).
È qui che si salda l'alleanza, tanto contraddittoria quanto obbligatoria, fra Chiesa, o pensiero cattolico ufficiale e borghesia, sulla donna e sul centro della vita sociale voluta da Dio: la famiglia cui essa deve restare avvinta, o, se ne è parzialmente uscita mediante il lavoro, ritornarvi.
Non importa se tornando - ma quando se ne sarebbe andata? -  riproporrà all'ombra del potere maschile una sorta di atroce vendetta femminile. Come potremmo chiamare questo atteggiamento che si definisce magari mammismo nel senso dell'ironia o del motto di spirito, - in questo i friulani sono totalmente italiani - se non, tragicamente, medeismo?
Ma se il prezzo da pagare per la reclusione della donna - e che altra parola si potrebbe usare senza infingimenti? - è questo tipo di famiglia - quale orribile agrodolce e mostruosa famiglia ci si prepara in nome di un ritorno (ci eravamo mai allontanati?) alla tradizione Dio-Patria-famiglia? - quale prezzo si deve pagare per lo straniero che meccanismi mondiali spingono sulle nostre rive?

I diversi.
Un circolo vizioso.
Mai meglio che al termine degli ultimi quattro secoli della sua storia, l'uomo occidentale è in grado di capire che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l'umanità dall'animalità, accordando all'una tutto ciò che toglieva all'altra, apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita ad escludere dagli uomini altri uomini e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanesimo nato corrotto per aver desunto dall'amor proprio il suo principio e la sua nozione.
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale due
(da J.T. Godbout, Lo spirito del dono)

Di stranieri, barbari nel senso che balbettano la lingua delle lingue, che è sempre la propria, e barbari nel senso della tradizione storica, come invasori, il Friuli è pieno e ne rimbomba automaticamente il suo immaginario.
Il primo principio è la diffidenza e la diffidenza nasconde, nel suo profondo, il sentimento più antico che è la paura, la paura dei celti all'arrivo dei romani (la paura dei venetici all'arrivo dei celti e lo strato precedente, traumatico, di paure, all'arrivo degli indoeuropei), la paura dei romani e dei contadini e montanari celti vagamente romanizzati all'arrivo dei longobardi, e la paura dei longobardi al primo distruttivo arrivo degli avari e poi dei franchi, frammenti di sensazioni nascosti dentro i nomi, repipin(5), e via dicendo e trascorrendo, una paura dentro e dietro una paura, senza fine.
Qualcuno dice che con l'anno mille e dintorni nasce il popolo friulano come identità(6). Probabilmente è un'affermazione corretta, ma questo popolo friulano, che è riconoscibile dalla formazione della lingua e dalla generale adesione al cristianesimo aquileiese, geneticamente, cos'è e chi è?
Dopo gli ungari, la vastata hungarorum(f), cioè il territorio che comprende il medio e basso Friuli, una sorta di gigantesco semicerchio che raschia le colline e gli anfiteatri morenici e le prealpi carniche, reso un deserto d'uomini, edifici e campagne organizzate, è stata colmata con contadini croati, sloveni e serbi, con slavi insomma, ai quali, naturalmente, né i patriarchi che richiedono coloni, né i duchi slavi che munificamente li concedono in cambio di qualcosa di molto concreto, han loro chiesto il permesso di trasferirli brutalmente, in un fiat, da villaggi che magari si chiamano Belgrado, Goricizza, Santa Marizza ad altri luoghi ai quali dare pure nome Belgrado, Goricizza, Santa Marizza, usando le pietre e le travi delle macerie.
Si dirà, ma è l'irrazionalità dell'orgoglio, ché l'identità friulana è stata così forte da aver cancellato la precedente identità che, intanto, almeno per gli studiosi di toponomastica, resta tale.
Tanti stranieri di tutte le caratteristiche si sono incuneati in questo paese che l'immaginario dei vecchi tempi, che circolava come mito, leggenda o fiaba, può essersi inventato o arricchito a dismisura la figura del salvàn(7), ma non certo l'esistenza di linee di contenimento sul bordo delle valli per separare invasori franchi e ribelli longobardi rintanati nei luoghi più stretti, gli uni con le chiese dedicate a San Mauro e gli altri a San Martino (vecchi pagani, vecchi ariani, ognuno alla ricerca del protettore celeste più confacente)(8).
È dunque una storia di meticciato, culturalmente, religiosamente e linguisticamente unificato. Ma quanti santi e sante provengono da luoghi del neolitico e del mondo degli invasori ariani al nostro pantheon, rigorosamente monoteista? e questa Chiesa quanto è mediorientale, siriaca e alessandrina a partire da quel misterioso Marco la cui leggenda simbolico-corporale va da Alessandria a Venezia, ma che sosterrebbe a lungo ad Aquileia in diramazioni missionarie mitteleuropee?
Quanti correnti calde han percorso queste terre, lasciando sedimentazioni profonde e inconsce, come latine, bizantine, e cosa sono in questo contesto mediterraneo che fluttua nel Golfo Adriatico o Golfo di Venezia, Grado e Aquileia, rispetto a Cividale la longobarda, l'altogermanica, la feudale tutta investita da correnti fredde, slave e germaniche?
Si dirà che è pura e semplice storia di classi dirigenti che vanno e vengono, mentre è il popolo romanzo, il popolo contadino e cristiano che sta qui, fermo e immoto, sì che non di lotta di classe si tratterebbe per delineare le tante storie che incombono e s'intrecciano sul Friuli, quanto di lotte etniche in cui gli oppressi sono sempre gli stessi e mutano gli oppressori.
Ma anche questa è solo una verità, quella del catonismo, dove ogni classe dominante esalta il sangue, la terra e la lingua. E proprio in questo crogiolo si forma la diffidenza per il diverso, che in questo caso non è mai stato un diverso religioso a meno che non si voglia prendere in considerazione il lungo flusso ariano longobardo, e certe gelide correnti catare, distillate sempre, come il protestantesimo però o le misteriose credenze di Menocchio(9), o le vecchie mitologie collegate ai culti agrari. Vi è sempre un'alterità nei diversi, nonostante tocchi persone conosciute, persone della comunità di villaggio o del cerchio dei villaggi, che conducono un'operazione magica, sia essa benefica o malefica, a seconda delle interpretazioni, che li rende in qualche modo stranieri. Non provengono da lontano nello spazio, ma dal profondo di ognuno e nel profondo collettivo, evocando forze oscure, inconsce, forse addormentate, nonostante l'ingenuo richiamo alla Vergine o ai santi.
Infatti è stato uno studioso che veniva dall'esterno del cerchio virtuoso degli specialisti friulani a prendere e a trasformare queste storie, intendo quelle dei benandanti e del mugnaio Menocchio, in un mito generale e ben diffuso che dimostra, fra l'altro, come in realtà non ci siano stranieri.
Per le streghe occorre dire che esse rientrano nel discorso delle donne (ma chi è più straniero di chi hai al tuo fianco e non consideri, in fondo, tuo pari, ma un essere inferiore, supplementare, complementare forse?) ed è stato molto facile trasferire la corrente di odio puro che emana ogni volta che si affronta la questione stregoneria dal genere al caso particolare, quasi in una sorta di transfert.
Scaricando la misoginia maschile sulla strega come entità maligna, si libera la donna (apparentemente) dall'incantesimo che da essa fluisce verso il maschio e si alza il livello della fobia che si sente sempre più indotta a scaricare segrete tensioni. In questo senso, è liberatorio considerare la strega una straniera che proviene da territori sconosciuti e abitati da forze malvagie.
La donna è strega, strie, perché è donna, o è donna perché è strega? Un uomo insultato non viene definito stregone, ma una donna insultata, una donna vecchia e malandata, una vecchia povera sono definite streghe.
È più facile che la donna esemplare, e cioè la norma sognata, cioè inventata in funzione di quel che si vorrebbe e non in funzione di ciò che è in un mondo dominato dalla religione cattolica, un vero e prorpio concentrato di misoginia, venga definita santa, une sante.
Ma torniamo ai veri e propri stranieri. Essi coprono una vasta area che sarebbe da seguire con un'attenzione emotiva perché seguono i vari momenti di assetto ideologico dell'immaginario, il togliere, lo sfumare, l'aggiungere, il lodare, il disprezzare, il depositare per il futuro (lo zingaro, ad esempio, straniero anomalo che ha l'arroganza di viaggiare sempre, essere se stesso, l'ebreo, verso il quale l'atteggiamento è più sommesso che nei paesi slavi e tedeschi, anche se vi si appiccica intorno l'ostilità cattolica - uno degli insulti a Zanon, che si trova in una poesia satirica, è l'allusione ad una sua possibile origine ebraica che ci si affretta a smentire(10)).
Gli austriaci, i tedeschi in genere, godono di un'evidenza particolare. Nel loro caso la disinvoltura e la contraddizione raggiungono punte altissime da rilevatore sismico.
Dalla caduta dell'impero romano il Friuli è sempre stato dentro la corrente fredda germanica (dal VI secolo quella slava era subalterna, una cultura di emigranti in massa, montanari e contadini, la gran qualità dei toponimi lo evidenzia, e ha convissuto infilandosi a spina di pesce nelle vallate che entrano in Friuli da nord e da est, valli del Natisone, val Torre, val Resia, val Canale) dai longobardi ai franchi, dagli Ottoni agli Hohenstaufen fino alla prima metà del XIII secolo come reale potere politico, e per almeno altri due secoli, fino all'arrivo di Venezia, prima età del XV secolo, i mercanti tedeschi s'irradiavano dal Canal del Ferro, dal Passo di Monte Croce Carnico e da Venzone e da Gemona, per i cui abitanti l'alto tedesco o il carinziano erano quasi una seconda lingua proprio per la complessità giuridica ed economica dei traffici a quei mercati connessi.
Gli intellettuali scrivevano in tedesco e partecipavano a missioni diplomatiche e militari in uno spazio che andava dal mare del Nord al Baltico fino all'Adriatico. I grandi poeti tedeschi come Walther von der Vogelweide erano ospiti a Cividale di patriarchi tedeschi, intellettuali friulani scrivevano in tedesco libri di cortesia, certo erano intellettuali complessi che potevano scrivere in romanzo e in tedesco forse e sicuramente in latino e parlare in friulano nei luoghi di nascita come Tommasino di Cerchiaria(11). Gran parte della nobiltà friulana è di origine germanica, basta fare un piccolo sforzo linguistico leggendone i nomi ormai italianizzati da secoli. Gran parte dell'emigrazione stagionale friulana e carnica, compreso il grande flusso dei vari livelli di cramârs(12) è come un sistema sanguigno di andata e di ritorno dal cuore pulsante dell'attività economica dell'Impero (gran parte della terminologia tecnica friulana, quella della prima società industriale, è di origine tedesca, come di origine tedesca, in Carnia, è la patata, cartufule, quando il povero Zanon aveva invano tentato di portarne la coltivazione da ovest, cioè da Venezia, come sarà francese quella relativa all'edilizia e alle miniere dal primo dopoguerra in poi).
Normali sono le storie di soldati carnici o friulani che riconoscono casualmente un vecchio compagno di lavoro o un vecchio padrone nell'altra trincea, in qualche reggimento stiriano o carinziano, nella trincea di quello che è più straniero di tutti, lo straniero per eccellenza, il nemico.
Trasformare in nemico un vicino di casa, rimetterlo nel ruolo di amico, poi di ambiguo vicino, poi di amico-alleato (ma alleato era stato anche prima) e poi, di nuovo in nemico in una lotta antifascista che non era di sicuro il massimo dei sogni delle classi dominanti, rassicurate comunque da inglesi e americani, e poi di nuovo grande, grandissimo amico, almeno lungo il nostro crinale, con qualche perplessità sul crinale altoatesino, è un'operazione complessa che, pur faticosamente, è stata seguita ed eseguita con eccessiva disinvoltura (la coerenza non è una virtù all'interno di un sistema che si deve aggiornare continuamente. Come si sa, ogni esaudimento dei desideri o delle volontà restringe fatalmente la pelle di zigrino(13)), e se una volta questa complessa operazione educativa, atta a promuovere la naturalezza del consenso, passava direttamente dall'alto al basso e cioè dal pulpito ai fedeli, ora è distribuita orizzontalmente e circolarmente attraverso la stampa quotidiana e periodica, la radio è uno dei sogni dell'anima friulana che non manca di ricordare che questo possesso, attraverso la RAI, è gestito a Trieste da triestini che abitano dietro il trattino Friuli-Venezia Giulia e per questo non sanno niente dei friulani, anche perché, nel reclutamento, i friulani sono una minoranza che per di più non conta, anche in presenza di vistose smentite.
Comunque l'austriaco è pur sempre un forestiero, ma è anche un vicino di cui, da un po' di tempo in qua, si vantano eccessivamente le virtù. Questo popolo ha prodotto un numero incredibile di grandi scrittori (nella concentrazione pari, forse, all'Irlanda) e ne sta producendo ancora in numero rilevante, in cui, comunque, anche se volessimo escludere il distruttivo e tetro e assolutamente geniale Bernhard, prevale uno stato d'animo molto depresso verso i propri compatrioti.
Forse questi occhi crudeli sono il solo modo intelligente che possa avere uno scrittore per amare il proprio paese.
Il ritorno dell'immagine avviene su vari componenti dello spettro. Ruotando il cerchio, la luce si farà bianca e quindi, apparentemente, l'immaginario manda, su questa questione, la stessa pulsazione, ma se solo la velocità del cerchio rallenta, l'osservazione permette di cogliere diversi colori, diversi bagliori.
Non entriamo nel campo vasto e misterioso, fino a diventare banale e uniforme, di tutto ciò che va sotto il nome di mitteleuropeo. Facendo il percorso inverso dei barbari, lungo la soglia di Gorizia, attraverso le basse acque dell'Isonzo, dove guardava la cavalleria ungara e poi quella irregolare turca, quel certo Friuli goriziano può annaspare nelle acque danubiane, ma non è il Friuli, per essere schietti, è una certa idea di Friuli come abbiamo già osservato, filtrata attraverso le penne dell'aquila imperiale più che attraverso le penne-piume del leone (quasi quattrocento anni, generale Bonaparte che te ne stai nella villa dell'ultimo doge - I ga fato doge un furlan e la republica xe morta -, non sono pochi(14) per il Friuli cosiddetto veneto, sufficienti per modellare delle assolute diversità o delle caratteristiche originali).
In quel particolare Friuli, il ritorno imperiale, se è una retorica, e lo è, è almeno giustificato dal passato: settanta anni di sciovinismo italiano non possono aver nascosto mille anni di impero. Non c'è locale pubblico da Grado a Gradisca, da Gorizia a Cormons che non ostenti foto di Francesco Giuseppe, sciabole di ussari, documenti delle amministrazioni austriache (come nel Friuli veneto sono abbastanza comuni documenti delle amministrazioni venete napoleoniche, accuratamente strappati), foto di gruppo dell'altro esercito.
L'altro aspetto, che nasce evidentemente dalla crisi in atto dell'idea di questo Stato unitario e centralizzato, nonostante la retorica delle regioni, crisi che assume l'aspetto politico della Lega, è una sorta di innamoramento dell'idea dell'impero, dell'idea dell'Austria felix non solo come era, ma come è, o come dovrebbe essere o come si vuole che debba essere (che è poi l'equivalente dell'innamoramento, da parte delle élites delle classi dirigenti, per l'idea dell'Inghilterra, dagli studi agli abiti, dal tè al tabacco, alla politica, fino ad interpretare una struttura sociale quasi medievale, basata per caratteristiche assolutamente ineguagliabili - nel senso di irripetibili, senza peggiorativi o accrescitivi - su di un oppressivo maggioritario, come il non plus ultra per questo paese, caratterizzato proprio dalla complessa diversità delle realtà, innamoramento acritico che non vede distinzioni tra progressisti, conservatori e reazionari). È un culto piccolo borghese, che ha i suoi lati ideali, sentimentali, mimetici: mangiare come gli austriaci, vestire come gli austriaci, in loden, giacca e cappotto, cappelluccio di loden o di feltro con piumino - quanto al bere, pare che il vino sia meglio della birra, ma anche la Stiria ha dell'eccellente vino -, e pratici: depositare soldini evasi da questo Stato cattivo e messi a fruttare in banche austriache.
Il borghese non si smentisce mai: dietro ad un amore disinteressato e sfrenato ci trovi sempre un gretto interesse.
Questo meccanismo, nato da poco, ha qualche difficoltà ad entrare nell'immaginario friulano, per evidenti motivi, perché propone, in buona sostanza, di scivolare ad un altro immaginario.
Qui le fratture sono complesse, contraddittorie e antagoniste. Oramai c'è il Friuli tradizionale che vuol stare in mezzo, vuole l'Italia e vuole le sue tradizioni, si può avere ben tutto, capra e cavoli, la diversità nell'unità e poi c'è il Friuli autonomista con le sue varie sfumature fino a quella che vuole un Friuli nazione: un popolo, una lingua, un territorio dell'Europa delle piccole patrie, e così via, e c'è il Friuli degli sciovinisti per i quali non è mutato niente dal 1918 e se è mutato, tutto deve tornare come prima.
È qui che l'immaginario ha le sue difficoltà.
D'altra parte si scopre, poi, che è più facile stringersi ai tedeschi per potersi scagliare contro gli slavi, divertimento favorito dello sciovinismo locale il cui arco va dai fascisti a elementi della resistenza. Divertimento sciovinista, appunto, più che dell'immaginario locale, una parte del quale, anni fa, ingenuamente ha distribuito libriccini per scuole elementari in lingua friulana (non amati, fra l'altro, dalla scuola italiana) nelle valli slovene del Natisone, ma se ne è accorto e almeno se ne è imbarazzato.
Da centinaia di anni il friulano parla con il montanaro delle valli slovene, Natisone, Torre, Resia in lingua friulana, sapendo benissimo che l'altro conosce il friulano, ma gli risponderà nelle varianti slovene.
Qui l'immaginario tende a scindersi in un corretto ed onesto tentativo di collegare le due minoranze linguistiche ed etniche, la friulana e la slovena, in una sola lotta contro lo strapotere dell'idiozia italiota (in moltissimi casi è pura e semplice ignoranza dei problemi, delle loro origini, della loro naturalezza), ed un tentativo sciovinista di confondere lingua ed etnia con appartenenza totalizzante allo Stato italiano che ha una sola lingua come ha una sola religione, dove il friulano avrebbe l'unico merito, nel suo misero contesto di umile dialetto, di essere diretto figlio dell'aquila romana che, come tutti sanno, arrivò ad Aquileia, sulle rive della Natissa, per difendere disinteressatamente i diritti dei veneti oppressi dall'aggressione dei celti: parcere subiectis debellare superbos.
Ma i pastori slavi che i duchi longobardi delegarono a tappare ermeticamente tutte le vie d'entrata e d'uscita dell'Italia a nordest (tanto efficacemente che nel mare del Nord e nel Baltico, per i due secoli di dominio longobardo, cessano del tutto arrivi di materiali di commercio e di scambi con l'Adriatico(15)) trovarono modi di vivere e di convivere con i patriarchi e con Venezia. Modi di vivere e di convivere che si fecero difficili con l'arrivo dei prefetti dei Savoia e poi di Mussolini e assolutamente non facili con quelli della Repubblica, non convinti nemmeno dall'ondata monarchica e democristiana che sommerse le Valli.
È di minoranze, e non molto seguite, d'intellettuali friulani il tentativo di unire questi destini slavi e friulani.
Attività, documenti, manifestazioni, con testo friulano a fronte di testo sloveno compaiono costantemente, ma probabilmente non riescono a raggiungere la corrente normale dell'immaginario, dove domina, nel migliore dei casi, un atteggiamento paternalista verso il montanaro slavo e una perplessa incomprensione sulla sua necessità di essere slavo: come si fa ad essere slavi e a volerlo essere quando si ha la fortuna di vivere in Friuli?
Fra tutte le chances di questo montanaro, che comunque, nonostante tutto, straniero non è considerato, probabilmente sembra un friulano muto, c'è quella di essere cattolico, il che, se non altro, lo ha messo al riparo dalle attenzioni dell'inquisizione, che, oggi scopriamo, aveva scopi puramente educativi.
Però l'Italia non ha mai visto di buon occhio le prediche che un clero sloveno, - un tempo, da decenni non più - faceva nella sua lingua materna, tanto che i monaci sloveni del famoso e popolarissimo Santuario di Castelmonte, in cui è venerata una delle famose Madonne nere del mondo slavo, sono stati fatti sloggiare ancora sotto il Regno d'Italia e sostituiti con padri cappuccini. La religione è una lingua universale, non serve parlare con la Madonna in sloveno che è una lingua inferiore di senza storia (anche per ammissione del vecchio Karl Marx). Una maggior considerazione del problema da parte della Chiesa dà la possibilità di far prediche e catechismo in sloveno, ma è, oggi, l'estrema unzione ad un popolo distrutto dall'emigrazione, dal pregiudizio degli imbecilli e in tal modo disperso per le vie del mondo. Lo slavo in genere, comunque, è un salvadi (selvaggio) e ha l'aspetto molto vicino al detestato zingaro (cingar) che attenta sempre e comunque alla proprietà privata e a quella collettiva. Di fronte ai secoli, qualche decennio di forti pregiudizi anticomunisti si sono facilmente allineati a pregiudizi antislavi, ben presenti in certi ufficiali monarchici passati ad una resistenza caratterizzata da questa costante fobia slavo-comunista.
Che nazionalisti slavi, presenti nel fronte di liberazione e quindi nella formazione del IX Corpus, fossero la carta copiativa di quelli italiani non v'è dubbio. Tanto gli uni volevano di qua, quanto gli altri volevano di là. Il crescere di possibilità di vittoria degli Alleati, caso mai, aumentava le pretese degli uni e, specularmente, le preoccupazioni degli altri.
Caduto il sistema su cui si reggeva la Jugoslavia, una sottile crosta ideologica di meno di cinquant'anni in più di mille e trecento di immaginario collettivo slavo e cattolico, e cioè sostanzialmente conservatore e reazionario, non sarà difficile osservare la costanza di un atteggiamento. Dall'una e dall'altra parte i nazionalisti faranno il loro ottuso mestiere, ma i pregiudizi, nel popolo, non muteranno.
Ma, sostanzialmente, la sua antipatia per lo straniero, il suo senso di minacciata superiorità (v'è nell'inconscio un timore di persecuzione e di inferiorità) il friulano lo adopera a piene mani per i meridionali per i quali si sprecano nomignoli ed epiteti offensivi. E v'è probabilmente un crescendo vagamente isterico che si può agganciare al reale timore che si prova al vero altro, quello colorato in tutte le possibili varianti.
Questa sorta di miserabile ideologia (l'ideologia è certamente una falsa coscienza, ma è anche il riflesso di una concezione del mondo che può essere nobilitata dalle sue aspirazioni, appunto, sospettosamente ideali. Questo è uno scarto dei magazzini dell'ideologia che ha tutte le caratteristiche nazionali della miseria italiana) è un collante che ha momentaneamente unito tanti friulani nella Lega. Là dove i movimenti autonomistici avevano fallito o avevano ottenuto elettoralmente cifre modeste, proprio la diretta e violenta, plebea e, mi si consenta, vandeana aggressività istintiva, senza infingimenti e contorcimenti, ha ottenuto successo.
È un modo di essere fratelli del nord questa comunanza nella fantasia anticentralista (ma negli autonomisti era un sogno perbene) che comunque si esplicita nella fantasia delirante dello scavo di canali di separazione fra le varie parti d'Italia che sono parti della storia d'Italia, una storia di classi dominanti mediocri ed ottuse, prive di principi e di dignità, non di popoli mediocri ed ottusi, inefficienti ed incapaci, ché tali popoli non esistono.
Di questa mentalità l'immaginario si vergogna e non si vergogna e risolve il problema con la pratica della doppia verità: ufficialmente si dice una cosa (e cioè che gli italiani sono fratelli) e a livello popolare si dice esattamente il contrario. Come si sa: vox populi vox dei.
Questo meccanismo molto antico, dovuto a fatti storici inequivocabili, trova motivazioni in guerre fra poveri, naturalmente, e in giustificati sospetti verso un governo centrale rapace e poco solidale con le periferie (la piemontesizzazione d'Italia dei meridionalisti).
Il problema storico di fondo è che il Friuli, nonostante la sua supponenza mitteleuropea, appartiene di fatto all'area mediterranea, Braudel dixit(16). È, naturalmente, una delle porte del Mediterraneo, ma è Mediterraneo. E la sua Chiesa, così orgogliosa della sua diversità (non vuole partecipare ad incontri liturgici triveneti perché non si sente e non è Veneto), che è proprio strutturale più che linguistica e che avrebbe potuto anche essere liturgica se Roma non avesse agito pesantemente contro le velleità autonomistiche patriarcali, è una chiesa mediorientale.
Fino a un centinaio d'anni fa il Friuli era ancora la linea di limite dell'area dell'olio di oliva, e del vino, in cui si era introdotta, dai celti in poi, la cultura del maiale e dello strutto che ha accompagnato la misera gastronomia locale fino a quache decennio fa (misera da miseria, non nel senso sia da poco).
E allora il fatto di lavorare duramente fra montagne e pianure sterili riempite per centinaia di metri in profondità da ghiaie mette il friulano nella condizione di irridere a chi non lavorerebbe, a chi sarebbe un pigro per natura e per storia, pur godendo di una natura solare e benigna.
L'uomo non è razzista, lo diventa per motivi storici e sociali.
Il codice genetico ha memoria solo di condizioni e di attitudini ed abitudini determinate da condizioni ambientali e sociali, storiche in definitiva.
Ma questa irrisione è ambigua, ed è sempre venata da un rapporto incostante fra complesso di superiorità, complesso di persecuzione e complesso d'inferiorità. Una società contadina, lenta, impacciata, quasi inespressiva deve fronteggiare una società ben più complessa, altrettanto misera, calpestata e sfruttata, ma nello stesso tempo più agile, vivace e poi sempre diversa, ché il terrone può essere Napoli, ma può anche essere Palermo o Bari. Il grande teatro meridionale non può essere confrontato con Nico Pepe, né il teatro in friulano, misera cosa da filodrammatici, può essere paragonato a quello napoletano, così, tanto per elevare il tono dell'ingiuria, ma invertendola.
Il meridionale è per antonomasia non solo la rappresentazione della neghittosità e delle cattive abitudini gestuali - la vicinanza dell'Italia meridionale all'Africa e ai paesi arabi in genere la introduce sempre nel sillogismo tacco = Africa = arabi = beduini. Non salta mai in mente che l'Italia meridionale sia Magna grecia e che noi siamo, noi occidentali tutti, da tre millenni debitori, in maniera determinante ed assorbente dei greci. La questione meridionale è soltanto un'invenzione degli storici meridionali per giustificare uno spaventoso drenaggio dei fondi comuni che i fedeli e corrotti friulani, assieme a tutto il nord che paga le tasse con la stessa ossessività dei friulani, versano.
Nell'immaginario collettivo il friulano paga regolarmente le eccessive ed ingiuste tasse, mentre il meridionale non si cura di pagarle, il clientelismo politico è una malattia caratteristicamente meridionale, mentre in Friuli non si presenta, il friulano è efficiente mentre il meridionale non lo è.
L'ultimo danno che i meridionali procurano ai friulani è l'occupazione sistematica dei posti nell'apparato burocratico locale. Burocrazia ed apparato che sono sempre stati longobardi, franchi, tedeschi, e poi, con l'arrivo dei patriarchi guelfi dell'area romanza, lombardi e toscani e poi, in un crescendo d'inefficienza e pedanteria, veneti e italici, e poi, ecco, i taliàns che operano dall'alto del possesso della lingua di Dante (che è poi un possesso molto discutibile, molto manzoniano misto a forti inflessioni dialettali, piemontesi prima di tutto) il genocidio linguistico e la metodica distruzione dei toponimi attraverso l'impassibile e scientifico Istituto Geografico Militare.
Qui l'immaginario è cauto, appunto per la sua doppia anima che certamente sarebbe prima friulana e poi italiana, ma come si fa a parlar male della Patria! È più facile, logicamente, parlar male dell'esercito di burocrati che valicano Appennini e Po e approdano alle Alpi con il loro accento impossibile, la gestualità eccessiva (a teatro il pubblico friulano non è il massimo per un attore desideroso d'espansività verso la propria fatica), il servilismo verso i superiori e la prepotenza verso gli inferiori e la diffidenza verso i friulani (che sono, guarda caso, servili con i superiori e prepotenti con gli inferiori) che costringono a parlare in italiano.
Si è venuta formando così, sotto la corrente circolare dell'immaginario ufficiale, una corrente ben distribuita di ottuso e feroce razzismo nel cui cerchio, di tanto in tanto, vengono persino ammessi meridionali pentiti, uno dei quali per mesi, nel periodo del terremoto, ha espresso con i suoi costanti articoli di fondo sul giornale dei friulani che poi, guarda caso ed ironia, si chiama Veneto e non friulano, il più alto e concentrato brodo di coltura del luogo comune, del generico, dello sciovinismo, sì che friulano può certamente essere diventato, a livello ufficiale, sinonimo di sano, onesto, lavoratore indefesso, ligio ed oculato gestore del pubblico, ma probabilmente, a livello non ufficiale, di babbeo, come era secoli fa(17).
L'ultima volta che ha visto tanti uomini scuri (se si esclude qualche indiano dei reggimenti inglesi, o negro degli Stati Uniti che continua comunque a vedere ad Aviano) il contadino friulano è quando cavalcavano dentro i suoi miseri paesi uccidendo o razziando o rapendo donne e bambini, nei panni dei cavalieri irregolari turchi che guadavano l'Isonzo, il Tagliamento e la Livenza, alla fine del XV secolo. Sono passati quattro secoli, ma qualcosa è rimasto all'interno, e passato attraverso le generazioni.
Quel che non è passato, invece, è il viaggio inverso dell'uomo bianco, proprio a partire da quattro secoli fa, in tutte le direzioni della terra. Qualcuno dovrebbe spiegare alle anime belle che è un risultato dell'economia mondo, un risultato del mercato. Qualcuno dovrebbe anche spiegare perché se è passato un certo immaginario, non è passata una corretta informazione sugli effetti devastanti del colonialismo e dell'imperialismo.
Anche qui la doppia verità svolge la sua eterna e metodica passeggiata sui luoghi della storia comune, della psicologia collettiva e individuale, influisce ambiguamente sui comportamenti, ingenerando una confusa doppiezza che è miserevole e miserabile, in omaggio, appunto, ai due aspetti che assume.
Il cittadino, il friulano in questo caso, è abbandonato a se stesso e alle sue contraddizioni: interessi immediati e fastidio sociale da un lato (quasi nessuno tenta di spiegare che la maggior parte di questi uomini e di queste donne fa lavori che nessun italiano e nessun friulano farebbe più) e quel minimo di religione cattolica che gli è stata insegnata negli anni dell'infanzia, fra la comunione e la cresima.
Accade che qui, per la complessità del tessuto del passato che avvolge come un velo funebre i rapporti dei vivi (anche se non sempre, le mort saisit le vif(18)) gli aspetti non siano solo due, ma infiniti, quasi una sfaccettatura luminosa, caratterizzata come le impronte digitali, del comportamento individuale. In questa situatione si inserisce, però, in tutta la sua pesantezza, la Chiesa, e quella ufficiale e quella che ad essa fa costante riferimento.
Non è certo possibile tergiversare: l'immaginario cattolico, che è poi quello del comportamento collettivo dei friulani - ma lo è ancora, e in che misura e su quali terreni di verifica? - non può avere doppie verità che si contraddicono, poi, palesemente.
Ce n'è una sola: difendere sempre e in ogni occasione gli oppressi. Non si scappa. La Chiesa ufficiale può forse trovare tempi diplomatici lunghi e tortuosamente ambigui (basterà ricordare la chiesa friulana e la resistenza, i preti di campagna con i partigiani, l'apparato in complesse trattative con tedeschi e fascisti ad ogni livello per trovare soluzioni accettabili, umanitarie in ogni modo), ma la Chiesa-Chiesa, quella che è sempre sul posto qualunque giudizio di possa dare sul modo con cui sta in quel determinato posto, la parrocchia, la comunità che le ruota intorno, il gruppo di volontari, non può transigere; il diverso, qualunque sia il suo colore e la sua fede religiosa di partenza, deve essere difeso, protetto, vestito e nutrito e aiutato ad essere inserito nel contesto della vita sociale e lavorativa.
L'elastica struttura del cattolico, abituato a duemila anni di temperie, dentro il potere, fuori del potere, all'ombra del potere, permette al suo particolare immaginario (ma non mi riesce di pensare ad un immaginario friulano non legato in maniera ombelicale al pensiero cattolico) una serie di flessioni... contro la sua stessa natura, ma non può andare oltre certi limiti.
In qualche modo è il blocco storico oltre che della psicologia collettiva del friulano ad insorgere. Gli interessi materiali sempre più pressanti, la cattiva coscienza del proprio limite religioso, un generico umanitarismo riescono ancora a contenere entro certi limiti questo rapporto che sta diventando sempre di più un rapporto culturale definitivo con il mondo moderno.
Giunti a questo punto si cominciano a pagare puntualmente tutte le distorsioni, tutte le false coscienze, tutte le autoconsolatorie giustificazioni delle classi dirigenti, le eterne, immutabili classi dirigenti friulane (il plurale indica solo passaggi quantitativi di generazioni) alle quali cambiano le maschere e i nomi, ma la cui sostanza è sempre la stessa.
Mai, nella sua avida, atavica stupidità la piccola borghesia trionfante e generalizzata (tutte le classi dirigenti, oggi, sono piccola borghesia come atteggiamento e forma mentis, indipendentemente dalla struttura sociale classista da cui possono essere partite. Il kitsch è la sublimazione della piccola borghesia) aveva sventolato bandiere più becere e forcaiole e giustizialiste su interessi così elementari e scoperti, e mai come ora l'immaginario friulano, nei suoi contorcimenti di adattamento camaleontico, è finito con l'identificare la peggior parte di sé (quella degli Ostermann, dei Marinelli, dei Leicht, dei Paschini era pur sempre un degno e civile immaginario) con la peggior parte dell'immaginario generale di un'Italia sommersa, espressione rampante di una maggioranza silenziosa sempre vincitrice, sempre ingannata dai reali ceti dominanti sui cui agogna invano d'addivenire.
Il palese e latente, a seconda dei casi, razzismo antimeridionale e antiextracomunitario dei friulani viene alla resa dei conti con la sua matrice storica, il cattolicesimo particolare della chiesa aquileiese, il cui antico ossigeno ideologico, per le sue stesse caratteristiche iscritte nei quattro vangeli, non può assolutamente assecondare l'emergere del vero istinto naturale dell'anima piccolo borghese, Homais, il farmacista di Flaubert e i signori in bombetta e le signore in cappellino ed ombrellino immortalate nella loro mostruosa vacuità da Pudovkin ne La fine di San Pietroburgo, e da Eisenstein in Ottobre: piccoli, miseri interessi spiccioli legati al contingente (primo comandamento: non pagare le tasse), alla vita di tutti i giorni nella sua lampante durezza (il riflesso negativo del suo ideale immaginario), egoisticamente concentrato sul proprio io con l'esclusione di tutto ciò che è un peso sociale senza reale remunerazione: poveri, assistenza sociale, servizi sanitari, cultura, scuola e naturalmente, nuovi poveri, nuovi immigrati (lo specchio esatto del friulano di centocinquanta, cento, cinquanta, trenta anni fa, la sua disperata voglia di lavorare ad ogni costo, anche, quindi, di lavorare per meno, passando tranquillamente per crumiro presso gli operai, i muratori, i minatori francesi, belgi, svizzeri), il cui continuo fluire contro questa nuova cortina di ferro, nonostante tutto, non potrà essere risolto.
Pare evidente, dunque, il perplesso legame che lega la Chiesa, attraverso l'immaginario e attraverso le consuete pratiche sociali, a questi nuovi padroni la cui evidente mancanza di valori sociali e umanitari stride con la tradizione, in modo che, in questi ultimi tempi, si assiste ad una disoccupazione senza precedenti dell'intellettuale organico della società friulana, del prete, quando esso, per il vero, è tutto mobilitato sul versante sociale ed assistenziale, con un pericoloso vuoto negli spazi vacanti, fra i pori del potere.
In questo complesso e contraddittorio contesto, lo stato dell'immaginario appare incerto e confuso, perché incerta e confusa è la direzione verso cui intende marciare la classe dominante nel suo complesso che, nonostante il persistere tradizionale di anelli forti, è all'evidente ricerca di quell'ubi consistam che con tanta coerenza era sempre riuscita a ricomporre all'indomani di ogni cambiamento sociale e politico.
Nel crepuscolo dei vecchi dèi e dei vecchi valori (ma quando invecchia un valore come la solidarietà?) un'ombra grigia ed indistinta si sta diffondendo sul paesaggio sociale che ci circonda, rendendo tutto indistinto, atono, banale.
La sbrigativa e semplicistica religiosità volgarmente laica (cioè priva di reali valori mondani e spirituali) di chi si accontenta (perché non ha altro, né ci si è preoccupati di darglielo, e perché non vuole che gli altri vogliano altro) di un piccolo commercio concentrato in Dio, Patria e Famiglia, per lasciare ampio spazio, il maggior spazio possibile, al cannibalismo sociale cui siamo fatalmente votati, non può accontentare certamente né i laici intrisi dell'aura dei valori positivi e generali dello spirito del mondo moderno (che non è solo mercato - una rilettura o lettura (?) di Polany(g) ci dovrebbe far riflettere più attentamente su questa divinità cui si sta sacrificando acriticamente il mondo), né quei laici convinti tuttora che il socialismo non sia quell'utopia da babbei o da nostalgici retrogradi che si vuole, con strano accanimento, far accreditare come luogo comune, né la Chiesa, né, tanto meno, le persone sinceramente e profondamente religiose.
Man mano che scende l'oscurità si avverte già la necessità che qualcuno dica: "Va', metti una sentinella; ch'essa annunci quel che vedrà!", proprio perché dall'indistinto grigiore sorge la domanda continua: "Sentinella, a che punto è la notte?"(19).
Si sta avvicinando, nella meditazione e nella poca azione, il momento di una definitiva scelta di campo e, a questo punto preciso, l'immaginario non può pretendere di continuare ad essere il tranquillo fiume su cui viaggiano, indisturbati ed imperturbabili, i miti e i riti delle classi dominanti del momento.
Esso dunque dapprima deve spezzarsi e poi ricomporsi e poi ancora ricostruirsi, non più sotto il riflesso di una falsa coscienza che proviene da un'anima, forse melanconica, ma abbassata a livelli triviali e banalizzanti, ma sotto il riflesso e l'impulso di una lotta politica e sociale che può non essere delegata alle anime belle che in ogni situazione difficile emergono e si mettono in movimento. In qualunque modo possa finire la vicenda non si farebbe altro che riproporre una direzione egemonica di élites ad un immaginario la cui capacità di assorbimento e di assestamento è senza pari.
Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla(20).

Tito Maniacco, marzo 1994 - aprile 1995

da L'ideologia friulana. Critica dell'immaginario collettivo di Tito Maniacco, Kappa Vu 2010

*

(a) Le mie note al testo di Maniacco saranno probabilmente influenzate dal fatto che vengo da un soggiorno italiano, dopo il quale mi ci vorrebbe un lungo periodo di decantazione per farmi uscire dalla testa almeno la frase che più spesso ho letto e sentito nelle ultime settimane: l'Italia non è la Grecia-l'Italia non è la Grecia-l'Italia non è la Grecia(b1, b2)...
(b1) Qualche volta seguita dal corollario: e neanche la Spagna-e neanche la Spagna-e neanche la Spagna...
(b2) Come si fa a ridurre un intero paese, inclusa la sua popolazione, la sua cultura e la sua storia - con una bruttissima sineddoche(c), tra l'altro - al suo solo salvadanaio?
(c) Sineddoche che, senza la Grecia, non avremmo nemmeno nel nostro vocabolario.
(d) Così non si può più andare avanti.
Perché avete lasciato che i nostri figli fossero educati dai borghesi? Perché avete permesso che le nostre case fossero costruite dai borghesi? Perché avete tollerato che le nostre anime fossero tentate dai borghesi? Perché avete protestato solo a parole mentre pian piano la nostra cultura si andava trasformando in una cultura borghese? Perché avete accettato che i nostri corpi vivessero una cultura borghese? Perché non vi siete ribellati alla nostra ansia, che si giustificava giorno per giorno con lo strappare qualcosa alla miseria, ad avere una vita borghese? Perché vi siete condotti in modo da trovarvi di fronte a questo fatto compiuto, e, vedendo che ormai non c'era più niente da fare, eravate disposti a salvare il salvabile, partecipando, realisticamente, al potere borghese? Così non si può più andare avanti
Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo. Perché i nostri figli non siano educati dai borghesi, perché le nostre case non siano costruite dai borghesi, perché le nostre anime non siano tentate dai borghesi. Perché se la nostra cultura non potrà e non dovrà più essere la cultura della povertà, si trasformi in una cultura comunista. Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari.
Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo.
Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vostro problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari.
Pier Paolo Pasolini, Appunti per una poesia in terrone, La nuova gioventù, Einaudi.
(f) Pare che sia una storpiatura di via vel strata Hungarorum, corrispondente alla via Postumia.
(g) Polányi.

(continua)

(1) Messaggero Veneto, prima pagina, venerdì 25 febbraio '94.
(2) Eschilo, Le Eumenidi, Episodio III.
(3) V. Majakovskij, Il poema Lenin, XI(e).
(e)            Мы и кухарку
каждую
             выучим
                          управлять государством!

                 A ogni semplice cuoca
insegneremo
                 a guidare
                              lo stato!

Vladímir Majakosvkij, Lènin, Einaudi 1967, traduzione di Angelo Maria Ripellino
(4) L. Accati, Il marito della santa. Ruolo paterno, ruolo materno e politica italiana, Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali, 13 pagg. 79-104.
(5) Cfr. L'Europa barbara e feudale, in Storia d'Italia e d'Europa, a cura di U. Guidetti, Iaca Book, 1978, cap. VIII, pag. 176 "... dell'invasione franca sono messi per lo più in risalto i lati negativi, gli episodi di crudeltà... il nome di Pipino dato in Friuli ad un uccellino che altrove è detto régolo, animaletto piccolo e voracissimo". Cfr. G. Faggin, Vocabolario della lingua friulana, Del Bianco, 1985: repipin (zool.) régolo, fiorrrancino (Regulus regulus...).
(6) Menis, Storia del Friuli.
(7) Il nuovo Pirona, Vocabolario friulano: Salvàn = Silvano, om di bosc, om salvadi di bosc, protagonista di molte favole carniche.
(8) G. Biasutti, La lunga fine dei Longobardi in Friuli, Udine, 1979.
(9) C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, 1976; A. Del Col (a cura di) Domenico Scandella detto Menocchio, Biblioteca dell'Immagine, 1990.
(19) G. Biasutti, La mala lingua di un poeta satirico di sangue blu contro il "meccanismo" del ghetto, sta in A. Zanon, Friulano illustre, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Udine, 1975.
(11) J.P. Cuvillier, Storia della Germania medievale, Sansoni, 1985. VI, I pag. 410; G. von Zahn, Studi friulani, Udine, 1888.
(12) F. Bianco, D. Molfetta, Cramârs, l'emigrazione dalla montagna carnica in età moderna (Secoli XVI-XIX), C.C.I.A.A. Udine, 1992.
(13) H. de Balzac, La pelle di zigrino. Come è noto è una pelle che, secondo la leggenda, si restringe ogni volta che viene espresso ed esaudito un desiderio.
(14) Manin Ludovico depose la carica di doge nel 1794 sotto la minaccia di Bonaparte. Antica famiglia friulana.
(15) L. Musset, Le invasioni barbariche. Le ondate germaniche, Mursia, 1989, III, I pag. 140.
(16) F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II. Einaudi, 1976; R. Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità V. Il Mediterraneo.
(17) P. Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Einaudi, 1973. Modo nuovo de intendere la lingua zerga: Furlano = Menchione (pag. 218).
(18) Il morto afferra il vivo, trascina con sé. K. Marx, Il Capitale, prefazione alla prima edizione del 1867, pag. 17, ed. Rinascita, 1956, Libro primo, I.
(19) Isaia, 21-6 e 221-11.
(20) C. Pavese, Prefazione a Moby Dick o la balena, Adelphi, 1987; sta anche in Saggi letterari, in Opere, Herman Melville, Einaudi, 1968.