sabato 30 luglio 2011

e la prora ire in giù, com’altrui piacque

Non avevo ancora 10 anni, il 2 agosto del 1980. Se provo a depurare i miei ricordi dalle conoscenze sulla strage di Bologna che ho accumulato negli anni seguenti, vedo, all'indomani della strage e nei giorni immediatamente successivi, solo pagine di quotidiani lasciati su teli da bagno di una spiaggia della costiera triestina, con fotografie in bianco e nero, ad ingiallire al sole d'agosto. Eppure, nonostante la gravità dell'attentato di Bologna, di tutte le innumerevoli azioni terroristiche che hanno costellato gli anni della mia infanzia, il punto più alto, in termini di netta percezione di un senso di smarrimento che necessariamente assorbivo dal mondo degli adulti, è stato il sequestro Moro, non la strage di Bologna, come se gli italiani - mi vien da pensare ora - a parte le prime naturali reazioni di sgomento, fossero allora già intimamente rassegnati a quella sequenza di morte di Stato avviata da piazza Fontana (o, meglio, da Portella della Ginestra) e all'impossibilità, proprio in quanto morte di Stato, di conoscerne tutti gli artefici e tutte le menti. C'è una fotografia impressa nel mio cervello che ritrae un momento di pausa nei miei giochi di strada con i miei compagni di allora: me su una bicicletta a fianco di un cancello verde, di cui impugno una sbarra per tenermi in equilibrio da ferma per evitare di mettere i piedi a terra, mentre cerco di esprimere le mie paure e la mia incapacità di comprendere e pongo domande ad una bambina di appena un anno più grande di me, ma già per questo considerata in grado di dare possibili risposte ai miei interrogativi, alla nebulosa delle mie incomprensioni. È, questa, la mia personale istantanea dei lunghi giorni del sequestro Moro. Di Bologna, se escludo gli anni successivi, non mi resta niente, a parte quei giornali sulla spiaggia e, in secondo piano, il sospiro di sollievo della mia famiglia nel pensare che lo zio Paolo, allora studente al DAMS, quei giorni a Bologna non c'era.

Il governo fa benissimo a non inviare alcun suo rappresentante alle commemorazioni per la strage. La sinistra, dopo trentuno anni, potrebbe fare altrettanto, se non altro per quello che non ha saputo fare, se non altro perché non ha affrontato il nodo del segreto di stato, se non altro perché si trova ancora una volta impotente ed inadeguata di fronte all'ennesimo governo i cui più alti rappresentanti hanno avuto in tasca tessere della P2. Non sarà così, ma sarebbe bello se il 2 agosto 2011, a Bologna, per una volta, parlassero solo ed esclusivamente i superstiti e i parenti dei morti e dei feriti, italiani e stranieri, e tutti gli altri, per un giorno, tacessero.

In occasione della prima commemorazione pubblica organizzata dal Comune, che da subito fu contestata da coloro - cattolici, posto che sia necessario dirlo - che dichiaravano che i morti si sarebbero dovuti commemorare in silenzio, il 31 luglio del 1981, dalla Torre degli Asinelli, Carmelo Bene non ricordò i morti del 2 agosto di un anno prima, ma i feriti, e lo fece declamando Dante. Dante è uno dei nostri primi rifugi quando ci arrendiamo e non siamo disposti ad ammetterlo. È un brutto, bruttissimo segno, quando gli italiani leggono Dante in pubblico.

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