D'abord, que je vous présente les poilus de la 9e
Il sont quinze en tout et pour tout... pas un de plus,
pas un de moins... Les autres sont restés là-bas, dans
les plaines de Belgique, de la Marne, ou ailleurs !
De ceux-là nous ne parlons plus, - à quoi bon chanter
des de profundis ?
Le grandi barbe della 9ª compagnia
È il titolo di un romanzo, o per dir meglio, la traduzione di un titolo. In francese, — perché il romanzo è francese, di Arnould Galopin, — suona Les Poilus de la 9e.
Mi sembra che "gran barba" messo a rendere in italiano la parola "poilu" si adatti abbastanza bene. Chi siano i "poilus", o le "grandi barbe" è appena accessorio ricordare. Sono i soldati che si trovano al fronte, e preferibilmente vengono denominati così i richiamati ed i veterani. Per quanto il rasoio sia un oggetto di prima necessità e di facile uso, e quantunque anche al fronte non sia impossibile trovare barbieri, avviene assai comunemente che il tempo e l'agio di radersi o di farsi radere manchi al soldato. Le granate e le fucilate da scansare o da spedire non concedono grandi distrazioni. La barba, così, abbandonata a se stessa, approfitta per allungarsi e stendersi, e per occupare e divorare le guancie solitamente più nitide e liscie. Il soldato così diventa un "poilu". La barba vale per lui... uno stato di servizio.
"Les Poilus de la 9e" - è facile immaginarlo - è un romanzo di guerra. Diciamolo subito: fra i tanti che la guerra ha fatto fiorire, questo è certamente il migliore. Sente la fretta della composizione, è vero, è tutt'altro che accurato nella scrittura, contiene qualche episodio che soverchia e sovrabbonda, ma ha una primissima qualità: sa farsi comprendere sincero. La guerra, del resto, Arnould Galopin, l'ha seguita, conosciuta, combattuta, e come soldato e come giornalista. Il quadro che egli ne fa - o per dir meglio serie di schizzi che quadro - lo si sente fedele. È la vita del campo e della trincea, la battaglia colta sul vivo, notata rapidamente sul taccuino da un corrispondente di guerra, e lo stile affrettato, senza eleganze, soldatesco quasi, ha però una nervosità, una sincerità che toccano. Quando non si ha tempo di rigirare e di lambiccare periodi, si resta meglio incatenati al proprio soggetto, è più difficile divagare ed intessere alla verità odiosi fregi.
"Le grandi barbe della nona compagnia" non ha nulla a che vedere con nessuno dei romanzi famosi che hanno la guerra per sfondo o per tema principale. Victor Hugo, Stendhal, Tolstoi, Erckmann-Chatrian, Zola, Rudyard Kipling, ciascuno di questi ha trattato la guerra secondo uno speciale punto di vista. Victor Hugo nell'episodio di Waterloo, nei Miserabili, l'ha rappresentata epica ed eroica. Nella Chartreuse de Parme, Stendhal, che pure mette in scena Waterloo, ce la dipinge solo per quel tanto che può essere compreso e veduto da un singolo oscuro soldato a cui naturalmente sfuggono i grandi movimenti di masse, gli obbiettivi ed i risultati immediati. "È stata davvero una grande battaglia?" si chiede un personaggio di Stendhal, dubbioso e stupito alla fine della fatale giornata che ha segnato il crollo di Napoleone. Egli si era battuto, aveva fatto marcie e contromarcie, assalti e parate, e non aveva capito nulla. Tra parentesi, il Waterloo dello Stendhal, per la verità e l'umanità delle osservazioni è rimasto ancora unico nella letteratura.
Viene Tolstoi. Tolstoi ci dà la guerra veduta dall'alto e la tratta dai suoi effetti sociali. Egli mette in scena soprattutto i capi, Napoleone e Alessandro, i generali, gli ufficali; Erckmann e Chatrian invece la vedono e ne descrivono gli orrori per gli occhi degli umili, della gente del popolo e della campagna. I celebri autori alsaziani, finissimi artisti, più di ogni altra cosa si impiegano a mostrarci il contrasto fra la vita pacata, bonaria, rude e serena del cascinale pacifico e del villaggio oscuro, e quella violenta degli eserciti che un'ambizione, quella di Napoleone I, trascina per l'Europa di battaglia in battaglia, di capitale in capitale.
Le grandi figure non fanno che profilarsi rapidamente e passare. Delle gravi questioni per cui i popoli sono a contesa, appena si accenna per proclamare che l'ideale dell'umanità è nella libertà e nella pace. Al primo piano cosa troviamo? Solo figure semplici: un apprendista orologiaio, un maniscalco, un medico di campagna, un trappolatore di talpe, un maestro di scuola e ragazzi e contadini. La visione dolce dei paesaggi tranquilli e della vita domestica, l'odore sano della terra lavorata ci segue dappertutto e ci dà come la nostalgia di luoghi cari, da lungo abbandonati.
Zola, com'è sua natura, eccelle nel descrivere e nel mettere in movimento le masse. L'uomo si perde, è sommerso nella moltitudine, e ben si può dire che nella sua Débacle non è protagonista questo o quel personaggio, ma l'esercito intero.
Quanto a Kipling, anglosassone, egli par considerare la guerra niente altro che come uno sport, il più eccitante, il più inebriante di tutti gli sports. I suoi ufficiali ed i suoi soldati - per lo più ufficiali e soldati dell'esercito anglo-indiano - fanno alle fucilate, si danno ad inseguire tribù ribelli, così come se fossero impegnati ad una partita di football o si accingessero ad una caccia alla tigre. Il suo Dick, della Light that failed, che cieco si fa condurre sotto Omdurman al campo di Gordon, stretto dai ribelli di Araby Pascià, vuole, poiché non può più vedere la guerra, almeno sentirla, respirarne l'odore, e l'acre odore della polvere ancora lo rimescola tutto e lo fa rivivere.
Niente di tutto questo in Arnould Galopin: né quadri epici, né analisi di caratteri, né considerazioni strategiche, né tesi sociali ed umanitarie: egli ci dà la guerra, con tutti i suoi orrori e tutti i suoi spaventi sia pure, ma vista traverso una lente di filosofica gaiezza, che sa prendere alla meglio anche le cose peggiori, la guerra traverso il temperamento facilmente burlevole, motteggiatore e monellesco del buon popolano di Parigi, il quale è e sarà sempre un inalterabile ed incorreggibile Gavroche. Il parigino, l'uomo che non si stupisce di nulla ma che a tutto si interessa e che tutto commenta con uno scherzo, il curioso maniaco che nel '70 non ristava dall'arrampicarsi su Montmartre per contemplare le vicende dell'assedio e dei combattimenti, il parigino assiste alla guerra come ad uno spettacolo. Quando a Parigi vennero i taube(*) a gittar bombe, il primo moto generale, quasi impulsivo fu quello di correr fuori in strada a vedere.
Appunto, le "grandi barbe" della nona compagnia sono in massima parte parigini, grandi monelli fatti per la celia ed adoratori della novità. Anche quando la vita della trincea è più dura, ed anche quando si debbono stringere i cinturini e si ha fame perché si è "dato fondo a tutte le scatole di scimmia conservata" (le scatole militari di carne) il frizzo non perde mai il suo diritto.
"Noi siam qui in fondo alla trincea", dice uno dei poilus "un po' come sulla zatteraccia della Medusa; con questa differenza, che oltre al non aver nulla da metterci dentro, non abbiamo nemmeno la zattera, e siam tuffati nell'acqua schifa fino al ginocchio. Se dura ancora a piovere, ce l'avremo alla cintola, e allora sarà un bel semicupo!"
Il gergo parigino, pittoresco ed intraducibile, dà anche più sapore ai dialoghi - sempre vivacissimi - ed alle osservazioni, spesso impensate e gustose: i poilus parigini non chiamano mai nessuna cosa col suo nome. Tutto, per loro, si trasfigura e si colora con nomi e parole speciali, ed essi non vivono che tra iperboli e traslati. Hanno trasportato al campo il linguaggio curioso dei sobborghi e qui l'hanno ancora arricchito.
In eloquio "poilu", "berne un sorso" si traduce con "soffiare nella piva" - "non arrischiarsi" diventa "non compromettersi coi datteri" - "mangiare" è "farsi gonfiare il bariletto" - "cogliere al tiro un nemico" si esprime nella perifrasi "mettere nel nero" e "scucire" si dice " per "caricare la baionetta", "colpo di Trafalgar" per "azione importante", "picchiar sodo sulle scatole" per "mangiare di buon appetito" ed "avere un'idea nella cipolla" per "fare un progetto" e così via.
Questa è la lingua parlata dalle "grandi barbe della nona compagnia", la lingua di Jollivet, detto la Girandola, di Platin, detto la Pancia, di Parigot, di Martineau, i quali senza proprio essere i protagonisti esclusivi del racconto (protagonista è l'intera nona compagnia), figurano tuttavia come le "grandi barbe" principali e più segnalate.
Non credete però che l'autore vi narri avventure straordinarie o vi metta in scena prodigiosi eroi o vi conduca per vie irte di difficoltà e di complicazioni ad epiche apoteosi. I "poilus" di Arnould Galopin, se guasconeggiano un po' nel linguaggio come moschettieri di Dumas padre, non sono in realtà che buoni diavoli di soldati che fanno il loro dovere e le loro vicende non sono per nulla divere da quelle che possono toccare a qualsiasi soldato.
L'autore, che narra in prima persona, e figura anch'egli fra i "poilus", afferma del resto, a bella prima, che non scrive un romanzo.
"Confesso umilmente" egli dice, "che non sono un romanziere. Ciò che racconto, l'ho veduto. Non esagero nulla. Poi io sono qui, in certo qual modo, il portavoce di un gruppo di bravi ragazzi i quali non tollererebbero che, per ottenere effetti di penna, raccontassi delle panzane. Finita la guerra, si vedrà. Pel momento bisogna lasciarli parlare essi stessi. Vedrete che sono abbastanza eloquenti e non occorre condire le loro parole di spezie...".
L'accento del racconto è così, da capo a fondo, veridico. L'amore della patria - e sobriamente espresso come sempre fanno le persone che sentono veramente e fortemente epperò non hanno bisogno di far pompa in gran discorsi del loro sentimento, - è la sola passione che commuova gli animi. La fame e la sete, la trepidazione degli agguati, la pazienza delle attese nelle trincee, le marcie, i bivacchi, la caccia alle spie, i rischi delle audaci spedizioni notturne, le ambulanze, le sale degli ospedali, ecco tutti gli elementi della narrazione. Vi troverete episodii, ma intreccio nessuno. E così deve essere. Il vero dramma, così complesso e così vasto — la Guerra — non può essere frazionato o prestar tenui fili ad un intrico secondario. Ma un personaggio c'è sovra gli altri, importantissimo, e che tiene tutto il lavoro e ne forma l'anima: il signor Buon Umore. È questi che incita ed anima tutti gli altri, questi che commenta, questi che filosofeggia. Nei momenti più critici egli compare, ed ecco, nelle più buie contingenze si vede chiaro... Ferito alla gamba, amputato, un poilu, anziché commiserarsi e maledire alla sua sorte, sorridendo si rassegna. "Ero pronto", egli dice "a sacrificarmi pel mio paese... a dargli la mia vita. È colpa mia, forse, se non ho potuto offrirgli che una gamba?".
Inerte, inchiodato in un letto d'ospedale, un altro, con due palle nella coscia ed una larga ferita di baionetta al braccio, pur non si lagna del suo stato, e pieno di brio, non appena le forze glielo consentono, scrive ai suoi compagni d'arme allegramente: "Insomma, io sto come uno che viva di rendita. Non sono in un ospedale ma in una villeggiatura, con caloriferi, luce elettrica, e quell'affare che sapete, all'inglese. Mi pare di abitare un palazzo. Siamo qui in dieci in una camerata dove il pavimento brilla come uno specchio ed ognuno ha il suo letto pitturato di bianco, con boccie d'oro ai piedi ed alla testa. Quanto ai lenzuoli, sono più fini che fazzoletti da naso, e ve n'hanno con pizzi ed iniziali. L'elastico rimbalza che è un piacere. Ed ognuno ha, pure, per sé solo, un bel tavolino da notte di mogano, col suo inquilino torso da maravigliare... E belle signore vestite di bianco, — se sono belle, corpo di bacco! — ci cantano la ninna nanna... "
Sul punto di andare al fuoco, Plotin e Jollivet non fanno che scherzare. "A sentirli schiamazzare" osserva un compagno "non si direbbe mai che quei due fra un istante andranno a rischiare la pelle".
C'è un tantino di jattanza in questo buon umore, ma tuttavia fa bene.
Perché, — il volume di Arnould Galopin ce lo dimostra — il buon umore, anche in guerra e sopratutto in guerra, è l'ottimo dei compagni, ed è con lui che si va avanti e con lui che si vince.
Ernesto Ragazzoni, terza pagina de
La Stampa, 2 gennaio 1916
* Per evitare delle perdite tra la popolazione civile, avevamo ricevuto l'ordine di prendere le bombe più piccole, di circa 2 chili. Non avevano quasi efficacia, ma facevano molto rumore. Solo il morale della popolazione avrebbe potuto essere colpito da questo raid, e forse si sarebbe potuto sperare di far dichiarare Parigi città aperta, visto lo stato della vetustà delle sue fortificazioni. La popolazione era numerosa nelle grandi vie e nelle piazze, in quella bella giornata di tarda estate. Non c'era stato alcun panico, gli abitanti sembravano tranquilli e guardavano in aria.