L'assedio di Leningrado, che iniziò settant'anni fa, ha trovato in letteratura testimonianze impressionanti.
Nessun'altra città europea ha dovuto soffrire nella Seconda Guerra Mondiale così come l'assediata Leningrado. Morì circa un milione di persone. Il ricordo dell'assedio è rimasto sbiadito in Occidente. La letteratura russa invece ne offre ampia testimonianza, ma solo poche opere sono anche esteticamente fedeli al disastro.
Di Oleg Jur'ev
L'8 settembre del 1941 le truppe tedesche e finlandesi completarono l'accerchiamento della seconda città più grande dell'Unione Sovietica, Leningrado. La metropoli di tre milioni di abitanti fu isolata da tutte le vie di rifornimento. Era l'inizio del blocco destinato a durare 872 giorni, uno dei maggiori crimini della storia moderna. Le persone morirono principalmente di fame, ma anche per il freddo e per i colpi dell'artiglieria: la stima del numero delle vittime è di 1,1 milioni di persone. Il disastro non fu solo messo in conto dai tedeschi, ma anche voluto e pianificato (a questo si aggiunse, da parte sovietica, un'evacuazione organizzata in modo pessimo e in parte vessatoria secondo punti di vista politici).
Il blocco nella coscienza
Così recitava l'ordine segreto di Hitler n. I-a 1601/41 del 22 settembre 1941 «Il futuro della città di San Pietroburgo»: «1. Il Führer ha deciso di cancellare la città di Pietroburgo dalla faccia della terra. Dopo la vittoria sulla Russia Sovietica non ci sarà il benché minimo motivo per cui questa grande città debba continuare ad esistere. Anche la Finlandia ha dichiarato di non essere interessata alla continuazione dell'esistenza di questa città situata ai suoi nuovi confini. (...) 3. È stato suggerito di chiudere ermeticamente la città e di raderla al suolo con il fuoco dell'artiglieria di tutti i calibri e con continui attacchi aerei. Se questo condurrà all'offerta della sua capitolazione, essa andrà respinta?» L'8 novembre 1941 Hitler spiegò in un discorso che il nemico a Leningrado veniva «affamato». Il rapporto registra un «applauso scrosciante».
Il blocco di Leningrado, al di fuori della Russia, e tanto più in Germania, non si è ancora fissato nelle coscienze, anche se sono stati compiuti già molti sforzi in questa direzione. Non si può neanche dire che ci sia mancanza di informazione. Il blocco fu già oggetto di discussione ai processi di Norimberga (all'epoca con una stima di 600 000 morti), ci sono più che sufficienti libri internazionali e lavori di ricerca, cui se ne aggiungono costantemente di nuovi. Eppure «Leningrado» rimane un crimine quasi sconosciuto. Perché? Dipende dal fatto che esso, a differenza degli altri grandi crimini del nazionalsocialismo, è rimasto «proprietà» esclusiva della propaganda del potere sovietico, con la conseguenza che, dopo il 1945, nel rapido svilupparsi della guerra fredda, l'Occidente l'ha collocato al di fuori della propria sfera di attenzione e di empatia?
Non cercherò qui di aprire al mondo gli occhi sul blocco di Leningrado. Il mio tema è più modesto e più ricco di prospettive: la letteratura del blocco. Per prima cosa, tuttavia, devo mettere in chiaro che non uso in senso lato la parola «inferno» in relazione alla Leningrado sotto assedio, in particolare durante il primo inverno dell'assedio tra il 1941 e il 1942, quello che ha provocato il maggior numero di vittime. Per me non è una metafora. Se da qualche parte esiste un inferno, deve essere esattamente così: freddo perenne, oscurità, frammenti irriconoscibili di musica e notizie emessi da altoparlanti, marce lunghe ore ed ore con il principale mezzo di trasporto usato durante il blocco, la slitta per bambini. Cadaveri congelati ai bordi delle strade. Cadaveri di parenti a casa, che per giorni non possono essere seppelliti (naturalmente si cerca di mantenerne le carte di razionamento).
Al culmine della carestia, dal 20 novembre al 25 dicembre del 1941, un operaio riceveva 250 grammi di pane al giorno, mentre un impiegato, un membro della famiglia senza salario, un bambino, 125 grammi. Ai soldati al fronte si assegnavano 500 grammi. A questo pane venivano aggiunti fino al 50% di ingredienti non commestibili (cellulosa, granaglie, loppa). Eppure una storia dice più di molte cifre: Vasilij Betaki, un traduttore e poeta di Leningrado, che oggi ha 82 anni e vive a Parigi, racconta come, da bambino undicenne, durante il primo inverno dell'assedio abbia cacciato ed arrostito ratti. Con un martello stava seduto tutto il giorno davanti ad una tana di ratti nel suo appartamento, ad aspettare. Ne uccideva cinque o sei al giorno. L'idea gli era venuta da romanzi di Jules Verne, che aveva letto appassionatamente prima della guerra. Sua madre si rifiutava di mangiare i suoi ratti. Nonostante la madre ricevesse la razione di pane del figlio, morì ancora prima della primavera. Questa storia contraddice la leggenda popolare per cui tutti i ratti di Leningrado sarebbero fuggiti dalla città il 10 settembre del 1941, dopo il bombardamento mirato sulle case dei magazzini Badaev, dove si erano raccolte le scorte di generi alimentari cittadine, e sarebbero ritornati solo dopo la fine dell'assedio, il 27 gennaio del 1944. Il folclore del blocco è un soggetto particolare.
Ovviamente nell'inferno si produsse molta letteratura! La maggioranza degli scrittori rimasti in città (molti erano stati evacuati nell'entroterra) fu mobilitata e assegnata ai giornali dell'esercito o alla radio. Questo era il solo mezzo che contava per la gente comune sotto assedio. La radio trasmetteva non solo notizie, musica o discorsi del segretario del partito comunista, ma anche poesie e reportage. Alcuni poeti, che leggevano le loro poesie alla radio di Leningrado, divennero incredibilmente popolari. Ci si potrebbe ricordare di Olga Bergholz (1910–1975), che negli anni Trenta, da giovane poetessa fedele alla linea, causò danni molto seri, accusando colleghi sulla stampa di essere «spie nemiche». Ciò non valse ad impedire il suo arresto nel 1938. Suo marito, il poeta Boris Kornilov, fu giustiziato; torturata durante gli interrogatori, perse il bimbo che portava in grembo. Liberata nel 1939 dalla NKVD e riabilitata, la Bergholz aderì al partito e proseguì la propria carriera. Durante il blocco fu venerata come una santa per le sue poesie caratterizzate da un grande impatto emotivo, il che la rese intoccabile dopo la guerra. Beveva molto ed era nota in tutta la città per la sua lingua sciolta. Una volta fu invitata a presentare le sue poesie nella sede del KGB sulla Prospettiva Litejnyj, come ospite d'onore. Arrivò, già ubriaca, e chiese, ancora prima di togliersi il cappotto: «Avanti, gente, mostratemi dove state torturando!»
Tentativi di razionalizzazione
Le poesie della Bergholz, come molte altre opere composte durante il blocco, non possono essere propriamente definite poesia del blocco. Sono poesie (e anche prose) sul blocco, testi che cercano di immettere qualcosa di razionale nell'inafferrabilità del presente, infondere coraggio negli uomini e dare loro un sostegno. In questo senso assomigliano alle poesie dei poeti della radio che esortavano a resistere e alle disperate, silenziose «descrizioni private» della quotidianità del blocco. Prendiamo una poesia di Natalija Krandijevskaja-Tolstaja (1888–1963), una poetessa e per un periodo moglie del famoso romanziere sovietico Alexej Tolstoj. Parla di come gli uomini prendessero l'acqua con i secchi dai fiumi e dai canali: «Leghiamo il secchio alle slitte dei bambini, / e andiamo a prendere l'acqua / – dietro al ponte c'è un'erta collina, / attenzione a scendere... (...) La tormenta di neve fa mulinelli sopra la Neva, / in piume bianche, in argento, / quando prendevamo l'acqua era proprio così / 200 anni fa, all'epoca dello zar Pietro...» Vediamo qui intraprendere un tentativo di razionalizzazione mediante un rimando alla storia. Tali poesie della Krandijevskaja, così come il suo diario del blocco, non furono pubblicate durante la sua vita: erano considerate troppo private, troppo antieroiche.
Il tempo dei diari
Ancora più delle poesie, nella Leningrado assediata si scrissero diari. È come se gli uomini avessero cercato, attraverso la regolarità delle annotazioni, di portare ordine all'inferno, di trovare un senso nel tempo che si era fermato. I diari del blocco furono pubblicati in Unione Sovietica, con cautela, già a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta e furono utilizzati per la «educazione del popolo». Un esempio rappresentativo è il diario della scolara Tanja Savičeva, la «Anna Frank leningradese», che assurse a simbolo del blocco. Le sue note sono in realtà un documento impressionante: «Lo zio Ljoša il 10 maggio del 1942 alle 4 del pomeriggio. Mamma il 13 maggio del 1942 alle 7.30 di mattina. I Savičev sono morti. Sono morti tutti. È rimasta solo Tanja.» Fu portata via da Leningrado, ma morì nel 1944 per le conseguenze del blocco.
Alla fine degli anni Settanta-inizio degli anni Ottanta, fu pubblicata la cronaca dettagliata dell'assedio di Leningrado, «Il libro del blocco» (Blokadnaja kniga) di Daniil Granin ed Ales' Adamovič. Utilizzava abbondante materiale tratto da diari e ricordi privati e, grazie alla posizione di rilievo di entrambi gli autori nella gerarchia culturale, non si atteneva servilmente ai tabù della propaganda sovietica, che cercavano sempre di rappresentare gli orrori in modo un po' più sopportabile e le azioni eroiche, se possibile, ancora più eroicamente. A quel punto sembrò che tutto fosse già stato detto sul blocco. Eppure, dalla fine degli anni Ottanta, hanno continuato a venire pubblicate nuove testimonianze di inaspettata qualità artistica e umana, su tutte i diari e i saggi della critica letteraria Lidija Ginzburg (1902–1990).
Questo flusso di pubblicazioni non si è ancora arrestato. Nel frattempo sappiamo molto più di prima della vita all'interno del blocco. Particolarmente importante è la paradossale percezione del tempo durante il blocco (le sono dedicati i lavori della ricercatrice russo-americana Polina Barskova) – il tempo si ripete sempre con un andamento monotono e al contempo finisce ogni secondo. È infinito e allo stesso tempo dura, ma non procede. È il tempo dell'unicità ripetuta. Tutti i tentativi di riprodurre la realtà del blocco in un tempo letterario normale, anche lirico, falliscono proprio per questa qualità paradossale del tempo del blocco.
È spiacevole dirlo, ma è vero: negli ultimi dieci anni interessarsi del blocco è stata in Russia una moda intellettuale (anche altrove ha successo, ma non in territorio tedesco). Le pubblicazioni russe su questo tema sono onnipresenti. Tra queste, due scoperte sensazionali: due opere di poesia che sono nate nell'inferno e sono in grado di restituirlo poeticamente. Non avevano alcuna funzione terapeutica (tanto meno propagandistica), ma sono rimaste fedeli al blocco in quanto tale. Attraverso entrambe, il blocco ha trovato la via della profondità del linguaggio.
Il terrore assoluto
Nel 2007 è uscito presso la piccola casa editrice viennese Korrespondenzen un volume di poesie che ha rivoluzionato tutta l'idea che si aveva della poesia della catastrofe di Leningrado. «Blockade» è nato dalla penna di Gennadij Gor, scoperto dal traduttore Peter Urban, che ne aveva inizialmente studiato le prose brevi. Il volume pubblicato da Urban con testo a fronte non è stata una prima edizione solo tedesca, ma anche russa. Gor (1907–1981) era stato negli anni Sessanta e Settanta un autore di science fiction noto ed apprezzato. La sua precedente prosa sperimentale era conosciuta solo da pochi e le sue poesie erano sconosciute.
«Il sorriso insensato di Edgar Allan Poe, / Cervantes dall'andatura insicura, / inutile, ma d'oro un pesciolino / una cattura altamente pericolosa. / Mi uccideranno, lo so, un lunedì / e mi lasceranno giacere dove sta il lavatoio. / E là si laverà il mio scagnozzo / sorprendendosi dei baci, / ridendo, mentre si lava.» Da tali versi emerge il terrore assoluto: del morire congelati, di fame, divorati, letteralmente, da qualcuno diventato cannibale. Nelle poesie di Gor il cannibalismo si trasforma in una spaventosa metafora che diviene motivo conduttore dell'esistenza durante il blocco. Tuttavia, molto più importante è come queste poesie restituiscano il caos e la cristallizzazione del tempo nell'inferno del blocco, e questo in continuo dialogo con la propria morte. Quello che rende le poesie di Gor un evento nella vita letteraria russa è l'aver mostrato che il linguaggio dell'avanguardia di Leningrado inviso alla dottrina del realismo socialista era adatto allo stato esistenziale eccezionale. Sembra quasi che i «poeti insoliti» degli anni Trenta, Daniil Charms (morto di fame all'ospedale del carcere durante il blocco), Alexander Vvedenskij (cui spararono durante un trasporto di prigionieri) e Nikolaj Zabolockij (allora in un campo di lavoro) abbiano sviluppato il loro linguaggio, la loro fantasia poetica e la loro complessa percezione del tempo in anticipo sul blocco. Gennadij Gor si è riallacciato, consapevolmente o meno, a questo linguaggio e ha creato un universo lirico che porta il lettore direttamente all'inferno.
Poesie pseudoprimitive
Un'ulteriore scoperta è la raccolta di poesie, uscita a Mosca nel 2011, di Pavel Sal'cman (1912–1985), pittore e grafico e allievo di Pavel Filonov (1883–1941), un classico dell'avanguardia russa morto durante il primo inverno del blocco. Sal'cman dipinse, girò film ed inoltre scrisse poesie e prosa durante tutta la sua vita. Passò il primo inverno del blocco a Leningrado. La poetica delle sue poesie composte all'epoca appartiene inconfondibilmente alla stessa cultura dell'avanguardia leningradese: «Sono un cretino, sono uno stronzo, sono uno storpio, / ucciderei un uomo per una salsiccia, / ma per favore fateci entrare, / raspiamo da molto tempo alla porta come cani. / Però soffro, boia che siete, / di incontinenza!» Queste poesie pseudoprimitive, nel loro essere disperatamente dirette, sono ben lungi dal tentativo di razionalizzare l'accaduto e di comprenderlo in una logica umana. Avvertono nella loro struttura l'orrore, in un modo terribile, attraente.
Il blocco di Leningrado fa parte degli eventi che ricordano di cosa siano capaci gli «uomini civilizzati» quando un'ideologia concede loro la licenza di uccidere. Le testimonianze ricordate, siano di tipo documentaristico o letterario, consentono di conoscere una sofferenza indicibile. Dare ai morti una memoria e al dolore un linguaggio è il massimo, ma anche la cosa più difficile che sia in grado di fare la poesia, perché questa deve sempre lasciare aperte le ferite affinché non le sfugga nessuna interpretazione dell'insensato.
Oleg Jur'ev, nato a Leningrado nel 1959, vive a Francoforte sul Meno: è autore di romanzi, poesie, drammi e saggi.
NZZ, 3.9.11
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