El mundo es lo que es
y no lo que un hijo de puta
llamado Einstein
llamado Einstein
dice que es.
È legittimo pensarla come Parra, come è perfettamente legittimo per i cineasti come Godard sostenere che "il cinema è il cinema". Peccato però che con proclami come questi, oltre ad ingrossare una fila già ben nutrita di persone da Parmenide in poi, ce la si prenda proprio con chi prova non solo ad offrire nuove visioni, ma è anche pronto a ritrattarle e ad ammettere il proprio errore e tutti i propri limiti, se e quando queste visioni non trovano un sufficiente riscontro sperimentale, ovvero un minimo di sostegno nella realtà così com'è, nel mondo com'è. Inoltre, chi prova ad offrire nuove visioni scientifiche del mondo lo fa non di rado per il solo gusto di esplorarlo, non di rado contribuendo a dar luogo ad applicazioni finali di cui si potrebbero almeno apprezzare le ricadute positive a beneficio della qualità della vita dell'uomo e dell'ambiente in cui vive e che invece, da quando la fisica è associata solo all'energia nucleare e, più in generale, da quando il positivismo è diventato démodé, si tendono a trascurare (uno dei miei sogni è quello di intervistare qualche antipositivista quando gli capita di trovarsi al pronto soccorso, ma è un sogno che resterà tale, perché il posto sarebbe ideale per saggiarne le opinioni sul piano applicativo, ma chiaramente inopportuno, date le circostanze).
L'energia virulenta, anche distruttiva, di Parra ci può stare, e può essere salutare, come quando si oppone ai mostri sacri alla Neruda, proprio in quanto mostri sacri: la poesia di Parra non vuole essere sacra ed è questa la sua forza più vitale. La sua visione non consolatoria della realtà è poi più che sufficiente per non doverlo mai chiamare - per quanto mi riguarda - figlio di puttana, e questo anche nonostante i suoi manifesti. Ho un problema del tutto personale con i manifesti: proclamano (il che, già di per sé, mi evoca un discorso fatto da uno scranno, o comunque dall'alto) quello che si intende fare senza passare direttamente a farlo, il che è proprio il contrario della poesia: nel caso di Parra, però, il manifesto è essenziale: proclamando e non facendo, si colloca su un piano che per definizione è antipoetico, e quindi in linea con il suo obiettivo di fare dell'antipoesia, il che mi induce a concludere che, idealmente, avrebbe potuto limitarsi a redarre il suo manifesto, incarnazione principe dell'antipoesia, ma in realtà non mi dispiace che abbia provato a concretizzarlo, anche se con risultati non sempre felici.
Tuttavia, nel caso preso in esame non condivido per nulla le sue parole, e non in nome di una difesa dei modelli scientifici della realtà, ma, prima di tutto, perché tali parole intendono sottrarre ogni senso alla possibilità di creare visioni del mondo, e quindi escludono, mentre io, per indole, preferisco le addizioni e le inclusioni alle interdizioni e alle esclusioni. E non escludono solo le visioni del sapere scientifico, esemplificate nello scienziato del XX secolo che tutti conoscono almeno di nome, ma proprio tutte le visioni diverse da quelle che affermano: "la realtà è la realtà", incluse quindi quelle del popolo minuto, del suo sapere popolare, antico e senza pretese o velleità di sorta, ma denso, nonostante tutti i suoi limiti espressivi, e soprattutto legato all'esigenza della propria stessa sopravvivenza. E a questo sapere popolare, che ne ha prodotte, e molte, di visioni, anche se sono state spesso snobbate, se non ridicolizzate, ostacolate e vigorosamente combattute, tengo molto e non intendo minimamente fare a meno, Parra o non Parra.
Il popolo minuto è sempre stato, nella stragrande maggioranza dei casi, analfabeta e quindi ha dovuto rinunciare in partenza alle prove letterarie, che privilegiati come Parra hanno potuto sperimentare, privilegiati nel senso che hanno avuto accesso ad una completa educazione scolastica ed universitaria. Nonostante l'ignoranza delle lettere, il popolo minuto, del tutto analfabeta o più o meno illetterato che fosse, ha prodotto molta poesia, posto che si voglia o si abbia l'interesse di vederla. Se la poesia non è un bel tramonto (e non lo è), la gente analfabeta, che è poi la netta maggioranza dell'umanità nel corso della sua intera storia, non ha lasciato tracce della propria produzione poetica in tradizionali raccolte di poemi, ma in altre cose, ad esempio nei riti di matrice popolare.
Ne propongo un esempio concreto, quello del rito seguito dai contadini della regione della Dombes, a nord-est di Lione, vicino a Neuville-les-Dames, per sette (7) secoli fino all'inizio del Novecento, resistendo a tutto, alle sopraffazioni delle classi dominanti, ai loro espropri e ai loro periodici allagamenti delle campagne per creare bacini artificiali, e anche all'azione repressiva da parte della chiesa cattolica, contraria a tutto quello che puzzasse e puzzi di superstizione (altrui, s'intende). C'è da dire, per onestà, che è grazie all'azione dell'Inquisizione, nella persona di Étienne de Bourbon, ed in particolare al suo scrupolo di mettere per iscritto lo svolgersi della propria opera inquisitoriale, che dobbiamo la conoscenza del rito in questione. C'è anche da dire, per evitare che qualche suo erede o discepolo della chiesa trovi in questo qualche residuo motivo di orgoglio, che l'opera repressiva della chiesa è in questo caso fallita in malo modo, se il suo primo intervento risale al XIII secolo mentre le ultime tracce del rituale sono sopravvissute fino agli anni '30 del secolo scorso.
Si è trattato del culto e della venerazione di un animale, un levriero, alla cui tomba le madri affidavano i bambini malati nella speranza o, meglio, nella convinzione che li potesse guarire, anche se, come cercherò di spiegare, poeticamente non di guarigione si tratta. Lo racconta ed analizza estensivamente Jean-Claude Schmitt ne Le saint lévrier (ultima edizione: Flammarion, 2004), un libro piccolo e importante dedicato a Saint Guinefort, che in Italia è stato pubblicato da Einaudi, nella collana Microstoria di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi.
Dietro al rito si nasconde una leggenda, una storia, un racconto che al rito offre il sostegno affabulatorio e che ha lasciato tracce in molti racconti sparsi tra l'Europa e l'India (!), ma è il rito dei contadini della regione di Lione ad essere poesia, non il suo racconto, perché il loro rito, come la poesia, è fatto delle (inevitabili - solite, diceva Sanguineti) metafore e di altre figure retoriche, perché, come la poesia, offre una visione del mondo che si aggiunge, si sovrappone alla realtà senza negarla, perché il rito, con i suoi gesti sempre uguali a se stessi, come lo sono i versi letti e riletti, recitati e rirecitati, specie se composti da una forma strutturata, monotona, aiuta a ricordare.
Secondo la leggenda, Guinefort, un cane levriero, era stato ucciso dal suo padrone, un cavaliere che, lasciato da solo il proprio figlio neonato nella culla, ritornato al castello ne aveva scoperto con orrore la scomparsa e l'aveva in fretta attribuita al cane, avendolo visto con le zanne sporche di sangue. Dopo aver ritrovato il figlioletto sano e salvo e un serpente squartato a fianco della culla, però, il cavaliere aveva realizzato l'ingiustizia commessa e aveva provveduto a dare una degna sepoltura al cane. Fu la tomba del cane a divenire il luogo del culto popolare francese.
Ora, lasciando a malincuore a margine le interpretazioni avanzate per cercare di dare una giustificazione alla trasformazione di un cane in santo (ne riporto solo la più suggestiva, via: la somiglianza fonetica tra le parole del patois locale lou tsin (il cane) e lou tsaint (il santo)), e concentrandomi piuttosto sul rito, questo prevedeva tre sequenze, che potremmo considerare, secondo l'interpretazione che sto tentando di offrire, delle terzine o addirittura tre interi cantici: una preliminare offerta di sale, forse di pane e di monete, poi una parte centrale del rito, piuttosto complessa, ed infine una prova finale.
La parte centrale comprendeva la deposizione dei vestiti del bambino malato su dei cespugli, il piantare un chiodo nel tronco degli alberi ritenuti cresciuti sulla tomba del cane, il far passare nove volte (multiplo di tre) il bambino tra gli alberi e il lasciarlo nudo ai piedi di un albero e a fianco di una candela accesa. La madre si separava dal figlio per consentire lo scambio del bambino malato, che non era riconosciuto come proprio, ma considerato frutto di una precedente sostituzione malefica da parte di fauni o comunque di spiriti, con il proprio bambino, quello sano*. In tal senso l'operazione non era percepita come una guarigione, ma piuttosto come il ritrovare il proprio vero figlio: elementi, questi, che mettono in luce il senso di colpa provato dalle madri dei bambini malati, il loro umano desiderio di annullarlo a dispetto degli aspetti apparentemente più brutali del rito, che per l'inquisitore devono essere stati particolarmente difficili da comprendere, come quello dell'abbandono del bimbo nel bosco: eppure, a pensarci, se il figlio era malato e se, in quanto malato, non poteva essere il proprio figlio ma solo il frutto di uno scambio da parte di un terzo, veniva meno il senso di colpa dovuto all'insorgere della sua malattia e, d'altra parte, se il figlio malato non sopravviveva al rito, ciò voleva dire che era rimasto malato, e quindi che non era il proprio figlio a morire, ma quello introdotto di soppiatto nella culla da qualcun altro.
La parte finale del rito prevedeva nove (ancora nove) immersioni del bambino restituito alla madre nell'acqua di un vicino fiume.
Ogni singolo gesto, se si vuole, può essere visto come una corrispondente figura retorica realizzata non a parole, ma con oggetti concreti ed azioni concrete: l'accentuazione del contatto con la natura, il promuoverne l'interazione con l'uomo per il tramite dei vestiti sui cespugli, del chiodo conficcato nel tronco e dell'immersione finale nell'acqua, la cesura costituita dal tempo, misurato dalla candela-orologio, in cui il bambino giace a terra abbandonato, e soprattutto il cuore di una tale visione popolare che, come detto, non consiste in una guarigione, ma in una sostituzione, in uno scambio del bambino malato con quello sano. Se non è poesia questa. Non solo è poesia, ma è una poesia di libertà: sia libertà da ogni figura di intermediario con gli spiriti, e quindi dai clerici, sia libertà dal potere temporale dei signori locali, perché il culto ha sempre avuto luogo lontano dai centri abitati e dal loro controllo o sorveglianza, in una zona boscosa dove un tempo si ergeva un antico, possente castrum poi andato in malora, dove per fortuna, prima o poi, che lo vogliano o no, che lo accettino o meno, vanno a finire tutti i poteri.
*Lo scambio dei bambini ad opera di spiriti maligni è stata una credenza molto diffusa: si parla di enfant changé o changelin in Francia, changeling o fairy in Inghilterra, Wechselbalg in Germania.
L'energia virulenta, anche distruttiva, di Parra ci può stare, e può essere salutare, come quando si oppone ai mostri sacri alla Neruda, proprio in quanto mostri sacri: la poesia di Parra non vuole essere sacra ed è questa la sua forza più vitale. La sua visione non consolatoria della realtà è poi più che sufficiente per non doverlo mai chiamare - per quanto mi riguarda - figlio di puttana, e questo anche nonostante i suoi manifesti. Ho un problema del tutto personale con i manifesti: proclamano (il che, già di per sé, mi evoca un discorso fatto da uno scranno, o comunque dall'alto) quello che si intende fare senza passare direttamente a farlo, il che è proprio il contrario della poesia: nel caso di Parra, però, il manifesto è essenziale: proclamando e non facendo, si colloca su un piano che per definizione è antipoetico, e quindi in linea con il suo obiettivo di fare dell'antipoesia, il che mi induce a concludere che, idealmente, avrebbe potuto limitarsi a redarre il suo manifesto, incarnazione principe dell'antipoesia, ma in realtà non mi dispiace che abbia provato a concretizzarlo, anche se con risultati non sempre felici.
Tuttavia, nel caso preso in esame non condivido per nulla le sue parole, e non in nome di una difesa dei modelli scientifici della realtà, ma, prima di tutto, perché tali parole intendono sottrarre ogni senso alla possibilità di creare visioni del mondo, e quindi escludono, mentre io, per indole, preferisco le addizioni e le inclusioni alle interdizioni e alle esclusioni. E non escludono solo le visioni del sapere scientifico, esemplificate nello scienziato del XX secolo che tutti conoscono almeno di nome, ma proprio tutte le visioni diverse da quelle che affermano: "la realtà è la realtà", incluse quindi quelle del popolo minuto, del suo sapere popolare, antico e senza pretese o velleità di sorta, ma denso, nonostante tutti i suoi limiti espressivi, e soprattutto legato all'esigenza della propria stessa sopravvivenza. E a questo sapere popolare, che ne ha prodotte, e molte, di visioni, anche se sono state spesso snobbate, se non ridicolizzate, ostacolate e vigorosamente combattute, tengo molto e non intendo minimamente fare a meno, Parra o non Parra.
Il popolo minuto è sempre stato, nella stragrande maggioranza dei casi, analfabeta e quindi ha dovuto rinunciare in partenza alle prove letterarie, che privilegiati come Parra hanno potuto sperimentare, privilegiati nel senso che hanno avuto accesso ad una completa educazione scolastica ed universitaria. Nonostante l'ignoranza delle lettere, il popolo minuto, del tutto analfabeta o più o meno illetterato che fosse, ha prodotto molta poesia, posto che si voglia o si abbia l'interesse di vederla. Se la poesia non è un bel tramonto (e non lo è), la gente analfabeta, che è poi la netta maggioranza dell'umanità nel corso della sua intera storia, non ha lasciato tracce della propria produzione poetica in tradizionali raccolte di poemi, ma in altre cose, ad esempio nei riti di matrice popolare.
Ne propongo un esempio concreto, quello del rito seguito dai contadini della regione della Dombes, a nord-est di Lione, vicino a Neuville-les-Dames, per sette (7) secoli fino all'inizio del Novecento, resistendo a tutto, alle sopraffazioni delle classi dominanti, ai loro espropri e ai loro periodici allagamenti delle campagne per creare bacini artificiali, e anche all'azione repressiva da parte della chiesa cattolica, contraria a tutto quello che puzzasse e puzzi di superstizione (altrui, s'intende). C'è da dire, per onestà, che è grazie all'azione dell'Inquisizione, nella persona di Étienne de Bourbon, ed in particolare al suo scrupolo di mettere per iscritto lo svolgersi della propria opera inquisitoriale, che dobbiamo la conoscenza del rito in questione. C'è anche da dire, per evitare che qualche suo erede o discepolo della chiesa trovi in questo qualche residuo motivo di orgoglio, che l'opera repressiva della chiesa è in questo caso fallita in malo modo, se il suo primo intervento risale al XIII secolo mentre le ultime tracce del rituale sono sopravvissute fino agli anni '30 del secolo scorso.
Si è trattato del culto e della venerazione di un animale, un levriero, alla cui tomba le madri affidavano i bambini malati nella speranza o, meglio, nella convinzione che li potesse guarire, anche se, come cercherò di spiegare, poeticamente non di guarigione si tratta. Lo racconta ed analizza estensivamente Jean-Claude Schmitt ne Le saint lévrier (ultima edizione: Flammarion, 2004), un libro piccolo e importante dedicato a Saint Guinefort, che in Italia è stato pubblicato da Einaudi, nella collana Microstoria di Carlo Ginzburg e Giovanni Levi.
Dietro al rito si nasconde una leggenda, una storia, un racconto che al rito offre il sostegno affabulatorio e che ha lasciato tracce in molti racconti sparsi tra l'Europa e l'India (!), ma è il rito dei contadini della regione di Lione ad essere poesia, non il suo racconto, perché il loro rito, come la poesia, è fatto delle (inevitabili - solite, diceva Sanguineti) metafore e di altre figure retoriche, perché, come la poesia, offre una visione del mondo che si aggiunge, si sovrappone alla realtà senza negarla, perché il rito, con i suoi gesti sempre uguali a se stessi, come lo sono i versi letti e riletti, recitati e rirecitati, specie se composti da una forma strutturata, monotona, aiuta a ricordare.
Secondo la leggenda, Guinefort, un cane levriero, era stato ucciso dal suo padrone, un cavaliere che, lasciato da solo il proprio figlio neonato nella culla, ritornato al castello ne aveva scoperto con orrore la scomparsa e l'aveva in fretta attribuita al cane, avendolo visto con le zanne sporche di sangue. Dopo aver ritrovato il figlioletto sano e salvo e un serpente squartato a fianco della culla, però, il cavaliere aveva realizzato l'ingiustizia commessa e aveva provveduto a dare una degna sepoltura al cane. Fu la tomba del cane a divenire il luogo del culto popolare francese.
Ora, lasciando a malincuore a margine le interpretazioni avanzate per cercare di dare una giustificazione alla trasformazione di un cane in santo (ne riporto solo la più suggestiva, via: la somiglianza fonetica tra le parole del patois locale lou tsin (il cane) e lou tsaint (il santo)), e concentrandomi piuttosto sul rito, questo prevedeva tre sequenze, che potremmo considerare, secondo l'interpretazione che sto tentando di offrire, delle terzine o addirittura tre interi cantici: una preliminare offerta di sale, forse di pane e di monete, poi una parte centrale del rito, piuttosto complessa, ed infine una prova finale.
La parte centrale comprendeva la deposizione dei vestiti del bambino malato su dei cespugli, il piantare un chiodo nel tronco degli alberi ritenuti cresciuti sulla tomba del cane, il far passare nove volte (multiplo di tre) il bambino tra gli alberi e il lasciarlo nudo ai piedi di un albero e a fianco di una candela accesa. La madre si separava dal figlio per consentire lo scambio del bambino malato, che non era riconosciuto come proprio, ma considerato frutto di una precedente sostituzione malefica da parte di fauni o comunque di spiriti, con il proprio bambino, quello sano*. In tal senso l'operazione non era percepita come una guarigione, ma piuttosto come il ritrovare il proprio vero figlio: elementi, questi, che mettono in luce il senso di colpa provato dalle madri dei bambini malati, il loro umano desiderio di annullarlo a dispetto degli aspetti apparentemente più brutali del rito, che per l'inquisitore devono essere stati particolarmente difficili da comprendere, come quello dell'abbandono del bimbo nel bosco: eppure, a pensarci, se il figlio era malato e se, in quanto malato, non poteva essere il proprio figlio ma solo il frutto di uno scambio da parte di un terzo, veniva meno il senso di colpa dovuto all'insorgere della sua malattia e, d'altra parte, se il figlio malato non sopravviveva al rito, ciò voleva dire che era rimasto malato, e quindi che non era il proprio figlio a morire, ma quello introdotto di soppiatto nella culla da qualcun altro.
La parte finale del rito prevedeva nove (ancora nove) immersioni del bambino restituito alla madre nell'acqua di un vicino fiume.
Ogni singolo gesto, se si vuole, può essere visto come una corrispondente figura retorica realizzata non a parole, ma con oggetti concreti ed azioni concrete: l'accentuazione del contatto con la natura, il promuoverne l'interazione con l'uomo per il tramite dei vestiti sui cespugli, del chiodo conficcato nel tronco e dell'immersione finale nell'acqua, la cesura costituita dal tempo, misurato dalla candela-orologio, in cui il bambino giace a terra abbandonato, e soprattutto il cuore di una tale visione popolare che, come detto, non consiste in una guarigione, ma in una sostituzione, in uno scambio del bambino malato con quello sano. Se non è poesia questa. Non solo è poesia, ma è una poesia di libertà: sia libertà da ogni figura di intermediario con gli spiriti, e quindi dai clerici, sia libertà dal potere temporale dei signori locali, perché il culto ha sempre avuto luogo lontano dai centri abitati e dal loro controllo o sorveglianza, in una zona boscosa dove un tempo si ergeva un antico, possente castrum poi andato in malora, dove per fortuna, prima o poi, che lo vogliano o no, che lo accettino o meno, vanno a finire tutti i poteri.
*Lo scambio dei bambini ad opera di spiriti maligni è stata una credenza molto diffusa: si parla di enfant changé o changelin in Francia, changeling o fairy in Inghilterra, Wechselbalg in Germania.
Condivido. Affermazioni di principio, in apparenza "ragionevoli", che ci dicono che "il mondo è come è", in realtà mirano a giustificare lo stato delle cose, e lo trasformano in un oggetto in sé coerente, esprimente la "massima perfezione possibile", che è quindi sommamente "irragionevole" tentare di modificare.
RispondiElimina"Il mondo è come è", "la realtà è come è", ed espressioni simili, significano che ogni idea di un assetto diverso di quel mondo, di quella realtà, è insensata utopia, che nell'ipotesi peggiore produce illusioni pericolose - e se il "mondo è come è", qualsiasi rivoluzione è fuori luogo e anzi produce solo disastri...
E poi, come giustamente scrivi, se "la realtà è com'è" e quindi è sempre la giustificazione perfetta di se stessa, hanno sempre automaticamente ragione i "vincitori" e torto i "vinti" della storia, e quindi ad es. la cultura popolare, privata di ogni legittimazione pubblica, accademica, ecc., non ha ragion d'essere e deve rassegnarsi a scomparire, perché - secondo quel principio - non adatta alla "realtà".
E l'esempio che fai della "poesia popolare", proprio perché supera l'accezione ristretta e accademica della "poesia", restituisce forse un'immagine più autentica del vissuto dei "perdenti" (ufficiali) della storia.
Credo che Parra qui si sia limitato a contestare la visione scientifica del mondo, la sua spiegazione tramite un modello matematico (è quella, la lingua della fisica), non che abbia espresso l'auspicio che il mondo rimanga così com'è anche se capisco che, estrapolando, si possa arrivare alle conclusioni che ne hai tratto tu. Del resto, anche una teoria fisica non ha lo scopo di cambiare il mondo, ma solo di interpretarlo. Appartengono piuttosto alla sfera politica i mezzi e la volontà di prendere delle decisioni per cambiarlo. Come sappiamo, spesso nell'interesse di una parte, la più forte, e non di quello generale. Da cui il soccombere dei perdenti. Mi interessano i loro meccanismi di difesa e le loro battaglie vinte, oltre che cercare di capire quanto delle loro visioni sia stato filtrato ed assorbito dalla cultura "alta" e se quel che ne rimane, pur trasformato, sopravviva ancora in qualche forma, nascosto, magari in attesa di esplodere, un giorno.
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