venerdì 11 gennaio 2008

Nenni

Era il pieno dell'estate, quell'estate
dell'anno bisestile, così triste
per la nazione in cui sopravviviamo.
Un governo fascista era caduto, e dappertutto
c'era, se non quell'aria nuova, quella nuova
luce che colorò genti, città, campagne,
il venticinque Luglio - una sia pur incerta
luce, che dava al cuore un'allegrezza
eccezionale, il senso d'una festa.
E io come il "naufrago che guata" (scrivo
a un uomo che certo mi concede il cedere
a delle citazioni antidannunziane...)
felice d'aver salvato la pelle - bisestile
doppiamente per me, è stato l'anno -
ho avuto, per un attimo, dentro, il senso
d'un "poema a Fanfani": e non soltanto
per solidale antifascismo e gratitudine,
ma per un contributo, anche se ideale,
di letterato: un "appoggio morale", com'è
uso dire. Fu l'idea di un mattino
bruciato dal sole di quell'estate
che qualcuno aveva maledetto, e il cui biancore
faceva, dell'Italia ricca - che ronzava
in lidi popolari e in grandi alberghi,
nelle strade delle Olimpiadi incombenti -
l'imitazione d'una civiltà sepolta.

E poi, ero ridotto a una sola ferita:
se ancora ero in grado di esistere,
lo dovevo a una forza prenatale, ai nonni
o paterni o materni, non so, a una natura
radicata ormai in un'altra società.
Eppure, in quel mio slancio, mezzo
pazzo e mezzo troppo razionale,
c'era una necessità reale: lo vedo
meglio ora, che la collaborazione
è un problema politico: e Lei lo pone.
Dal quarantotto siamo all'opposizione:
dodici anni di una vita: da Lei
tutta dedicata a questa lotta - da me,
in gran parte, seppure in privato
(quanti interni terrori, quante furie).
Con che amore io vedo Lei, acerbo,
gli occhiali e il basco d'intellettuale,
e quella faccia casalinga e romagnola,
in fotografie, che, a volerle allineare,
farebbero la più vera storia d'Italia, la sola.
Io ero ancora in fasce, e poi bambino,
e poi adolescente antifascista per estetica
rivolta... Timidamente La seguivo
d'una generazione: e L'ho vista trionfare
con Parri, con Togliatti, nei grandiosi,
dolenti, picareschi giorni del Dopoguerra.
Poi è ricominciata: e questa volta
abbiamo, sia pur lontani, ricominciato insieme.
Dodici anni è, in fondo, tutta la mia vita.
Io mi chiedo: è possibile passare una vita
sempre a negare, sempre a lottare, sempre
fuori dalla nazione, che vive, intanto,
ed esclude da sé, dalle feste, dalle tregue,
dalle stagioni, chi le si pone contro?
Essere cittadini, ma non cittadini,
essere presenti ma non presenti, essere
furenti in ogni lieta occasione,
essere testimoni solamente del male,
essere nemici dei vicini, essere odiati
d'odio da chi odiamo per amore,
essere in un continuo, ossessionato esilio
pur vivendo in cuore alla nazione?

E poi, se noi non lottiamo per noi,
ma per la vita di milioni di uomini,
possiamo assistere impotenti a una fatale
inattuazione, al dilagare tra loro
della corruzione, dell'omissione, del cinismo?
Per voler veder sparire questo stato
di metastorica ingiustizia, assisteremo
al suo riassestarsi sotto i nostri occhi?
Se non possiamo realizzare tutto, non sarà
giusto accontentarsi a realizzare poco?
La lotta senza vittoria inaridisce.

(Una lettera, di solito, ha uno scopo.
Questa che io Le scrivo non ne ha.
Chiude con tre interrogativi ed una clausola.
Ma se fosse qui confermata la necessità
di qualche ambiguità della Sua lotta,
la sua complicazione ed il suo rischio,
sarei contento di avergliela scritta.
Senza ombre la vittoria non dà luce).

Pier Paolo Pasolini, 1960
Bestemmia, Poesie disperse I

domenica 6 gennaio 2008

De Africa

Vi dirò dunque dell'Affrica,
la qual Affrica è il paese
dove sta il senegalese,
l'ottentotto ed il niam-niam;
ed ha un clima cosí torrido
che, pel sole e i gran calori,
tutti i neri sono mori
ed in piú, figli di Càm.

Gli abitanti – detti indigeni –
cosí in uggia han panni e gonne
che, sí uomini che donne,
vanno nudi, o giú di lí;
ed han gusti cosí semplici
che, talor, se è necessario,
mangian anche il missionario
che li accolse e convertí.

Pur ve n'ebbero, di celebri
affricani, e di cartello:
Amonasro, il moro Otello,
la regina Taïtú,
e fra tutti memorabile
quel Scipione l'Affricano
cosí detto, perché un sano,
vero e buon romano fu.

Fattispecie di triangolo
con la punta volta in basso,
mezzo arena e mezzo sasso
e padul l'altra metà
(tre metà?), caos di polvere
con dentro iridi di fiori,
tale è l'Affrica, o signori,
nella sua complessità.

L'Ibi, il tropico del Canchero
l'equatore, l'Amba rasa
sono là come di casa,
con il ghibli, il Congo, Assab;
col cammello, con il dattero
e la tanto celebrata
adamonia digitata,
che sarebbe il baobab.

Sono là. E là – tartufolo
minerale – c'è il diamante,
c'è la pulce penetrante,
e la ria mosca tsè-tsè.
Ed è là che a volte càpita
di veder, tra arbusto e arbusto,
quel pulcino d'alto fusto
che lo struzzo è detto... ed è.

Ma la cosa che c'è in Affrica
e piú merita attenzione
è il terribile leone,
ruggibondo e divorier.
Non è ver che di proposito
sia malevolo e cattivo,
ha un carattere un po' vivo,
e va in bestia volentier.

Ed allora, Dio ne liberi
incontrarlo per la strada!
Se per lí non ci si bada
si finisce entro il leon.
Affamato, quei vi stritola
vi trangugia a larghe falde
poi, tra ciuffi d'erbe calde,
digerito vi depon.

Sono cose che succedono.
Ma l'ardito cacciatore
col fucil vendicatore
spaccia il mostro – e come no! –
Urli, spari, capitomboli!
Crolla il re della foresta.
Alla sera... Allah! gran festa
di tam-tam e di falò.

Viva l'Affrica ed il semplice
suo figliolo, l'affricano.
Non ancora buon cristiano
veramente come va;
un po' lesto di mandibola,
un po' lento nel lavarsi,
coi capelli crespi ed arsi,
... ma... speriamo... si farà.

Già, pel bianco nostro merito
ei, selvaggio ebano ignavo
si piegò, percosso e schiavo,
nella pelle del zio Tom,
ed – onore per lui inclito –
importato or ora in Francia
s'ebbe a far bucar la pancia
sulla Marna e sulla Sòm.

Benvenuto dal tuo Senegal,
fratel nero, e dal Sahara;
dalla tua contrada avara
benvenuto a crepar qui.
Vien! L'Europa qui ti prodiga
(giú la barbara zagaglia!)
la civile sua mitraglia
che già tanto suol nutrí!

Ti vogliamo eroe... Rallegrati.
Pur, se mai, ti si dà il caso
che tu porti fuori il naso
da quest'orgia, o almeno un piè,
quando torni ai tuoi, ricòrdati:
(quando là sarai tranquillo)
– Tante cose al coccodrillo,
per mio conto, e al cimpanzè!

Ernesto Ragazzoni

Biancotti racconta: "Talvolta in un cerchio d'amici [...] si levava una voce: "Ragazzoni, l'Affrica..." Ed egli sorridendo ironico e bonario incominciava:"Vi dirò dunque dell'Affrica...""

giovedì 3 gennaio 2008

Elegia del verme solitario

Solo è Allah nel Paradiso
del Profeta Makometto
solo è il naso in mezzo al viso
solo è il celibe nel letto,
ma nessun, da Polo a Polo,
come me sul globo è solo,
né mai fu, per quanto germe
ebbe luna dal lunario,
perch’io solo sono il verme
lungo verme
cupo verme
cieco verme
bieco verme
triste verme
solitario.

Solitario sulla vetta
della torre antica è il passero
solitario. È la vedetta
solitaria in cima al cassero,
solitario è il soldo, o duolo,
del tapin ch’à un soldo solo,
solo andava il cieco inerme
e ben noto Belisario,
ma il piú sol di tutti è il verme
lungo verme
cupo verme
cieco verme
bieco verme
triste verme
solitario.

Tutte l’altre creature
hanno moglie od hanno figli:
i canguri han le cangure
i conigli han le coniglie,
l’api accoppiansi nell’aria
e perfin la dromedaria
tra le sabbie nude ed erme
ha il fedele dromedario.
Il piú sol di tutti è il verme
lungo verme
cupo verme
cieco verme
bieco verme
triste verme
solitario.

Una vaga fantasia
alle volte pur mi coglie,
la mia mente vola via
e m’immagino aver moglie,
mi par d’essere, o cuccagna,
un bel nastro, una lasagna…
non piú fitto in membra inferme
nel mio vil penitenziario
e non piú essere un verme
lungo verme
cupo verme
cieco verme
bieco verme
triste verme
solitario.

Nastro a volte mi figuro
annodarmi intorno a un collo
di fanciulla esile e puro.
In intingoli di pollo
altre volte invece parmi
da lasagna intingolarmi.
Il mio cor si tuffa in terme
di speranza… ed al contrario
resto sempre il verme, il verme
lungo verme
cupo verme
cieco verme
bieco verme
triste verme
solitario.

Pure il giorno verrà, il giorno
che uscirò fuori a vedere
come è fatto il mondo intorno
miserere, miserere,
finirò la vita trista
nel boccal d’un farmacista
pieno d’alcool ed ermeticamente funerario,
perché io non son che il verme
lungo…
cupo…
cieco…
bieco…
triste verme solitario.

Ernesto Ragazzoni