venerdì 30 aprile 2010

Ode all'elettricità

Dall'ambra di Talete alla formula di Lenin (Коммунизм есть Советская власть плюс электрификация всей страны - Il comunismo è il potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese) ce n'è, di pensieri dedicati alle magnifiche sorti e progressive raggiungibili grazie all'elettricità, ma due incarnano particolarmente il senso della fede nel progresso e soprattutto quello dell'aspirazione ad una vita migliore che l'elettricità e i suoi usi hanno ispirato nell'uomo, o quanto meno due, entrambi relativamente recenti eppur ormai remoti rispetto alla nonchalance abitudinaria con cui oggi clicchiamo qua e là, sono quelli che si sono particolarmente impressi nella mia memoria.

*

Often as a pasatiempo in the afternoon, Sweets brought out the vacuum-cleaner and leaned it against a chair. While her friends looked on, she pushed it back and forth to show how easily it rolled. And she made a humming with her voice to imitate a motor.

Spesso Dolce, come pasatiempo nel pomeriggio, si portava l'aspirapolvere al cancello e lo appoggiava a una sedia. Amici e amiche si fermavano a guardare, e allora lei spingeva avanti e indietro sul prato l'apparecchio per mostrare con quanta facilità lo manovrasse. E faceva a bocca chiusa un rumore imitativo di un motore.

John Steinbeck, Pian della Tortilla, traduzione di Elio Vittorini, Bompiani 1966, pag. 110
(Libro di mia madre, in edizione economica - Lire 350, si legge sul retro -, completamente squadernato e ingiallito, un libro viaggiatore tra i suoi e i miei traslochi, che, pur ormai privo di ogni residuo di rilegatura, ha superato con ostinata caparbietà restando a suo modo ancora intatto.)

*


Link a youtube.
Da Il frigorifero, episodio del film Le coppie, Italia, 1970
Regia, soggetto e sceneggiatura: Mario Monicelli
Fotografia: Carlo Di Palma
Musica originale: Enzo Jannacci
Scenografia: Giulio Coltellacci
Interpreti: Monica Vitti (Adele), Enzo Jannacci (Gavino)

mercoledì 28 aprile 2010

Αποχαιρετισμός στον Αντόν Πάβλοβιτς Τσέχωφ



Alla Grecia



Αυτή η φωτογραφία έχει τραβηχτεί στο κτήμα του συνταξιούχου καθηγητή Σερεμπριακώφ πριν από πολλά χρόνια, όλα τα πρόσωπα που κοιτάζουν προς το μέρος μας είναι από καιρό πεθαμένα, ο Άστροφ δεν ξαναγύρισε πια, ούτε η Σοφία Αλεξάντροβνα, ούτε ο Βάνια ξεκουράστηκαν ποτέ, τίποτα δεν άλλαξε από τότε, το μέλλον είναι ένας δρόμος δύσβατος που αν τον πάρεις ως το τέλος οδηγεί κατευθείαν στο παρελθόν, αυτό το ποίημα δεν μπορεί παρά να τελειώσει εδώ, η Ιστορία θα συνεχίσει μιαν άλλη μέρα, η Ιστορία αστειεύεται ασφαλώς, μας ενώνει όλους αυτή η κοινή μοίρα και αν ζούσαμε ακόμα λίγο θα βλέπαμε τον Τσάρο να φτυαρίζει το χιόνι στο Αικατερίνεμπουργκ.

Σταμάτης Πολενάκης

Addio ad Anton Pavlovič Čechov

Questa fotografia fu scattata molti anni fa, nella tenuta del professore in pensione Serebrijakov, tutta la gente che sta guardando verso di noi è morta da tempo, Astrov non è mai tornato, né Sofia Alexandrovna né Vanja non avranno mai pace, da allora nulla è cambiato, il futuro è una strada accidentata che, se si segue fino alla fine, conduce direttamente al passato, questa poesia non può che finire qui, la storia riprenderà un altro giorno, la storia sta ovviamente scherzando, un destino comune ci unisce tutti e, se dovessimo vivere un po' di più, vedremmo lo zar spalare la neve a Ekaterinburg.

Stamatis Polenakis

Nato ad Atene nel 1970, ha studiato letteratura spagnola a Madrid. È poeta e autore teatrale.

martedì 27 aprile 2010

Come sarebbe se ci fossero programmi spaziali in tutti i Paesi del mondo

(ad esempio se ci fossero programmi spaziali in Siria e in Palestina, i Paesi degli autori di questa poesia e di questo corto, che nella sua versione completa inizia con un memorabile: Jerusalem, we have a problem).

*

Un viaggiatore arabo per le stazioni spaziali

Scienziati e tecnici,
datemi un biglietto per il cielo.
Sì, mi manda il mio triste Paese,
in nome di vedove, vecchi e
bambini,
perché mi diate un biglietto gratuito per il
cielo
perché nelle mie mani, al posto di
soldi,
ci sono lacrime.
Non c'è posto per me?
Mettetemi allora nel retro della
navicella,
in alto,
che sono del popolo e ci sono
abituato.
Non rovinerò nessuna stella,
non farò male a nessuna nuvola.
Tutto quello che desidero è arrivare
prima possibile in cielo
per mettere la frusta nel pugno di
Dio
così potrà incitarci a fare la
rivoluzione.

Muhammad Al-Maghut

*


A Space Exodus from Larissa Sansour on Vimeo.

lunedì 26 aprile 2010

Come nacque la kora

Questa storia comincia molto molto molto molto tempo fa
Tanto che non era un tempo, ma un luogo
C'era un uomo
Era tanto solo
Che l'unica persona con cui poteva parlare era l'Africa
Per caso c'era un albero vicino
Per più caso ancora dietro quest'albero
Si nascondeva la sua compagna
Tutto il sole e tutta l'acqua erano condensati
In un unico blocco minuto
Che l'uomo piantò nella terra sabbiosa
Soffiò soffiò in quel posto
Ogni volta che soffiava gli sembrava di sentire qualcosa
Quello che sentiva era certamente il canto della sua compagna
L'uomo non sapeva neppure cosa fosse cantare
Perché poteva solo parlare
Non sapeva ancora cantare
Così soffiava e ascoltava, soffiava ascoltava soffiava ascoltava
E la pianta germinò colore verde scuro
E cominciò a torcersi e a crescere
Una rampicante in cerca di respiro
E stirandosi faceva la canzone
(Perché era fatta di sole e pioggia, ricordi?)
Così alla fine della rampicante stava la zucca
E l'albero non era albero
Erano la cavigliera e le chiavette
Lì fu quando la compagna dell'uomo Saba Kidane
Fece la sua comparsa (questa però è un'altra storia)
E il respiro e il canto e la rampicante?
Bene, ci sono 21 corde, che te ne pare?
E ora dici quello che succede con il ponte e il cuoio
E gli anelli che legano le corde alla cavigliera
Perché possa affinare la kora
Ehi, ci sono delle borchie che mantengono
Il cuoio teso sulla zucca
E la cassa risonante
Bene hai ragione a menzionare tutto questo
Ora sto toccando la kora
La prossima volta ti racconto della mucca

Alhaji Papa Susso

Un'altra versione:

Link diretto.


Alhaji Papa Susso è nato a Sotuma Sere, in Gambia, nel 1947. È maestro di kora, l'arpa a ponte africana a 21 corde, che ha imparato a suonare da suo padre fin da quando aveva cinque anni. Discende da una famiglia di griot, poeti-musicisti itineranti che attingono dal repertorio orale dell'Africa occidentale.

La kora, nelle mani di un altro maestro e griot come Toumani Diabaté, riesce a fare tutto: il basso, l'accompagnamento e l'assolo.

sabato 24 aprile 2010

Cusa favia al dé ch’è mort Ariè?

A gh’eva vint’an.
L’era un cariulant,
n’anarchic, bon c’mel pan.
Da quand chi là i cmandava
al stava lugà in dal bosc.
Lur il pungdava.
Na matina l’eva riscià
d’gn’in paes a
salutà so madar.
I l’à vest, in quatr’i gà sparà,
lasà cuntr’al mur
a suga ras
cm’en pipistrel fiundà.

Cesare Zavattini


Cosa facevo il giorno che è morto Ariè?

Aveva vent’anni.
Era uno scariolante
un anarchico, buono come il pane.
Da quando quelli là comandavano
stava nascosto nel bosco.
Loro lo puntavano.
Una mattina si era arrischiato
a venire in paese a
salutare sua madre.
L’hanno visto, in quattro gli hanno sparato,
lasciandolo contro il muro
a rinsecchirsi
come un pipistrello colpito da una fionda.

La poesia di Zavattini è dedicata a Riccardo Siliprandi, detto Ariè, bracciante anarchico, morto per mano fascista a 32 anni il 5 maggio del 1921 a Luzzara, il paese del poeta. Per lungo tempo gli si era negata una targa commemorativa: l'hanno messa lo scorso anno e riporta proprio la poesia di Zavattini.

*

Sarà il primo 25 aprile senza mio nonno Romeo, socialista nenniano. Spedito dal duce in Grecia a vent'anni (si imbarcò a Brindisi con un suo cugino che ebbe meno fortuna e che dalla Russia non tornò più), prigioniero dei tedeschi dopo l'8 settembre, scappato dal treno che lo avrebbe portato in Germania, si unì ai partigiani jugoslavi e riuscì a tornare a casa solo alla fine del 1945 grazie all'iniziativa di un suo compagno napoletano. Il napoletano si presentò ad un ufficiale inglese del campo alleato in cui erano finiti, mentre mio nonno rimase fuori dalla stanza. Erano gli ultimi due italiani rimasti nel campo.
Compagno napoletano - Possiamo averlo, il permesso?
Ufficiale inglese - Ma quanti siete? Voi italiani venite sempre uno alla volta, a chiederlo, non se ne può più.
Compagno napoletano - dopo aver preso per il braccio e trascinato mio nonno davanti alla scrivania - Siamo in tanti, vede? 
Dai suo ricordi emergevano la fame, i tedeschi (i iera cativime vignia i brividi solo a sentirli co' i parlea), la generosità dei greci e la frutta che riusciva a rimediare (certa ua, granda cusìta - mimando con le mani la dimensione di un limone), il nome - accompagnato da un sorriso rivolto a mia nonna - di una ragazza greca, l'orrore dei morti ammazzati dagli ustascia (gnianca 'e bestie).
Dopo la guerra, per molti anni, ogni 25 aprile, finché ha potuto, andava alla Risiera di San Sabba con i compagni dell'ANPI.
Dopo la guerra, per molti anni, ogni 25 aprile, a casa dei miei nonni materni la mattina iniziava con delle parole gridate dalla camera alla cucina:
"Ienia, dove atu mes' el fasoet?" (Eugenia, dove hai messo il fazzoletto? Quello da partigiano).

*

C'è un testo che sfoglio prima di ogni 25 aprile, Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, dell'Einaudi. Lo sfoglio a caso, ma per la pagina del Tigre ci passo sempre (ho scoperto solo recentemente che l'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia ha una ricchissima sezione dedicata alle Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza italiana):

Quinto Persico (Tigre)

Di anni 19 – operaio – nato a Cicagna (Genova) il 14 giugno 1925 -. Nel settembre 1944 diserta, unitamente ad altri commilitoni, dalla Divisione “Monterosa” per raggiungere i reparti partigiani della Divisione “Cichero”, operanti nella zona sovrastante Chiavari (Genova) -. Catturato in seguito ad azione di rastrellamento -. Processato il 2 marzo 1945 a Chiavari dal Tribunale di Guerra Divisionale della “Monterosa” convocato in Tribunale Straordinario -. Fucilato lo stesso 2 marzo 1945 in località Bosco Peraja (Calvari, Genova), da plotone della “Monterosa”, con Dino Berisso e altri otto partigiani.

2.3.1945
Carissimi genitori,

perdonatemi quello che vi ho fatto. Muoio contento. Saluti a Zio e tutta famiglia e tutti vicini, famiglia Alfredo.

Senza piangere muoio e mi levo la maglia.

venerdì 23 aprile 2010

Vimbuza/Tarantella: danzare la malattia

Sono Tiza

Paumaliro, paumaliro tiza
Tiza kuno kuchita
Kokwamba na komalizga
Tiza kuno kuchita
Volemba na vobelenga
Enya, enya na.
Tiza kuno paumaliro.

Apa uchechelo wangwiza
Zuba lati ngwee
Kufunda kunjila kumtima
Zuba kutipa ungweru
Tangumanya...umoyo wiza

Ndipo sono
Sono tiza
Thukutira nge ni maji
Apo tuzunta-zuntha na kutemwa
Pakuti vijaro va kuchanya
Vyajurika kwa ise.

Sono tuona maluba
Maluba ghawemi ghaswesi
Chipango chithu chasono
Paumaliro tili kuno
Kupurikirira uwemi wa chipango

Enya, enya, enya na
Tafika kukaya kwithu
Pakuti pa nyengo yitali
Tikapiwa nyengo yolindilira
Tikalindira nyengo kuti yize
Ndipo sono, nyengo yili pano:

Nyengo yakupolera
Nyengo ya chimwemwe
Nyengo yakutukulira
Chino charo chithu
M’nthowa yosambizga
Bana bithu bawemi.

Sono ise tiza
Vemwemwe pamaso pithu
Tikolerane mawoko
Apo tuvina Vimbuza, M’ganda na Fwemba
Apo tugoma nchuba
Tikolerane mawoko
Tisekelere pamoza
Paumaliro tafika
Paumaliro tiza
Enya na.

Gankhanani Moffat Moyo

La versione tedesca su lyrikline mi pare non sia del tutto corrispondente all'originale, ma il suo aiuto è talmente essenziale che senza di essa non potrei proporne una versione italiana:

Siamo venuti

Finalmente siamo qui
Qui per
Fare la prima e l'ultima cosa
Qui per
Leggere e scrivere
Sì, siamo finalmente qui.

Quando è giunto il mattino
La luce chiara del sole
È giunto dolcemente il calore
Il sole ci ha dato la sua luce
Sapevamo che era giunta la vita

E ora siamo finalmente arrivati
Sudati ma festanti
Ansanti ma sorridenti
Perché le porte del cielo
Si sono aperte a noi.

E ora vediamo rose
Belle rose rosse
Una nuova creazione per noi
Finalmente siamo qui
Per gioire della creazione
Nel tentativo di fare
Dell'oggi un bel tempo
Per la nostra bella vita

Sì, sì, siamo finalmente a casa
Per, per così tanto tempo
Ci è stato dato tempo di aspettare
Aspettavamo il tempo futuro
E ora, ora esso è qui:

Un tempo per guarire
Un tempo per sorridere
Un tempo di ricordo rinfrancante
Un tempo per la ricostituzione della nostra nazione
Attraverso l'educazione
Dei bei bambini della madre Zambia.

Finalmente siamo arrivati
Siamo infine di fronte alla bellezza
Finalmente sorridiamo

Con l'educazione dei nostri bambini in questa nazione
Regna pacificamente il nuovo risveglio

Il nuovo risveglio della vita
Il nuovo risveglio della realtà
Il nuovo risveglio della gioia
Il nuovo risveglio di tutto
Noi, che siamo il nuovo risveglio

Sì, siamo venuti
Per svegliarvi tutti quanti
Siamo qui
Qui per sempre
Fino al regno del nuovo risveglio.
Africa.

Moyo è nato a Lusaka, nello Zambia, nel 1980. Ha un talento poliedrico che spazia dalla poesia al teatro, dalla danza alla narrativa. È editore della rivista letteraria Echoes of Tomorrow e ha fondato la Young Writers' Association.

Il chiTumbuka (la lingua dei Tumbuka) è una lingua franca regionale del gruppo bantu, parlata, secondo le versioni più rosee, da 2 milioni di persone, soprattutto nel nord del Malawi, ma anche nel nordest dello Zambia e nel sud della Tanzania. Sopravvissuta alla politica del primo presidente del Malawi indipendente Kamuzu Banda, che nel 1968 l'ha bandita per decreto dalle scuole e dai media del suo Paese a favore del chiNyanja (da allora ribattezzato chichewa), è parlata per lo più da persone che hanno più di 30-40 anni. Dal 1996 è di nuovo consentito insegnarla, assieme ad altre lingue locali, ai bambini nei loro primi anni di scuola.

Una lingua che resiste, quindi, nonostante tutto. Come resiste, a dispetto dei tentativi di divieto e di soppressione da parte della chiesa cristiana e della medicina moderna, la tradizione, molto popolare tra i Tumbuka, della danza rituale Vimbuza (di cui c'è traccia nella poesia di Moyo ma purtroppo non nella sua traduzione), una delle tanti manifestazioni della tradizione di guarigione del Ng’oma (il tamburo dell'afflizione), molto diffusa in tutta l'Africa bantu, nata alla metà del XIX secolo come mezzo per superare il trauma dell'oppressione coloniale e poi trasformatasi in rituale di guarigione sotto l'occupazione britannica per permettere alle persone di esprimere i loro problemi psicologici in modo accettato e compreso dal resto della comunità. La maggior parte dei pazienti sono donne che soffrono di diverse forme di malattie mentali. I pazienti vengono trattati per diverse settimane, se non per mesi, da rinomati guaritori che li ospitano nel loro temphiri, una casa riservata ai malati. Una volta stabilita la diagnosi, i pazienti sono sottoposti ad un rituale di guarigione. A questo scopo, le donne e i bambini formano un cerchio attorno al malato, che entra lentamente in trance, e intonano canti per invocare l'aiuto degli spiriti. I soli uomini che partecipano al rituale sono i musicisti che suonano dei ritmi di tamburo caratteristici per ogni spirito e, in alcuni casi, il guaritore. I pazienti, così, possono "danzare la loro malattia".
Questa sua breve presentazione è stata possibile solo perché il Vimbuza è protetto dall'UNESCO come patrimonio immateriale dell'umanità dal 2005 (video in inglese e francese).

*
Malattia-musica-musica specifica a seconda dello spirito-guarigione: la tentazione di volgere il pensiero alla tarantella è troppo forte e siccome non vedo alcun vero motivo per cui debba resistervi, proseguo.

Nel caso della tarantella, in principio, probabilmente, c’era il culto di Dioniso ed il principio è tanto antico da mescolarsi al mito, quello delle Sirene e di Ulisse dei poemi omerici così come tramandati oralmente nel Meridione d’Italia o, meglio, nella Magna Grecia.
Secondo una prima versione, diffusa specialmente tra Sorrento e Capri, le Grazie avrebbero inventato la tarantella per prendersi gioco delle Sirene, impossibilitate a danzarla per evidenti questioni anatomiche, dopo che queste, fallito il tentativo di incantare con il loro canto Ulisse e compagni, ben protetti dai tappi di cera nelle orecchie, avevano chiesto l'aiuto delle Grazie. Secondo un’altra versione, le Sirene sarebbero invece riuscite a stregare Ulisse con un ballo molto sensuale, provocando così l’ira degli dei e meritandosi la conseguente punizione divina, che ne ha trasformato le gambe in code di pesce.
C’è anche una versione contigua alla scienza: gli uomini di scienza del passato, infatti, hanno riconosciuto che quando si è pizzicati o morsi dalla tarantola, gli effetti prodotti dal suo veleno cambiano di giorno in giorno, qualche volta di ora in ora, perché grande è la diversità delle passioni da esso suscitate: chi canta, chi piange, chi ride, chi grida, chi dorme, chi non riesce a dormire, chi vomita o trema, chi cade in una inarrestabile frenesia, chi si mette ad amare un colore (il rosso, ad esempio).
L’unica cura, in tutti questi casi, è la musica, che risveglia lo spirito del malato, ma la musica e gli strumenti per suonarla vanno scelti accuratamente, a seconda del tipo di tarantola e a seconda della persona. Lo lascio spiegare meglio al gesuita Athanasius Kircher, che scriveva più o meno così:
Bisogna spiegare il fatto che un certo strumento musicale sia piacevole e conveniente in un certo caso, e diverso in un altro caso, a seconda delle proprietà, della natura e la complessità, o dei ragni o dell’uomo. È dunque necessario, quando una persona è stata punta o morsa dalla tarantola, utilizzare un dato tono o canto a seconda della tarantola. Così, quando qualcuno è ferito dalla tarantola melanconica, diviene indolente, pigro, sonnolento. Se punto da un ragno di specie collerica, questo lo rende lui stesso collerico, versatile, agitato, frenetico, incline ad ammazzare e a strangolare. Analogamente si deve concludere per altri umori, che un tono o una musica conviene particolarmente all’uomo colpito.
In questo modo, i melanconici, o quelli che sono punti dalla tarantola di questa specie, che veicola un veleno particolarmente potente, si agitano piú con le forti sonorità delle trombe e dei timbali e degli altri strumenti squillanti che con la sottilità delle corde.
I collerici, i biliosi ed i sanguigni, per contro, guariscono rapidamente e facilmente al suono dei cistri, violini, liuti, clavicembali e altri soavi strumenti di questo tipo, grazie ai loro spiriti vitali rarefatti che predispongono alla commozione.
Athanasius Kircher, Magnes, sive De arte Magnetica, Roma 1641


Athanasius Kircher, Magnes, sive De arte Magnetica

Una cura salentina si chiama Pizzicarella mia, ritrovata e poi registrata nel 1977 da Brizio Montinaro, le cui parole sono:

Pizzicarella mia, pizzicarella
lu camminatu to’ la li li la
lu camminatu to’ pare che balla.
A du te pizzicau ca no te sceme?
sutta lu giru o la li li la
sutta lu giru giru di la suttana.
Quantu t’amau t’amau lu core mio
mo nun te ama cchiù la li li la
mo nun te ama cchiù se ne scerrau.
Te l’ura ca te vitti te ‘mmirai
‘nu segnu fici a la li li la
‘nu segnu fici a mmienzu a ll’occhi toi.
Ca quiddu foi nu segnu particolare
cu no’ te scerri a la li li la
cu nu te scerri de l’amori toi.
Amore amore ce m’hai fattu fare
de quindici anni a la li li la,
de quindici anni m’hai fatto impazzire.
Pizzicarella mia, pizzicarella
lu camminatu to’ la li li la
lu camminatu to’ pare che balla.

La cultura contadina che ha espresso questa visione del mondo non c’è più, e anche lo spazio per il mito si è fatto ormai strettissimo, ma Pizzicarella mia, assieme ad altre tarantelle, si può trovare in quel vero e proprio omaggio alla memoria che è l'album La Tarantella: Antidotum Tarantulae, della Alpha, che l’Arpeggiata dell’austriaca Christina Pluhar ha registrato nel 2001.

Qui è suonata nel bis in un concerto dell’Arpeggiata a Colonia.

Link a youtube.

E siccome non riesco proprio a fermarmi, ne posto altre, tutte tratte dallo stesso album dell'Arpeggiata.

Una tarantella napoletana di Athanasius Kircher.

Link a youtube.

E una tarantella calabrese:

E beatu sia lu Santu Sacramentu!
Evviva di lu Carminu Maria.
Santu tu Pascalu bellu Baylonne tu si' lu prutetturi de li donne
E mannammillu bonu nu marito che sia jiancu, russu o culuritu
Na-na-na-neddra, quattu sordi di caciucaveddra
E nu caveciu a la gunnedra u vantesinu pi 'll'aria va'
E la figlia di Bellavia, chi natichi tunni, chi minni ci avia,
Puru la mamma ci lu dicia: "Chi natichi tunni mia figlia Lucia!"
O nicchiu nicchiu nichhiu chi vai ndurniannu,
gaddrini nun ce stanno ntra sti cuntorni;
E ce ne sta una sula e va cantannu lu patre ha dittu ca l'è picculina.
Abballati, abballati fimmini schetti e maritati,
E si nun abballati bonu nun vi cantu e nun vi sonu
Si nun abballati pulitu e ci lu dico a lu vostru zito.
O Sciroccu, o Punenti, o Tramuntana dammi la forza ca trovo la via
Cu soni e canti 'mParaviso acchiana la grazia di lu Carminu Maria.


Link a youtube.

A scanso di eventuali dubbi: "chi natichi tunni, chi minni ci avia" vuole proprio dire "che natiche tonde, che seno c'aveva". E se è vero che la Magna Grecia sta sullo sfondo, oppressa dall'apertura e dalla chiusura dedicata alla Madonna del Carmine di questa tarantella calabrese, è anche vero che non è a lei che ci si rivolge per poter trovare la forza, ma ai venti.

giovedì 22 aprile 2010

Di quando si comincia a vedere una parola dappertutto

È noto il fenomeno per cui solo quando si apprende veramente una parola la si vede poi dappertutto.
L'ultima volta mi è capitato con i confetti.
È iniziata così. Qualche tempo fa avevo letto:

J'avais fait à Venise ma première année de grammaire inférieure : j'aurais pu entrer dans la supèrieure ; mais tout engagea mon père à me faire recommencer mes études, et il fit très bien. Il savait que j'aimais les spectacles. Il les aimait aussi : il rassembla une société de jeunes gens ; on lui prêta une salle dans l'hôtel d'Antinori ; il fit bâtir un petit théâtre ; il dressa lui-même les acteurs, et nous y jouâmes la comédie.
Dans les états du pape (excepté les trois légations), les femmes ne sont pas tolerées sur la scène. J'étois jeune, je n'étais pas laid ; on me destina un rôle de femme, on me donna même le premier rôle, et on me chargea du prologue. Ce prologue était une pièce si singulière, qu'il me resté toujours dans la tête, et il faut que j'en régale mon lecteur. Dans le siècle dernier, la littèrature italienne était si gâtée, que prose et poésie, tout était ampoulé ; les métaphores, les hyperboles et les antithèses tenaiènt la place du sens commun. Ce goût dépravé n'était pas encore tout-à-fait extirpé en 1720 : mon père y ètait accoutumé.
Voici le commencement du beau morceau qu'on me fit débiter.
Benignissimo cielo! (je parlais à mes auditeurs), ai rai del vostro splendidissimo sole, eccoci qual farfalle, che spiegando le deboli ali de nostri concetti, portiamo a sì bel lume il volo, etc. Cela voudrait dire bêtement en français : " Ciel très benin, aux rayons de votre soleil très éclatant, nous voilà comme des papillons qui, sur les faibles ailes de nos expressions, prenons notre vol vers votre lumière, etc. "
Ce charmant prologue me valut un boisseau de dragées, dont le théâtre fut inondé et moi presque aveuglé. C'est l'applaudissement ordinaire dans les états du pape.

Carlo Goldoni, Mémoires pour servir à l'histoire de ma vie et à celle de mon théâtre, Paris, 1787

Avevo fatto a Venezia il mio primo anno di grammatica inferiore: avrei potuto entrare nella superiore; ma tutto esortò mio padre a farmi ricominciare gli studi, e fece molto bene.
Sapeva che amavo gli spettacoli. Li amava anche lui: mise insieme una compagnia di giovani; gli fu data in prestito una sala nel palazzo Antinori; fece erigere un piccolo teatro; preparò lui stesso gli attori; vi recitammo la commedia. Negli stati del papa (eccettuate le tre legazioni) sulla scena le donne non sono permesse. Ero giovane, non ero brutto; mi si assegnò un ruolo da donna, mi fu dato persino il ruolo principale, e fui incaricato del prologo. Questo prologo era un pezzo così singolare, che mi è rimasto sempre impresso nella memoria e bisogna che ne faccia dono al lettore. Nello scorso secolo la letteratura italiana era così corrotta, che poesia e prosa erano tutte un'ampollosità. Le metafore, le iperboli e le antitesi si sostituivano al senso comune. Questo gusto depravato non era ancora totalmente estirpato nel 1720: mio padre vi si era abituato.
Ecco qui l'inizio del bel pezzo che mi si fece recitare.
"Benignissimo cielo (dicevo ai miei uditori) ai rai del vostro splendidissimo sole, eccoci quali farfalle che, spiegando le deboli ali dei nostri concetti, portiamo a sì bel lume il volo ecc."
Questo grazioso prologo mi valse un quintale di confetti, dai quali fu inondato il teatro e io quasi accecato. Questo è l'applauso comune negli stati del papa.

Poi, ieri mattina, mi è capitato di leggere questo ed è stato solo in quel preciso istante che mi è venuto improvvisamente in mente che i Konfetti tedeschi non sono confetti e che Goldoni, che scrisse le sue memorie in francese, la lingua degli ultimi trent'anni della sua lunga vita, chiamò i confetti dragées e non confetti, parola che pur in francese, come in tedesco, esiste. Nel 1720, a Perugia, in uno stato del papa, rischiò di restare accecato da salve di confetti lanciati dal pubblico osannante e ne rimase sorpreso perché, evidentemente, a Venezia allora non si usava.

Cerca qua, cerca là, ho trovato che è dal lancio dei confetti, un'usanza dell'Italia centrale - fin dai tempi del Rinascimento, pare -, praticata, oltre che a teatro, anche in occasione dei matrimoni e a Carnevale, che deriva il lancio dei coriandoli (che pioveranno poi abbondanti anche Venezia).

La metamorfosi dei confetti in coriandoli trova la sua spiegazione nella composizione dei confetti di un tempo, che, oltre che di mandorle o nocciole ricoperte di zucchero, potevano anche essere fatti di coriandolo.

CONFETTO.
sust. mandorla, pinocchio, pistacchio, nocciuóla, curiandolo, aromato, o simile, coperto di zucchero. Lat. bellaria.
Vocabolario della Crusca1612

Il coriandolo così ricoperto aveva delle proprietà benefiche, di cui è bene prendere nota:
Cuopronsi i coriandoli di zucchero per confetti, rompono le ventosità del ventre mangiati dopo pasto, e rendono buon odore e fanno buon fiato masticati in bocca; e verdi le sue foglie nelle mescolanze d'insalata non fanno male.
Giovanvettorio Soderini, Il trattato della cultura degli orti e giardini a cura di Alberto Bacchi della Lega, 1903

All'estero, quindi, a differenza che in Italia, dove abbiamo mantenuto in vita solo il coriandolo, ovvero solo l'anima del confetto, sono rimasti linguisticamente fedeli all'usanza degli "stati del papa" e continuano a chiamare confetti i nostri coriandoli di carta (confetti in inglese, francese, olandese, confeti in spagnolo, confete in portoghese, konfetti in polacco, svedese, norvegese, finlandese e tedesco, конфетти in russo), una trovata, quella dei coriandoli moderni, "di certo Mangilli di Crescenzago (Milano), traendo profitto dei dischetti che risultavano dalle carte forate pei bachi. Sostituirono il gesso e la terra dei tramontati carnevali ambrosiani, e i confetti usati anteriormente", secondo Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno del 1905.
E, a dire il vero, in Germania sono rimasti fedeli anche al lancio dei confetti: lì, durante il Carnevale, dai carri vengono lanciate caramelle.

Chissà su quale confetto (o coriandolo) si poserà il mio sguardo prossimamente.

mercoledì 21 aprile 2010

E un'altra volta ancora

In queste mie quattro lezioni mi sono astretto, non per modestia (non sono modesto) a non parlare di me, ma mi viene troppo bene per non farlo: venti anni fa mi capitò, come può capitare a tutti, di leggere una versione in inglese da uno sconosciuto poeta cinese dell'ottavo secolo, uno dei duemila o tremila poeti di una delle tante dinastie cinesi. Mi piacque e mi limitai semplicemente a tradurre in italiano la poesia cinese, desumendola da questa precedente traduzione. Ad un certo punto, mi accorsi che, per dare un senso personale a quei quattro versi, bisognava che ce ne aggiungessi uno che non era nel testo originale, e che avrei inventato io.
Questo verso aggiunto cambiò completamente il significato dei quattro versi precedenti, vale a dire trasferì l'immagine da un universo confuciano ad un universo influenzato sia dal cristianesimo, sia dall'esistenzialismo. Anche la mia versione è un esempio di rifacimento, ma un esempio limite, poiché aggiunge addirittura un verso che non c'era nel testo di partenza. Si tratta di una poesia antica cinese, avente come tema il viaggio del Mandarino inviato in missione dall'Imperatore in qualche parte remota dell'Impero. Il testo nella mia traduzione recita:

Solo nella notte non riesco a prendere sonno.
Penso al mio Paese mille miglia lontano.
Quanti pensieri turbano il cuore del viaggiatore.
Questi capelli saranno domani invecchiati di un anno.

I versi della poesia originale propongono le malinconiche riflessioni sul tempo e sulla vita del funzionario cinese da una lontana e sperduta locanda, mentre il verso che io aggiunsi "Conosco l'ordine di viaggio: non posso aver paura" conferisce al tutto una nota eroica. "L'ordine di viaggio", o "foglio di via", è un mandato che è stato conferito e che, pur nel travaglio e nel dolore della solitudine, non permette di aver paura. Sebbene anche il mio verso possa essere letto dai nostri contemporanei in termini puramente esistenziali, per me rappresentava un atto di fiducia di tipo sostanzialmente religioso quale non avrebbe potuto esserci in un poeta cinese.

Franco Fortini, Realtà e paradosso della traduzione poetica, Napoli 1989

*
Proviamo a rileggerla ancora una volta, ora, tutta assieme:

Solo nella notte non riesco a prendere sonno.
Penso al mio Paese mille miglia lontano.
Quanti pensieri turbano il cuore del viaggiatore.
Questi capelli saranno domani invecchiati di un anno.
Conosco l'ordine di viaggio: non posso aver paura.

*
E un'altra volta ancora:

Solo nella notte non riesco a prendere sonno.
Penso al mio Paese mille miglia lontano.
Quanti pensieri turbano il cuore del viaggiatore.
Questi capelli saranno domani invecchiati di un anno.
Ma tu aspettami sulla riva, là dove il fiume è più azzurro.

martedì 20 aprile 2010

La poesia come reazione alla storia (alla propria e alla Storia)

Ho cercato dei testi di un importante drammaturgo tedesco che, come tutti i tedeschi dell'est della sua generazione (era del 1929), ha vissuto in quattro Stati diversi pur restando sempre nel proprio Paese: la Repubblica di Weimar, il Terzo Reich, la DDR e la Germania riunificata (è morto nel 1995). Cercavo in particolare un brano che potesse in qualche modo restituire la sua idea sull'ultimo dei suoi passaggi di Stato, data la sua biografia (costretto ad arruolarsi nella gioventù hitleriana e nel Volkssturm, per breve tempo prigioniero degli alleati, successore di Brecht al Berliner Ensemble, bandito più volte dal regime comunista, poi riabilitato fino ad avere il privilegio di poter viaggiare liberamente per il mondo, sospettato di essere stato collaboratore informale - IM, Informeller Mitarbeiter - della STASI, un secondo matrimonio terminato con il suicidio della moglie, morto di cancro) e dato che la "svolta" (die Wende) del 1989 lo aveva fatto virare bruscamente dal teatro alla poesia, di cui fino ad allora si era occupato poco più che sporadicamente e cui ha dedicato gran parte della sua ultima produzione.

Mi pare di avere trovato quello che cercavo proprio negli ultimi versi di una poesia autobiografica del 1992, in cui dialoga con una voce, che così gli risponde in maiuscolo:

Ich bin das Drama
MÜLLER SIE SIND KEIN POETISCHER GEGENSTAND
SCHREIBEN SIE PROSA Meine Scham braucht mein Gedicht

Io sono il dramma
MÜLLER LEI NON È UN OGGETTO POETICO
SCRIVA PROSA La mia vergogna ha bisogno della mia poesia

Si chiamava proprio Müller, Heiner Müller, e il titolo della poesia è Müller im hessischen Hof.

Qui si trovano diversi spezzoni di interviste/dialoghi con Alexander Kluge (nel primo video, intitolato "Anti-Oper", definisce la Siberia "la riserva del tempo asiatico della Russia"), qui la prima parte del documentario tedesco del 2009 Ich will nicht wissen, wer ich bin (Non voglio sapere chi sono) suddiviso in sei parti facilmente rintracciabili.

domenica 18 aprile 2010

Come sarebbe se la poesia fosse un cocktail

Maailmu on nii palju kui liivateri mere ääres,
suuri ja väikesi, ümmargusi ja nurgelisi,
heledaid ja tumedaid, põliseid ja üürikesi;
mõned seisavad paigal, mõned pöörlevad;
mõned on üksi, mõned kobaras koos;
ja igaühes nendest suurtest ja väikestest,
ümmargustest ja nurgelistest, heledatest
ja tumedatest, põlistest ja üürikestest
maailmadest on meresid ja randu
ja mererannal liivateri ja igas liivateras
niipalju maailmu kui liivateri mere ääres,
suuri ja väikesi, ümmargusi ja nurgelisi;
mõnes maailmas on Buddha juba sündinud,
mõnes sündimata, mõnes elab ja õpetab ta praegu;
ühes nendest istun ma ärklitoas laua taga
ja üks metslehelind — Phylloscopus sibilatrix —
lendab aknale, nii et ma näen lähedalt
tema kollast kulmutriipu ja pruuni silma
ja seda, kuidas ta koputab nokaga
vastu aknaruutu ja lendab siis minema.

Jaan Kaplinski


Ci sono tanti mondi quanti granelli di sabbia su una spiaggia,
grandi e piccoli, rotondi e quadrati,
chiari e scuri, antichi e transitori;
alcuni stanno fermi, altri ruotano;
alcuni sono soli, alcuni in nugoli;
e in ciascuno di questi mondi piccoli e grandi,
rotondi e quadrati, chiari e scuri,
antichi e transitori, ci sono mari e spiagge,
e moltissima sabbia su queste spiagge;
e in ogni granello di sabbia ci sono tanti mondi
quanti i granelli di sabbia su una spiaggia, grandi e piccoli,
rotondi e quadrati. In alcuni
Buddha è già nato, in altri
non è ancora nato, in altri ancora
sta vivendo e insegnando proprio ora;
in uno di essi sono seduto alla mia scrivania nell'attico,
e un Luì verde - Phylloscopus sibilatrix -
vola alla mia finestra, tanto che posso vederne da vicino
la striscia gialla sopra i suoi occhi scuri,
e come bussa col suo becco
sulla lastra e poi vola via.

Jaan Kaplinski è uno dei poeti estoni più tradotti all'estero ed è solo grazie a questo che ho potuto fornire una possibile versione della sua poesia - di cui altrimenti avrei capito solo la prima parola, Buddha e Phylloscopus sibilatrix.

Non lo è, ma se - per puro gioco - la poesia di Kaplinski fosse un cocktail, la si potrebbe preparare con:

- 1/3 di William Blake:

to see a world in a grain of sand
and a heaven in a wild flower,
hold infinity in the palm of your hand
and eternity in an hour.

- 1/3 di uno di quei filoni di sviluppo della fisica contemporanea, come ad esempio questo, che hanno sottratto l'ipotesi di esistenza di mondi paralleli all'interesse esclusivo della fantascienza.

- 1/3 di Moràbito:

Para que se fuera la mosca
abrí los vidrios
y continué escribiendo.
Era una mosca chica,
no hacía ruido,
no me estorbaba en lo más mínimo,
pero tal vez empezaría
a zumbar.
Un aire frío,
suave,
entró en el cuarto;
no me estorbaba en lo más mínimo,
pero no se llevaba
con mis versos.
Cambié mis versos,
los hice menos melodiosos,
quité los puntos,
los materiales de sostén,
las costras adheridas.
Miré la mosca adolescente y gris,
sin experiencia;
no se movía del mismo punto,
tal vez
buscaba entrar en la corriente
de las moscas,
buscaba a su manera unas palabras mágicas.
Rompí mis versos,
a fuerza de quitarles costras
habían quedado ajenos.
Fui a la ventana,
por un momento
todo lo vi como una mosca,
el aire impracticable,
el mundo impracticable,
la espera de un resquicio,
de una blandura
y del valor
para atreverse.
Fuimos el mismo adolescente gris,
el mismo que no vuela.
¿Qué versos que calaran hondo
no venían,
de esos que nadie escribe,
que están escritos ya,
que inventan al poeta que los dice?
Porque los versos no se inventan,
los versos vienen y se forman
en el instante justo de quietud
que se consigue,
cuando se está a la escucha
como nunca.

Non lo è, ma se la poesia di Kaplinski fosse un cocktail, dopo aver agitato il tutto, la si potrebbe gustare badando al sottile piacere che può dare, come è capitato per la prima volta a me, il toccare con mano il rapporto di parentela tra estone e finlandese (conoscevo la parola finlandese per indicare il mondo (maailma), che è fatto di terra (maa) e di aria (ilma)).

Passeri contro cannoni

In Italia c'è una contrapposizione nord-sud, che ha delle ragioni storiche e delle responsabilità politiche locali e nazionali di lunga data, che al nord trova, a partire dagli anni Ottanta, un significativo consenso politico, un consenso che premia in particolare un partito, la Lega Nord per l'Indipendenza della Padania di Umberto Bossi, alleata di Silvio Berlusconi e fresca vincitrice delle ultime elezioni regionali. In Veneto, per esempio, la Lega ha ottenuto più di un terzo dei voti di coloro che sono andati a votare nell'ultima tornata elettorale. Questo partito si è inventato un territorio amministrativo, la Padania appunto, dei cui interessi si proclama difensore, e si è inventata una sua storia basata su radici celtiche (sic) dimostrando amnesia, se non ignoranza, non solo di tutte le altre - ben più profonde e prolifiche, almeno in Italia - radici, ma anche, nell'esibire insofferenza nei confronti del sud, senza i cui immigrati città come Milano e Torino sarebbero dimezzate, o nei confronti degli immigrati stranieri, dimostrando amnesia totale del più recente passato povero e contadino di territori settentrionali ad altissimo tasso di emigrazione all'estero (un unico, piccolo esempio: in prima elementare, mia madre aveva più di trenta compagni di classe, che in quinta sono diventati undici; tanti bocciati? No: tutti emigrati in Canada e in Argentina). Stigmatizza poi le magagne e le debolezze del sud chiudendo sistematicamente gli occhi su quelle del nord, attribuisce all'Europa e all'euro difetti economici strutturali tutti interni, attacca, usando un linguaggio violento, la Costituzione e le diverse istituzioni nazionali, di cui ormai è parte integrante da decenni, propone e assume, laddove amministra la cosa pubblica, iniziative xenofobe e populiste, che non sembrano avere propriamente come priorità la ricerca della soluzione dei problemi concreti nazionali e nemmeno di quelli locali: tra le varie soluzioni proposte per rilanciare l'economia di fronte all'esuberante crescita di Paesi lievemente più potenti dell'Italia a livello mondiale, ricordo la proposta di un sistema di salari differenziato tra le regioni del nord e quelle del sud - le cosiddette "gabbie salariali" - e l'introduzione dei dazi sulle importazioni.

Tutte cose note e stranote, ma alle volte me le ripeto per non dimenticarmi che non sono frutto di fantasia, ma concrete, reali e presenti.

A coloro che esprimono il proprio voto per un partito avente programmi, proposte e memoria di così corto respiro e che continuano a chiamare spregiativamente "terroni" (nelle varianti dialettali: "terùn" e "teròn") dei connazionali solo perché, pur avendo lavorato la terra esattamente come l'hanno lavorata i contadini al nord, l'hanno fatto a qualche grado di latitudine più a sud, niente sembra far apparire ridicoli e inadeguati gesti, parole ed azioni di un partito come la Lega, niente. Figuriamoci allora a cosa potrà mai servire lasciare traccia (qui, poi!) di un fatto dell'Ottocento del tutto secondario, confinato al mondo musicale e alle sue tendenze. A niente, ovvio, ma lo faccio lo stesso, in ossequio al titolo del blog e pure con la stessa pedanteria usata nella premessa iniziale.

Nella prima metà dell'Ottocento, ben prima dell'unità politica dell'Italia, la cultura musicale si mescola in modo sempre più evidente, vede lo scambio reciproco di apporti provenienti dalle diverse scuole locali e trova un gusto di carattere nazionale che produrrà influssi e farà conoscere il Paese in tutto il mondo. Il siciliano Bellini (Catania, Regno di Sicilia, 1801 - Parigi 1835), rappresentante della scuola napoletana, viene assorbito dall'ambiente milanese, che gli tributa grandi successi: la Sonnambula e Norma vengono entrambe rappresentate per la prima volta nel 1831 a Milano, la prima al teatro Carcano, la seconda alla Scala. Il lombardo Donizetti (Bergamo, Repubblica Cisalpina, 1797 - Bergamo, Regno Lombardo-Veneto 1848) opera invece prevalentemente a Roma e a Napoli. Le opere di entrambi hanno successo anche all'estero e continuano tuttora a venire rappresentate ovunque.

Tra le composizioni del bergamasco, ce n'è una, minore, di impronta popolare, che si chiama Amor marinaro: è una canzonetta napoletana del 1835.

Amor marinaro

Me voglio fa' 'na casa miez' 'o mare
fravecata de penne de pavune.
Trallalallera, trallalallà.
D'oro e d'argiento voglio far li grade
e de prete preziuse li barcune.
Trallalallera, trallalallà.
Quanno Nennella mia se ne va a affacciare
ognuno dice: mo' spunta lu sole.
Trallalallera, trallalallà.

A sailor's love

I want to build a house in the middle of the sea
made of peacock feathers.
Trallalallera, trallalallà.
Of gold and silver I want to make the stairs
and of precious stones the balconies.
Trallalallera, trallalallà.
When my Nennella goes and looks out,
everyone says: now the sun is raising.
Trallalallera, trallalallà.

La canzonetta è stata interpretata, tra gli altri, anche da Cecilia Bartoli (Roma, Italia, 1966), mezzosoprano di una città, posta da qualche parte tra Bergamo e Catania, che ha lasciato qualche traccia leggermente più marcata nella storia del Paese, dell'Europa e di tutta l'area mediterranea, ripetto a quella celtica, ma questa è una storia molto più antica e oggi voglio usare solo un passero, contro i cannoni della Lega Nord per l'Indipendenza della Padania, questo:


Link diretto.

Nel video, la Bartoli canta al teatro palladiano di Vicenza.

P.S. Il titolo del post rimanda a questa poesia.
P.P.S. Per trovare nel dizionario italiano dei termini di origine latina o greca miez' 'o mare magno di quelli di origine celtica, bisogna avere molta, molta pazienza e una gran dose di fortuna.
P.P.P.S. Anche se ormai è un termine entrato nell'uso politico corrente, ogni volta che sento parlare di Padania a me viene in mente il Maradagal.

venerdì 16 aprile 2010

NOT IN MY NAME

Davanti al direttore di banca mia madre
impugnava la penna e tremante scriveva:
Bernardini Iole.
Io vidi che non c'era firma, ella aveva, scusandosi
scritto il suo nome, prima cognome e poi nome
come se avesse scritto scarpa, sasso, malva per la sera.
Di là da lei, dal suo tempo educato, si alzavano
firme alate, nomi scritti per non esser visti
nomi scritti per dire arte, individualità, spirito.
Ma io proporrei, se questa marcia di pace volessimo davvero farla
e se volessimo scrivere NOT IN MY NAME ora e sempre,
ecco, io proporrei di scrivere i nostri nomi così come sono,
come se avessimo scritto: mi porti un caffè per favore?
Posso iniziare? O, me lo dai questo bacio, insomma!
Insomma nomi tutti uguali, non privati ma collegiali,
nomi da scambiare come se io stessi scrivendo il tuo nome
e tu quello di mia madre, mentre lei, esitante,
scrive il suo sulla cedola degli investimenti a medio termine.

Alba Donati
Non in mio nome, Marietti, 2004



NON IN MIO NOME

Before the bank director, my mother
gripped the pen and with a shaking hand wrote:
Bernardini Iole.
I saw that there was no signature, she had written,
apologizing, her name, first the surname and then the name
as if she had written shoe, stone, mallow for the night.
Over there, at home, from her polite time, winged signatures
rose, names written not to be seen
names written to say art, individuality, spirit.
But I would propose, should we really want to do this march for peace
and should we want to write NON IN MIO NOME now and ever,
well, I would propose we write our names as they are,
as we had written: could you please bring me a coffee?
May I start? Or well, won't you kiss me?
In short, the same names, not private, but collective ones,
names to be exchanged as if I was writing your name
and you that of my mother, while she, hesitating,
writes hers on the dividend check of the medium-term investments.

giovedì 15 aprile 2010

teebeutel

I

nur in sackleinen
gehüllt. kleiner eremit
in seiner höhle.

II

nichts als ein faden
führt nach oben. wir geben
ihm fünf minuten.

Jan Wagner
Achtzehn Pasteten, Berlin Verlag, 2007



bustina da tè

I

intabarrata
solo in tela da sacchi. piccola eremita
nella sua caverna.

II

nient'altro che un filo
conduce verso l'alto. le diamo
cinque minuti.

La consecuencia

Esto es un árbol. La raíz dice raíz,
rama cada rama, y en la copa
está la sala de recibo
de un mirlo que habla.

La mesa donde escribo
—una fiesta de solteras—
está hecha de madera de ese árbol
convertida por el uso y por el tiempo
en la palabra mesa.

Es porque da frutos que caen
y por el gremio perenne de sus hojas
que se renueva el árbol
y que existe la palabra árbol:

aunque a veces el bosque
lo oculte a la vista, lo contiene
el árbol en la palabra árbol.

Y no es que éste sea un poema abstracto.
Es que las palabras se repiten entre sí
por el sentido: son solteras y sociables
y de sus raíces crece un árbol.

Mirta Rosenberg


Questo è un albero. La radice dice radice,
ramo ogni ramo, e nella chioma
c'è la sala di ricevimento
di un merlo che parla.

Il tavolo su cui scrivo
— una festa di nubili —
è fatto di legno di quest'albero
convertito per l'uso e per il tempo
nella parola tavolo.

È perché dà frutti che cadono
e per il corpo sempreverde delle sue foglie
che si rinnova l'albero
e che esiste la parola albero:

sebbene a volte il bosco
lo nasconda alla vista, lo contiene
l'albero nella parola albero.

E non è che questa sia una poesia astratta.
È che le parole si ripetono tra sé
per il loro significato: sono nubili e socievoli
e dalle loro radici cresce un albero.

Nata a Rosario, Santa Fe, Argentina, nel 1951, vive a Bueons Aires. Ha tradotto, tra gli altri, l'Enrico IV di Shakespeare assieme a Daniel Samoilovich (direttore della rivista Diario de Poesía), e poi Katherine Mansfield, William Blake, Walt Whitman, Emily Dickinson, Anne Sexton, Dereck Walcott, Marianne Moore, W.H. Auden, Seamus Heaney, Anne Talvaz, D.H. Lawrence e Ruth Fainlight. Si occupa della casa editrice Bajo la luna e ha pubblicato diverse raccolte di poesie, saggi e racconti. Dal 1998 lavora come traduttrice per il quotidiano La Nación (cosa non tocca fare ai poeti).

Una sua considerazione sulla lingua da un'intervista del 2006:
El libro se llama "Madam" porque procede de un palíndromo en inglés, que es el momento en que Adán se le presenta Eva. Es decir, el momento del origen, según la Biblia, de la estirpe humana. Entonces no había nadie que los presentara. Obviamente porque dios no se preocupó por presentar a sus creaciones, entonces se acercó a Eva y le dijo: "Madam, I'm madam". Y lo curioso es que, obviamente –según la Biblia la mujer está hecha de la costilla del hombre-, esto se lee de izquierda a derecha, y de derecha a izquierda, exactamente igual. Son dos mitades de una misma cosa. Y por eso el libro se llama "Madam" -en inglés, no en francés-. Por este palíndromo, que es como el palíndromo originario. Eso es lo bueno que tiene la lengua, que de alguna manera es la protagonista de la poesía –de la poesía en especial-, de la literatura, de la vida, de la comunicación. Digo de la poesía en especial porque no creo que la poesía sea comunicación. Creo que excede con mucho la comunicación; va más allá de jugar con las palabras. Por lo menos lo que yo pretendo va un poquito más allá. Yo creo que la lengua es un instrumento maravilloso. Que la lengua nos permite de alguna manera derrotar al futuro, y por lo tanto derrotar a la muerte. Porque tiene un modo verbal que es el potencial, y yo no lo tomo en chiste a ese detalle.
*

Minisemantica personale: per me, tree non è un albero, è un numero con un soffio rattenuto, albero è un tratto a matita marrone coronato da un ciuffo verde su un sottofondo musicale che esce da una piccola radio da cucina, drevo è un susino che cresce su terra rossa, Baum è una canzone di dicembre e sta solo im Wald, l'arbre è un cartoncino deodorante, ed è proprio árbol il più albero di tutti, quello cui rispunta il verde ad ogni primavera ovunque si trovi, anche in un viale cittadino, insomma, il solo, legittimo rappresentante sindacale della categoria arborea.

*
Tornando alle cose serie, Vivian Lamarque ne ha incontrato uno meraviglioso, cui ha dedicato una poesia che, guarda caso, si chiama Ad un albero meraviglioso. Fa così:

Caro albero meraviglioso
che dal treno qualcuno
ti ha tirato un sacchetto
di plastica viola
che te lo tieni stupito
sulla mano del ramo
come per dire
cos’è questo fiore strano?
speriamo che il vento
se lo porti lontano.
Ci vediamo al prossimo viaggio
ricorderò il numero del filare
il tuo indirizzo, ho contato
i chilometri dopo lo scalo-merci
arrivederci.

*

Tuttavia, a dimostrazione che árbol è l'albero, persino quando non è di legno...

Los árboles no son de madera
y no tocamos madera cuando tocamos un árbol.
Un árbol,
cuando ha exprimido el canto de sus ramas,
se recuesta en su tumba de madera,
toca madera y deja de ser árbol.
La madera de una silla no es madera muerta
y los árboles no son madera viva;
los árboles son árboles
y la madera es madera,
y los árboles muertos
son madera de pie,
madera con ramas y pájaros,
y no se sabe si los pájaros
los toman como árboles
o como lo que son: sillas silvestres,
madera para descansar que anhela que la quemen.
Los árboles se mueren de madera,
y el fuego,
que compendia en un minuto años de pájaros,
años de hormigas por las ramas,
conoce sólo un idioma: la madera,
y no sabe nada de los árboles.

Fabio Morábito


Gli alberi non sono di legno

Gli alberi non sono di legno,
e non tocchiamo legno quando tocchiamo un albero.
Un albero,
quando ha espresso il canto dei suoi rami,
si adagia nella sua tomba di legno,
tocca legno e smette di essere albero.
Il legno di una sedia non è legno morto
e gli alberi non sono legno vivo;
gli alberi sono alberi,
e il legno è legno,
e gli alberi morti
sono legno eretto,
legno con rami e uccelli,
e non si sa se gli uccelli
li considerino alberi
o per quello che sono: sedie silvestri,
legno per il riposo che desidera che lo si arda.
Gli alberi muoiono di legno,
e il fuoco,
che compendia in un minuto anni di uccelli,
anni di formiche per i rami,
conosce solo una lingua: il legno,
e non sa niente degli alberi.

Morábito è nato da genitori italiani ad Alessandria d'Egitto e vive in Messico. Di madrelingua italiana, scrive in spagnolo. Anche lui, come la Rosenberg e molti altri, traduce (Torquato Tasso, Landolfi, Calvino, Sanguineti).

martedì 13 aprile 2010

Scriver poesias

Mincha pled
na tschernü
sbraja

Mincha pled
sbüttà
sbraja

Mincha pled
chi resta
cloma

A quels na tschernüts
A quels sbüttats

E tuot ils pleds
paisan
listess

Leta Semadeni


Ogni parola
non scelta
urla

Ogni parola
scartata
urla

Ogni parola
che resta
chiama

Quelle non scelte
Quelle scartate

E tutte le parole
hanno
lo stesso peso

*

Leta Semadeni è nata nel 1944 a Scuol, in Bassa Engandina, e vive a Zuoz, in Alta Engandina. Ha studiato lingue a Zurigo, a Quito e a Perugia e ha insegnato in diverse scuole a Zurigo e in Engandina. Scrive le sue poesie in tedesco o in romancio e le traspone lei stessa nell'altra lingua.

*

Nel censimento del 2000, 34 000 persone, pari a poco meno dello 0,5% della popolazione residente in Svizzera, hanno indicato il romancio come propria lingua principale. Alcuni sostengono che questa cifra sia in realtà sottostimata per effetto del modo in cui sono state formulate le domande: secondo questi, le persone che parlano romancio sarebbero in realtà 100 000.
Le domande, nel 2000 così come nel precedente censimento del 1990, erano:
1) "Qual è la lingua in cui pensa e che conosce meglio?" (lingua principale) e
2) "Quale/i lingua/e parla abitualmente a) a casa, con i familiari, b) a scuola, nella vita professionale, al lavoro?" (lingua parlata).
Il 63,7% ha indicato il tedesco, il 20,4% il francese, il 6,5% l'italiano, il restante 9% una lingua non nazionale. In base all'ultimo censimento, quindi, il romancio risulta meno parlato di sei lingue non nazionali: serbo/croato (1,4%), albanese (1,3%), portoghese (1,2%), spagnolo (1,1%), inglese (1%) e turco (0,6%) (da qui).

A me pare che la prima domanda, così formulata, escluda il conteggio di molte situazioni ibride, non infrequenti, ad esempio quelle in cui il pensiero si adatta docilmente ad una nuova lingua di adozione o alla lingua dominante eppure la lingua conosciuta meglio rimane comunque l'originaria o quelle situazioni in cui il pensiero si va a ripartire tra più lingue, secondo miscele la cui composizione può cambiare parecchio a seconda del contesto in cui più le si utilizza (farei fatica, oggi, ad esprimere un parere professionale in italiano, e oggi, quando compro un bar, è pur sempre un branzìn che metto nel forno, una volta rientrata a casa). Il pensiero, poi, mi pare possa percorrere vie diverse, più o meno arzigogolate, naturalmente destinate ad evolvere nel tempo, ma sempre tali da snodarsi lungo il percorso che a ciascuno garantisce il minore dispendio di energia possibile. Ci sono poi parole che riemergono dal passato inaspettate, trascinandone altre, ecc. ecc.(*) Probabilmente, però, cercare di ottenere da un formulario standardizzato di un censimento delle risposte in grado di rappresentare tutte le possibili varianti della pigrizia cerebrale e delle sue sorprese e delle sua deviazioni, è pretendere troppo.

E pensare che in coda alla poesia avrei voluto solo aggiungere che pled (parola) e pledar (parlare) vengono da placitum, la qual cosa escluderebbe che si possa farlo da soli, che un pledari si trova qua, che sia per la presenza delle ü sia in seguito all'esito della ricerca nel pledari del pled mincha (ogni), mi sembra che la poesia possa essere stata scritta o nella variante puter o in quella vallader e, infine, che il luogo di nascita e quello di residenza della poetessa purtroppo non mi aiutano a fare la scelta definitiva tra le due varianti perché a Scuol si parla vallader e a Zuoz si parla puter.



(*)
- Per lei? - mi chiese il ragazzo con trattenuta scontentezza.
Gli dissi divertito:
- Per me tutto.
Il giovane si accigliò.
- Non ho capito, scusi.
Gli ripetei:
- Mi porti tutto.
Il ragazzo si rivolse a Olga questa volta in cerca d'aiuto, ma Olga non disse niente, si limitò a fissarmi con un'aria lievemente ironica. Allora lui fece un sorrisetto sfottente e mi elencò:
- Tutti gli antipasti, tutti i primi, tutti i secondi, tutti i dolci?
Mi sembrò inutile spiegargli cosa volevo veramente. Qualsiasi cosa avessi detto, gli sarebbe sembrata fuori tempo e fuori luogo. Decisi di accentuare per lui, per Olga, per la gente che avevamo intorno, i toni della vecchiaia malinconica, in modo da rassicurare tutti, giovani, anziani, mogli attempate in ansia per il cattivo esempio che davo ai mariti. Sì, dissi mettendo da parte il menu, mi piacerebbe molto. Sono nato a Napoli, sa, ed è da mezzo secolo che non mangio più come si mangia nella mia città. I piatti che offrite mi hanno fatto tornare in mente tante parole di casa mia, dei miei genitori, di mia nonna che viveva con noi: per esempio scauratiello, tracchiulella, graf, curatella, arugolepurchiacchiello. Ah, sospirai, quanti bei suoni, e gli elencai col tono dell'anziano chiacchierone che ha la testa svaporata ed è ormai incapace di sintesi, le linguine sciuliarelle con aulíve, chiàpperi e alici salate, i vermiciélli rossoviolacei coi purpi, il provolone scuro di Sorrento, la minestra di spullecarielli, la pasta e fasúli con la cótena, i maccheroni al ragù, la carnambruscenàta. Poi confidai a Olga protendendomi verso di lei: la cosa che però mi piaceva di più, da ragazzo, era la lasagna, che aveva sotto la crosta di salsa rossoscura - fatta con le gallinelle di maiale, - la ricotta, la scamorza, le lunghe cervellatine e le purpette di carne con uova, parmigiano, petrosino, sale e pepe. Aggiunsi, tornando al cameriere: però ho amato molto anche il sartù di riso, il casatiello, il tortanombuttunàto, le uovaimpriatòrio, le paste cresciute, le pizzelle fritte, le cotolette di scamorza, le alici arreganàte e quelle indorate e fritte, la 'mpepatella di cozze nel sugo grigio buonissimo, l'insalata di frutti di mare, gli scagliozzoli, il cervello fritto, le carcioffole pure fritte, il mussillo in pastetta, la carne alla pizzaiola, il fegato dentro la rezza con pepe e alloro, i friarelli con le salsicce, i cucuzzielli a scapece con un po' di menta, la parmigiana di melanzane profumata di basilico, le melanzane a fungetiello.

Domenico Starnone, Spavento, Einaudi 2009, pagg. 262, 263.


Simone Coya, L'amante impazzito, 1679

domenica 11 aprile 2010

vor Insel 35

für A. P.


das Meer ist makellos aufgewühlt.
es hätte eine aufregendere Bezeichnung verdient.
der Wind macht im Moment eine pädagogische Phase durch.
die Bäume biegen sich zu absoluten Metaphern.
die Klagemauer des Möwengesangs
lässt dahinter eine ganze Klagesiedlung vermuten.
das Konzept der Brandung findet wahrscheinlich
besonderen Anklang bei Adventisten.
je länger man schaut, desto schaumiger wird es.
aber das lässt sich so schlecht beweisen
wie die Verwandtschaft von See-
Anemonen und Animositäten.

Ron Winkler



davanti all'isola 35

il mare è impeccabilmente agitato.
si sarebbe meritato una designazione più eccitante.
il vento attraversa al momento una fase pedagogica.
gli alberi si piegano a metafore assolute.
il muro del pianto del canto dei gabbiani
lascia intuire là dietro tutta una colonia del pianto.
il concetto di risacca trova probabilmente
particolare risonanza tra gli avventisti.
quanto più a lungo si guarda, tanto più diventa schiumoso.
ma questo si lascia dimostrare così male
come la parentela tra anemoni di
mare e animosità.


La si può ascoltare qui, volendo.

sabato 10 aprile 2010

How it would be if a dialect poem was translatable

You used to put the shot

You used to put the shot
you used to put the shot on a meadow
and I used to stand still, staring at you
you used to be wrapped up in that
you used to move sooo slowly
like in slow motion
when the shot touched the ground
I used to run with joy to get it
then suddenly
the wind blew
and the shot...

... the shot flew you away
it flew you high
high away
I was waiting there
with my nose in the air
I was waiting there
I'm still waiting right now
I'm always there.

Here is the original text.

Kafka in England

Wohl aber erkennt er jetzt im Dunkel einen Glanz, der unverlöschlich aus der Türe des Gesetzes bricht.


Weder via Belsen, noch als dienstmädchen
Kam der fremde, keineswegs ein flüchtling.
Dennoch wars ein trauriger fall:
Die nationalität war strittig,
Die religion umlispelte peinlichkeit.

«haben sie Kafka gelesen?» fragt Mrs Brittle beim frühstück,
«er ist recht unausweichlich und ziemlich fundamental!»
«haben sie Kafka gelesen?» fragt Mr Tooslick beim tee,
«man versteht dann die welt viel besser -
Doch freilich ist nichts real.»
Miss Diggs sagt: «aber wirklich?
Ist das nicht reaktionär?»
Nur der kleine Geofrey Piltzman
Träumt: «wer?

Ich meine, wer dran verdient,
Sie müssen doch tot sein,
Ich meine die leute in Prag - nun, wer auch immer...»
Doch aus dem tor bricht trotzdem der schimmer...

Franz Baermann Steiner, 1946-1952


Kafka in Inghilterra

Né via Belsen, né come tuttofare
Venne lo straniero, in ogni caso non un rifugiato.
Tuttavia era un caso triste:
La nazionalità era controversa,
La religione provocava sussurri di imbarazzo.

«ha letto Kafka?» domanda Mrs Brittle a colazione,
«è proprio imprescindibile e assai fondamentale!»
«ha letto Kafka?" domanda Mr Tooslick all'ora del tè,
«e poi si capisce molto meglio il mondo -
ma ovviamente è tutto finto.»
Miss Diggs dice: «ma veramente?
Non è reazionario?»
Solo il piccolo Geofrey Piltzman
Sogna: «chi?

Voglio dire, chi ne guadagna,
Devono essere tutti morti,
Voglio dire la gente a Praga - be', chiunque sia...»
Tuttavia dalla porta erompe lo stesso il bagliore...


L'esergo non è dell'autore della poesia, è mio (be', mio: è di Kafka, ma ce l'ho messo io. Del resto, nella poesia c'era un "trovatemi, trovatemi!" grande come una casa).

venerdì 9 aprile 2010

Comment serait-il si un poème en dialecte était traduisible

La lettre

Je t'ai tant prié
de m'envoyer une lettre
une vraie lettre toute pour moi
avec son enveloppe blanche et le cachet coloré
avec dedans, bien pliée, la feuille
en haut Paris, la date
et, au-dessous, le mot "chère"
chère et mon nom d'à-côté

Je t'ai tant prié
et maintenant, maintenant qu'elle est arrivée
parfaitement blanche, rectangulaire
je n'arrête plus de lire l'adresse
mon nom, mon nom de famille
je lis même le cachet imprimé avec le jour et l'heure
et je n'ose pas l'ouvrir
ce qu'y est écrit, moi je le sais déjà
je le devine, et alors, alors c'est mieux de ne pas l'ouvrir
de ne rien savoir, de laisser tomber
et puis elle est si belle cette enveloppe
utilisée par toi uniquement pour moi
que c'est même dommage de la rompre
de la déchirer en haut ou en bas
qu'elle est belle cette enveloppe blanche
écrite par toi à moi, juste à moi.

Vivian Lamarque

Ici le texte original.

mercoledì 7 aprile 2010

Мала кутија

Малој кутији расту први зуби
И расте јој мала дужина
мала ширина мала празнина
И уопште све што има

Мала кутјарасте даље
И сад је у њој орман
У коме је она била

И расте даље и даље и даље
И сад је у њој соба
И кућа и град и земља
И свет у коме је она била

Мала кутија сећа се свог детињства
И од превелике чежње
Постаје опет мала кутија

Сада је у малој кутији
Цео свет мој малени
Лако га можете у џеп ставити
Лако украсити лако изгубити

Чувајте малу кутију

Васко Попа


Mala kutija

Maloj kutiji rastu prvi zubi
I raste joj mala dužina
Mala širina mala praznina
I uopšte sve što ima

Mala kutija raste dalje
I sad je u njoj orman
U kome je ona bila

I raste dalje i dalje i dalje
I sad je u njoj soba
I kuća i grad i zemlja
I svet u kome je ona bila

Mala kutija seća se svog detinjstva
I od prevelike čežnje
Postaje opet mala kutija

Sada je u maloj kutiji
Ceo svet mali malecan
Lako ga možete u xep staviti
Lako ukrasti lako izgubiti

Čuvajte malu kutiju

Vasko Popa


Alla piccola scatola crescono i primi denti
E le crescono la sua piccola lunghezza
La sua piccola larghezza il suo piccolo vuoto
E in generale tutto quello che ha

La piccola scatola continua a crescere
E ora le sta dentro l'armadio
in cui prima era dentro lei

E continua a crescere e ancora e ancora
E ora le stan dentro la stanza
E la casa e la città e la terra
E il mondo in cui prima era dentro lei

La piccola scatola si ricorda della sua infanzia
E dalla gran nostalgia
Diventa di nuovo una piccola scatola

Ora nella piccola scatola
C'è tutto il mondo in miniatura
Potete facilmente infilarla in tasca
Facilmente rubarla facilmente perderla

Proteggete la piccola scatola

martedì 6 aprile 2010

Accidens

2 versi di Miłosz per i quali, pur piena di dubbi e guidata solo dalla necessità di dover pur prendere una decisione, avevo inizialmente optato per:

In ogni tasca portava matite, taccuini d'appunti,
Assieme a briciole di pane, gli accidenti della vita.

potrebbero anche diventare:

In ogni tasca portava matite, taccuini d'appunti,
Assieme a briciole di pane, accidenti della vita.

o ancora:

In ogni tasca portava matite, taccuini d'appunti,
Assieme a briciole di pane, ad accidenti della vita.

o ancora: 

In ogni tasca portava matite, taccuini d'appunti,
Assieme a briciole di pane, agli accidenti della vita.

A momenti propendo per l'una, a momenti per l'altra: volevo lasciare sia traccia di questo mio ondeggiare sia completa libertà di scelta (altrove sottintesa), perché mi pare che la scelta finale dipenda, più che da una questione grammaticale, da una questione di esperienza individuale e quindi da quale sfumatura di significato ciascuno sia propenso a dare alla parola "accidenti" (e anche alle briciole di pane, che per i passeri non sono poca cosa).

lunedì 5 aprile 2010

Dizionario di tutte 'e cose - D comme Déracinée, mais pas sans mémoire

Sono sradicata, ma non lo sono per il fatto che non vivo più in Italia da diversi anni. Non ho avuto difficoltà in Germania prima (mi manca, la Germania, o forse solo alcuni suoi abitanti, non so bene) e non ho difficoltà ora in Francia ad inserirmi nel contesto di un Paese nuovo. Sono sradicata dalla nascita, anzi, ad essere più precisa, da ben prima della mia nascita. Dalla parte paterna, la mia bisnonna si chiamava Slobec di cognome, mio nonno Ivančič, italianizzato a forza sul finire degli anni Trenta (mio nonno non resistette alle pressioni fasciste), senza troppa fantasia, visto che Ivan è Giovanni, in Giovannini. Erano i tempi in cui gli italiani di Trieste invitavano gli sloveni di Trieste, in modo più o meno convincente, a resentarse el nome (cioè a sciacquarselo per lavarselo dalla sporcizia slava, ad italianizzarlo insomma), talvolta recapitando a casa, per rendere più chiara e concreta l’idea, dei pezzi di sapone. A Tullio Kezich, il critico cinematografico, capitò letteralmente così: ne riporta testimonianza nel libro Il campeggio di Duttogliano. Niente di drammatico ormai, almeno non per la mia generazione, è cosa passata, tuttavia è una cosa che fa parte di me.

Tutto questo, limitato al massimo per non cadere nel sentimentalismo, che non mi si confa, e per non indulgere nell’inutile e tardivo vittimismo per violenze che pur ci furono, solo per dire che certi libri non sono solo testimonianze altrui, ma si intrecciano con le mie origini e il mio sentire. È per questo che un libro è rimasto sul mio comodino a lungo ed è stato preso, riposto e ripreso in mano molte volte prima di poter essere concluso, pur nella consapevolezza che nessuna esperienza sia esclusiva e che anzi molti altri hanno sofferto e soffrono ancora molto di più di quanto abbiano sperimentato gli sloveni nati in Italia. Il primo esempio che ho sotto mano è quello di un’amica algerina, la cui famiglia, pur algerina e musulmana di Algeri, non ha mai parlato l’arabo se non un arabo rudimentale, annacquato dal francese dominante, colonizzatore del Paese. Lei si è trovata, madrelingua francese, straniera in patria e, dopo la fuga precipitosa dall’Algeria in preda alle convulsioni da guerra civile degli anni novanta, straniera in Francia. Paradossalmente, ma forse neanche tanto, le ci è voluta la Germania per non sentirsi finalmente più tanto straniera.

***
Una paura indistinta la coglie ogni volta che attraversa quell’androne che nemmeno una giornata di sole estivo riesce a rischiarare, tanto è alto; la finestra opaca sul pianerottolo dà sulla corte interna. Solamente al secondo piano l’illuminazione migliora, ma di poco. Peggiora però la vista sui muri: al piano di sotto il buio impedisce di distinguere chiaramente la sporcizia dell’intonaco e i disegni che si susseguono lungo tutta la ripida scalinata. Enormi “W” capovolte, seguite dalla parola “s’ciavi”. Al terzo piano, invece, delle “W” rovesciate, è scritto “A morte” e, prima di “s’ciavi”, “quei porchi”. Ovunque, a enfatizzare la stessa ingiuria, disegni che di solito si trovano sulle pareti dei gabinetti pubblici: una ellisse attorniata da raggi contro i quali è puntato un piccolo cannone su due ruote. Quando durante una delle sue prime visite il discorso era caduto sulle scale, la signora Marija non riusciva a trovare le parole per dar voce alla propria indignazione; le figlie le avevano raccomandato di calmarsi, ricordandole che loro erano l’unica famiglia slovena dello stabile e che perció quello minacce di morte erano dirette a loro, e poi, per quanto conoscessero bene gli autori di quelle scritte e di quegli scarabocchi, nulla potevano fare contro le giovani camicie nere che, quanto meno, li avrebbero malmenati alla prima occasione. “Pian piano ci si abitua a quelle scritte, non ci si fa nemmeno più caso”, aveva detto Vera. “Lo stesso vale anche per gli scarabocchi”.
(…)
Si alzò, accostò la finestra e tornò a distendersi. Non vuole che lo svolazzare delle tendine s’intrometta nei suoi pensieri. In questo modo è più isolata dall’atmosfera che aleggia in Cittavecchia, ma è ingiusta perché questo è un quartiere dove l’emarginazione è già incisa sulle facciate delle case e imprigionata nell’odore acido che emana dagli androni lugubri investendo i passanti. Probabilmente per questo è ingiusta, visto che gli abitanti di queste umide forre sono discriminati come gli sloveni, solo in altro modo. Sono dannati a causa della loro povertà, mentre gli sloveni lo sono a causa della lingua. Tutti infetti. Tutti hanno ereditato l’infezione. Questi però li lasciano qui a riprodursi come pantegane nei canali delle fogne; gli sloveni, invece, dicono di volerli sterminare come cimici che infestano gli appartamenti. Così ha scritto qualcuno. Come cimici. Il fatto che questi parassiti si moltiplichino in questa città da dodici secoli non ha alcun valore. Perciò condividono la stessa sorte degli abitanti di questo quartiere.
(…)
Nemmeno quell’ambiente, in fondo, avrebbe avuto grande influenza su coloro che vi venivano per essere educati alla rinuncia, se non si fosse preteso da loro un sacrificio pari alla morte dell’anima. No, non da tutti, solo dai convittori sloveni e croati. Questi, per compiere il loro cammino verso la perfezione, avrebbero dovuto rinunciare alla loro madre lingua. Dagli allievi italiani non si esigeva tanto. Come se per loro il cammino verso la santità fosse facilitato dall’aver succhiato col latte materno le prime sillabe di una parlata fiorita come una tenera gemma dalla salda radice latina. Naturalmente anche gli studenti italiani dovevano fare un tacito fioretto nel loro percorso formativo, ovvero accogliere con benevolenza in mezzo a loro gli allogeni, figli di piccoli contadini carsolini o istriani, che però prima dovevano liberarsi del fardello della loro parlata. È vero, anche la maggioranza degli italiani proveniva da famiglie istriane di contadini o di pescatori, ma nel loro caso l’estrazione sociale non poteva gettare ombre sul ruolo notevole, quasi determinante, svolto dalla nobile lingua di Dante.
(…)
“In un certo senso, per un nero la vita è molto più semplice, perché sa che i bianchi non lo sopportano per il colore della sua pelle. Di conseguenza sa dare un perché al senso di inferiorità inoculato alla sua stirpe. Ma per noi sloveni in Italia, il motivo non è chiaro, visto che la nostra pelle è bianca e le nostre labbra non sono più carnose di quelle di qualsiasi altro bianco”.
Guardava davanti a sé, come se contasse i merletti delle onde spumose. Ema, invece, pensava al padre, all’ostinata ribellione che gli aveva roso l’anima.
“D’altro canto, un nero sta peggio di noi, perché non può nascondersi. Non c’è abito che tenga. Può celarsi nella notte, ma un sorriso svelerebbe la sua pelle. Non può nascondersi, il che è grave, molto grave. In questo, noi ce la passiamo meglio, ci basta prendere in prestito la lingua del padrone e i giochi sono fatti. Un nero venderebbe la propria anima per ottenere i privilegi di cui le popolazioni slovene godono su questo versante delle Alpi Giulie”.
Da Qui è proibito parlare di Boris Pahor, traduzione dallo sloveno di Martina Clerici, Fazi editore 2009 (tradotto in italiano 46 anni dopo la prima edizione slovena)

***

Tutte cose sepolte nel passato? Ma magari, ma magari, e non solo in fatto di lingue, ma anche, purtroppo, in fatto di mancata condivisione della memoria. Ne fornisco un esempio, proveniente ancora dagli stessi territori, ancora non per qualche presunzione di esclusività, ma solo perché sono quelli che conosco meglio.

***

Nel dicembre del 2009, con il tempismo e le modalità che contraddistinguono il lembo nordorientale dell'Italia chiamato Venezia Giulia, Roberto Dipiazza, sindaco del PDL (Partito Della Libertà, quello di Berlusconi) di Trieste al suo secondo mandato, ha deciso di attribuire allo scrittore triestino Boris Pahor, ancora lui, una benemerenza civica. Un po’ di fonti e di reazioni in rete si possono trovare sul Corriere della sera, su Il Piccolo e sul blog del consigliere regionale della Slovenska Skupnost Igor Gabrovec. La motivazione recitava: “Per le sofferenze subite durante il nazismo” e si riferiva all’esperienza dello scrittore nei campi di concentramento nazisti in Germania e in Alsazia. Pahor ne ha scritto, tra l’altro, in Necropoli, un testo del 1967 (Nekropola) pubblicato per la prima volta in Italia nel 1997 dal Consorzio culturale del Monfalconese, dopo che diverse case editrici italiane, incluse grandi case editrici come Feltrinelli e Adelphi, non avevano degnato Pahor nemmeno di una risposta:
Non era facile far conoscere ad un editore uno scrittore sloveno, proveniente da una regione a lungo segnata dai conflitti nazionali. Ho spedito il testo di Necropoli, battuto a macchina e tradotto vent’anni prima dal professor Ezio Martin, a diverse case editrici italiane, ma non ho mai ricevuto risposta. Feltrinelli mi rispedì il pacco senza nemmeno aprirlo. Dopo il successo oltralpe, l’amico Evgen Bavčar, rappresentante della cultura slovena in Francia, inviò una copia di Necropoli, con il titolo francese Pèlerin parmi les ombres, all’editore Adelphi, ma non ebbe alcun riscontro.
Da Tre volte no, Boris Pahor, Rizzoli 2009.

Ora che Necropoli è pubblicato anche in Italia da una piccola grande casa editrice nazionale, Fazi Editore, e che persino il sindaco di Trieste si è sentito di insignire Pahor di una benemerenza, Pahor non l’ha accettata e lo ha fatto proprio per il tipo di motivazione prevista: non per quello che in essa c’era, ma per quello che in essa non c’era. Lo scrittore, ovviamente, non ha messo in discussione il ruolo del nazismo, ma ha avvertito la necessità di esprimere la mancanza del benché minimo riferimento, nella motivazione, alla parola “fascismo”:
Il nazismo, certo, mi perseguitò duramente; tuttavia, le prime sofferenze mi furono inflitte dal fascismo, che mi rubò l’adolescenza e l’identità. Ecco, avrei voluto che si aggiungesse una parola in più. Quella parola.
Il sindaco Dipiazza ci ha allora ripensato:
A caval donato non si guarda in bocca. (I benemeriti) non possono anche dettare i testi delle benemerenze. Fascismo, nazismo, crimini di Pol Pot e tutte le altre tragedie vanno lasciate agli storici. Dobbiamo guardare avanti, lasciamo la storia agli storici. Sono pronto a ritornare sui miei passi, cioè a conferirgli la Benemerenza civica, se Pahor, uomo di grande valore, abbassasse i toni.
Una questione di toni, dunque. Eppure i toni di Pahor sono pacati, semplicemente restano saldamente ancorati alla verità storica e alla richiesta che essa venga rispettata in toto. Una verità come quella ricordata ne Il rogo nel porto, Zandonai 2008, in cui lo scrittore testimonia uno dei più gravi episodi di violenza fascista avvenuto a Trieste nel luglio del 1920, l’incendio della casa della cultura slovena Narodni dom. L’incendio fu provocato dai fascisti, non dai nazisti, dai fascisti, da fascisti italiani scatenatisi ben due anni prima della marcia su Roma in una città che in parte li appoggiava e in parte stava a guardare:
Ma quella volta la sera non veniva e sembrava che non ci sarebbe stata neppure la notte, giacché sopra le case il cielo era rosso come se fosse intriso di sangue. Nell’aria odore di fumo.
Si era forse incendiato un vaporetto nel porto? Avevano preso fuoco i capannoni? Ardevano i vagoni con il legname? Brucerà tutta Trieste? Branko teneva Evka per mano e insieme corsero a casa, giù per la ripida discesa, su per la scala a pian terreno, giù per gli scalini del seminterrato, dalla mamma che era sola.
La lampada a petrolio ardeva sul tavolo, ma le due finestre rilucevano di un rosso scarlatto come se il sole al tramonto fosse caduto nel cortile. Ora ardeva nella cassa di cemento e il muro davanti alle finestre brulicava di fiamme che lambivano i vetri.
«Mamma» disse Branko stringendosi a lei.
«Mamma» pianse Evka aggrappandosi alla sua gonna.
Ma la mamma era strana. Taceva in mezzo al locale dalle finestre infuocate e neppure sembrava la loro mamma. Come fosse prigioniera in un carcere sottoterra e non sentisse che loro le erano accanto. Non si arrabbiava perché erano andati a zonzo. Aveva messo Olgica a letto ed era rimasta lì con il sole che, caduto dal cielo, ardeva nel cortile. Non li sentiva piangere perché presto ci sarebbe stata la fine del mondo.
«A letto» disse.
Assomigliava a una statua rossa nel chiarore infuocato e si muoveva come in mezzo alle fiamme mentre spogliava Evka.
Rossa in volto, rosse le mani. Tutto era rosso, anche il tavolo e il lume sul tavolo.
Allora si spalancò la porta e apparve Mizzi. Ma non silenziosa e compunta come al solito. I suoi occhi erano grandi e impauriti, sgranati e scarlatti per via del riflesso infuocato alle finestre. Il suo seno si sollevava in un respiro agitato e le mani tremavano nel riverbero purpureo.
«Gospa» (Signora) disse. «Gospa.»
Ma la mamma non reagì.
«Kako strašno, gospa.» (E’ terribile, signora)
Camminava intorno al tavolo e il pesante cercine di capelli scuri le si era sciolto sulle spalle. Camminava intorno al tavolo e andava ripetendo: «Signora, signora». Sembrava volesse scappare davanti alle fiamme, ma le fiamme l’avevano già avvolta, e con lei la mamma, Branko ed Evka che si stavano nuovamente vestendo e infilando le scarpe.
«L’hanno cosparsa di benzina, signora.»
«Mamma!» gridò Branko.
«Hanno inchiodato le porte, così la gente non può uscire.»
«Mammaaa» chiamò piangendo Evka.
«E la gente salta dalle finestre, signora.»
Ma loro due stavano già correndo, fecero appena in tempo a sentire un «ohi» di Mizzi e già correvano su per i gradini e poi giù per la strada. Sulla via Commerciale non era scesa la sera, l’incendio sopra i tetti sembrava venire dal sole che liquefacendosi sanguinava nel crepuscolo. Il tram per Opčine si era fermato, gli alberi nel giardino dei Ralli apparivano immobili nell’aria color porpora. Loro due correvano tenendosi per mano e nell’aria, sopra le loro teste, volavano le scintille che salivano da piazza Oberdan. 
Come il fratello e la sorella senza casa, come la sorella e il fratello nella fiaba di Mizzi, che la matrigna odiava e il padre voleva abbandonare. Ma non sapevano dove stessero correndo, forse soltanto in direzione delle scintille volanti, simili a lucciole.
Piazza Oberdan era piena di gente che gridava in un alone di luce scarlatta. Attorno al grande edificio invece c’erano uomini in camicia nera che ballavano gridando: «Viva! Viva!».
Correvano di qua e di là annuendo con il capo e scandendo: «Eia, eia, eia!». E gli altri allora di rimando: «Alalà!».
Improvvisamente le sirene dei pompieri cominciarono a ululare tra la folla, ma la confusione aumentò perché gli uomini neri non permettevano ai mezzi di avvicinarsi. Li circondarono e ci si arrampicarono sopra, togliendo di mano ai pompieri le manichette.
«Eia, eia, eia, alalà!» gridavano come dei forsennati e tutt’attorno c’era sempre più gente. Tutta Trieste stava a guardare l’alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere. Evka si avvinghiava a Branko perché nella grande casa, oltre alle fiamme, si vedevano anche delle figure umane alle finestre, e una di esse era appena salita sul davanzale guizzando accanto alla lingua rossastra che lambiva la finestra. Evka rabbrividì e anche Branko si strinse a lei.
«Eia, eia, eia, alalà!» cantavano gli uomini dai fez neri, ma i pompieri finalmente svolgevano le lunghe manichette e la folla si andava scostando. I getti d’acqua sprizzarono alti simili a zampilli uggiolanti e scalpitanti nella sera amaranto. Gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli.
In quel momento una scure tagliò una manichetta e il getto d’acqua rimase sospeso in alto, nel cielo, come un fiore di sambuco dorato dal riverbero del fuoco. Poi il fiore cadde e l’acqua continuò a sgorgare dalla manichetta tagliata che il pompiere teneva in mano, come sangue da una vena.
Le guardie municipali spingevano indietro la gente: «Alo indrìo, alo indrìo» (Indietro, dai, indietro, dai).
Gli uomini neri intanto ballavano in un crescendo sfrenato.
«Porci» disse un uomo fra la folla.
Evka e Branko però erano piccoli e non capivano quello che diceva la gente. Sapevano che bruciava la Casa della cultura e che non era giusto che i cattivi fascisti l’avessero incendiata, ma non si spiegavano perché i soldati fossero usciti dalla caserma in piazza Oberdan se ora se ne restavano lì a guardare. Dal muretto sulla soprastante via Romagna loro due li osservavano spesso, i soldati, che saltavano oltre i fossi e s’arrampicavano su per la parete di legno, ma perché erano venuti a guardare le fiamme che divoravano quella casa così bella e grande? Stavano tutt’attorno alla fontana dove di solito i cocchieri abbeveravano i cavalli, ma ora non c’era nessuna carrozza. E perché i pompieri non avrebbero dovuto spegnere il fuoco? Come mai i soldati, calmi e pacifici, guardavano gli uomini neri che spingevano via i pompieri quando questi allargavano il telone e qualcuno vi cadeva sopra da una finestra per poi rimbalzare verso l’alto proprio come Branko quando si buttava sulle molle del letto della mamma?
«Prekleti hudiči» (diavoli dannati) brontolò un uomo fra la folla e ad Evka sembrò di riconoscere quella voce. Ma intanto lo schiamazzo attorno alla casa era aumentato e le guardie cacciavano la gente in malo modo. Tuttavia un attimo dopo Evka si sentì afferrare saldamente da una mano, tanto che si strinse ancor più a Branko.
Quella voce allora esclamò: «A casa, svelti!».
E vide che era il loro papà.
Così dovettero rifare la via Commerciale in salita con il papà che brontolava.
«Maledetti diavoli dannati!» disse.
E tra sé e sé aggiunse: «Perché non ha messo a dormire i bambini…».
Branko avrebbe voluto dire che la mamma piangeva e che loro due erano scappati per paura del fuoco alle finestre. Ma tacque mentre si chiedeva: perché hanno sparso la benzina? Perché i diavoli neri ballavano e gridavano quando alle finestre in fiamme c’era ancora della gente? Le scintille continuavano a volare nell’aria e papà ora teneva il capo chino ed era arrabbiato, ma non più con la mamma.
«Figli del diavolo» disse.
Ma loro non sapevano perché bestemmiasse, Branko in autunno sarebbe andato in terza elementare, Evka solo in prima. La mamma lo rimproverava sempre quando bestemmiava, lui però nominava il diavolo e pronunciava simili parole soltanto quando era arrabbiato. Cioè soltanto nel caso in cui qualcosa non fosse andato per il verso giusto. E certamente non era giusto che avessero appiccato il fuoco a un edificio tanto bello con quel grande teatro dove il babbo e la mamma li avevano portati a vedere uno spettacolo; come la volta in cui sul palcoscenico c’era Krjavelj. Tanta gente stava seduta al buio e in silenzio, e allorché un uomo nell’oscurità aveva tossito, gli altri avevano fatto sss!… zittendolo. Evka sedeva sulle ginocchia della mamma, Branko invece su quelle di papà. Allora era comparso Krjavelj che si contorceva senza sosta come un fachiro e ammiccava con l’occhio destro. Poi disse che aveva tagliato in due il diavolo e che la prima volta il tonfo aveva fatto patapìm e la seconda patapùm. No, non era giusto che l’avessero incendiato, altrimenti il loro papà non si sarebbe arrabbiato tanto. E non era neanche giusto che la gente alle finestre gridasse: «Aiuto, aiuto!» e che gli uomini neri non permettessero ai pompieri di salvarli. Se salteranno in strada si ammazzeranno tutti, moriranno tutti.
«Canaglie del diavolo» disse papà.
E teneva per mano Evka e Branko mentre saliva lentamente sotto un cielo divenuto una cupola color rosso scuro. Evka aveva paura e avrebbe voluto essere a letto vicino alla mamma per potersi stringere a lei e non vedere quel bagliore sanguigno che trasformava la notte; per stringersi a lei e nascondere gli occhi nel suo grembo.
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Il problema della mancanza di rispetto della storia nel suo complesso non è purtroppo un problema circoscritto alla memoria selettiva del sindaco di Trieste. La conferma viene da un altro episodio di cronaca recente, quello del campo di concentramento fascista di Visco, in provincia di Udine, l’ultimo campo di cui ci siano ancora delle tracce fisiche, che qualche mese fa ha rischiato lo smantellamento.

A proposito dei campi di concentramento fascisti, ancora Boris Pahor in Tre volte no, formulava una domanda ragionevole e pacata:
Perché non si portano i ragazzi nei campi di concentramento italiani, come quelli di Rab, Gonars, Visco, Chiesanuova, Monigo, Grumello e altri ancora? E’ giusto che i giovani vadano a visitare le foibe, ma prima devono avere la possibilità di conoscere e studiare tutta la complessa situazione storica. Andare solo alla Risiera di San Sabba, che fu voluta dai nazisti, non basta e perpetua quell’immaginario descritto da Paolo Rumiz: “Innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani brava gente“.
Lo scritto di Paolo Rumiz citato da Pahor è un articolo di raro equilibrio e di grande respiro pubblicato sul quotidiano di Trieste Il Piccolo il 10 febbraio 2009. E’ già disponibile online altrove, ma lo ricopio lo stesso qui perché mi sembra ci stia tutto e per contribuire ad evitare che un giorno possa sparire dalla rete.
Foibe e Risiera, la strana ”simmetria” per pacificare la memoria sugli ex confini
Per arrivare a una pacificazione non è sufficiente onorare soltanto i morti delle Foibe e della Risiera
A due settimane dal Giorno della Memoria, il 10 febbraio – oggi – ritorna il Giorno del Ricordo dedicato agli esuli d’Istria e Dalmazia e ai morti nelle foibe. Torna con la sua carica di emozioni forti e il suo seguito di dispetti diplomatici fra Italia, Slovenia e Croazia. Ogni volta la stessa storia. Quasi un tormentone a orologeria.
Come noto, per metterci una pietra sopra, Roma chiede a Lubiana e Zagabria di concordare un atto simbolico di omaggio ai due luoghi contrapposti della barbarie: le foibe appunto, e la Risiera di Trieste, unico forno crematorio nazista in terra italiana. Un doppio atto catartico, si afferma. Una contrizione equanime e simmetrica, come i due piatti di una bilancia.
Ma è qui il punto. So bene che molti non saranno d’accordo, ma a mio avviso quella tra le foibe e il Lager triestino è una falsa simmetria. Mi spiego. Noi chiediamo ai nostri vicini di riconoscere una colpa loro, e in cambio offriamo di dolerci di una colpa niente affatto nostra. La Risiera è un simbolo pesante. Ma ha un difetto: venne gestita da tedeschi, e Trieste era territorio del Reich.
È difficile che funzioni. È come saldare un debito con moneta altrui. Perché non si cerca altro? Strano che l’Italia antifascista non ci pensi. Di luoghi alternativi ce n’è d’avanzo. Per esempio l’infame e italianissimo campo di concentramento di Gonars in Friuli, dove civili sloveni e croati furono fatti morire di fame; o il villaggio di Podhum sopra Fiume, una Marzabotto firmata Italia del ‘42, con cento civili fucilati, incendio e deportazione dei sopravvissuti.
Sarebbe facile, ma temo che se le nostre controparti ci dicessero davvero “offriteci un pentimento un po’ più italiano”, saremmo colti da amnesia collettiva. Da troppi anni il Paese evita il nodo del pentimento; si genuflette ad Auschwitz ma sorvola sui delitti del Ventennio. Squalifica i liberatori, li trasforma in occupatori, minimizza quel regime che pure Fini ha dichiarato “male assoluto”, e anziché chiedere scusa si limita a costruire un’agiografia di “fascisti buoni” salvatori di ebrei, o dedica strade a propagandisti del Ventennio.
Ma questo crea un rischio concreto: che il 10 febbraio vada in collisione col 27 gennaio, o addirittura lo neghi. L’equivalenza criminale tra foibe e lager triestino sembra fatta per tirarsi dietro un’equivalenza politica: nazifascismo=comunismo, mali assoluti entrambi. Ma come possiamo sostenerlo senza negare proprio l’evento fondativo del Giorno della Memoria, e cioè che il 27 gennaio a entrare ad Auschwitz fu l’Armata Rossa?
Non basta. Il 10 febbraio lascia intendere che pure noi italiani abbiamo avuto la nostra Shoah. Le nostre vittime, si dice, furono “martiri”. Ma il termine indica l’accettazione della morte in nome di un’idea, cosa che non fu, tanto è vero che non viene applicato nemmeno ai morti di Auschwitz. Difendere questa parola non rischia di sminuire l’orrore incommensurabile dell’Olocausto?
Da noi tutto è soggetto a lifting, dalla faccia dei primi ministri alle leggi finanziarie: figurarsi il Ventennio. In questa cosmesi Trieste ha una funzione-chiave. Qui i liberatori dell’Est e dell’Ovest andarono a scontrarsi e la ferocia vendicativa dei primi si scatenò come sappiamo. Ciò ne fa una piazza irrinunciabile per la Destra. Il posto ideale per equiparare i partigiani ai briganti e riciclare i fascisti come difensori della frontiera minacciata dal comunismo.
Ma se questo è il fine, allora il 10 febbraio e il 27 gennaio rischiano entrambi di svuotarsi di senso e ridursi a un’autoassoluzione. In fondo la colpa dei forni crematori è tedesca, quella delle foibe slava, e dunque possiamo sempre concludere: innocenti noi, barbari loro. Deponiamo corone d’alloro e torniamo a casa contenti di essere stati, ancora una volta, italiani “brava gente”.
Pensiamoci un attimo. Siamo l’unica nazione europea che ha ben due giorni dedicati alla Memoria. E siamo anche gli unici a servircene non tanto per chiedere scusa quanto per esigere scuse da altri. Ma allora a che serve questo nostro 10 febbraio? A celebrare morti e confortare profughi, come è doveroso, oppure ad assolvere gli stessi squadristi che plaudirono alle leggi razziali?
L’Italia ignora che quelle leggi furono proclamate settant’anni fa proprio a Trieste ed ebbero un tragico preludio nella repressione contro sloveni e croati fin dal 1920, con diciotto (!) anni di anticipo sulla Notte dei Cristalli. E pochi sanno che i “nostri” ebrei furono portati a morire sulla base di liste tutte italiane, accuratamente redatte nel ‘39 dall’ufficio “anagrafe e razza”. Perché non lo si dice chiaro?
Perché quel giorno infausto, di cui è appena trascorso il settantesimo anniversario, è stato ricordato in tono minore? Perché non s’è detto chiaro che quel tragico annuncio in piazza Unità ebbe in risposta non un silenzio attonito ma sette – ripeto, sette – ovazioni? C’è chi dice che le leggi razziste dipesero dall’influenza tedesca, ma Mussolini fu esemplarmente chiaro: “Coloro i quali credono che noi abbiamo obbedito a imitazioni – disse – sono poveri deficienti cui non sappiamo se dirigere disprezzo o pietà”.
Oggi in Italia si bruciano barboni, le ronde vanno a caccia di “musi neri”, nelle banlieues è scattata l’emergenza etnica, la presidenza del consiglio invece di unire il Paese lo spacca drammaticamente. Lo stesso Fini e parte della Destra sono preoccupati. Ma non è proprio questo che li dovrebbe obbligare a tener desta la memoria per evitare derive balcaniche al Paese? I Balcani non sono forse una tragedia etnica costruita sul cattivo uso della memoria?
Invece l’antislavismo resta un pregiudizio vivo a Nordest, e Trieste continua a essere un tappo formidabile sulla Ostpolitik italiana. Il Muro è caduto vent’anni fa, il confine con la Slovenia è caduto, ma la “svendita dell’italianità” è ancora il termine insultante con il quale certa nostra imprenditoria, per invocare protezionismi, bolla in nome della patria ogni tentativo di accordo di frontiera, lasciando così in apnea il porto di Trieste.
Non si capisce una cosa ovvia. La potenza tedesca si basa su un pilastro: l’aver chiesto scusa. È questo che ha dato credibilità all’espansione economica di Berlino a Oriente. Noi – che con tutta evidenza ci siamo macchiati di colpe minori – non l’abbiamo fatto, con la conseguenza che l’allargamento dell’Unione europea a Est va a due velocità. A Nord arriva alle porte di Pietroburgo; a Sud non arriva a Punta Salvore.
Lo chiamano ricordo, ma quante rimozioni! Non si dice che nel ‘19, dopo i bei Ragazzi del Novantanove, sulla frontiera arrivarono uomini neri a portare arroganza, sopraffazione e morte. Si omette che decine di migliaia di austriaci se ne andarono da Trieste a guerra finita perché l’Italia aveva chiuso le loro scuole, dopo che Vienna aveva lasciato fiorire la lingua italiana.
Si dice che Trieste fu “redenta”, ma non aveva nulla da cui redimersi. Il porto funzionava, Vienna investiva cifre enormi nello sviluppo, la rete ferroviaria era al top. Il fascismo invece castigò l’Adriatico: la flotta passò al Tirreno e Genova con Napoli saldarano il conto della sconfitta navale di Lissa, inflitta 50 anni prima dagli istro-dalmati sotto il vessillo dell’aquila bicipite.
Perché oggi si dedicano discorsi persino ai papalini uccisi a Porta Pia, ma non agli istriani, dalmati, goriziani e triestini che morirono sul fronte russo per obbedire al loro imperatore? Per essi nemmeno un fiore sui Carpazi. Vanno dimenticati solo perché disturbano l’immagine di Trieste italianissima? Quanta storia inghiottita da un buco nero.
Giampaolo Pansa fa le pulci alla Resistenza. Benissimo. La storia va sviscerata senza paura. Il problema è che pochi fanno le pulci al fascismo. Chi parla delle repressioni nella Trieste operaia, degli assalti agli sloveni e della loro lingua negata? Chi dei cognomi italianizzati in massa, o dei lager del Duce dove tanti bambini stranieri morirono di stenti tra il ‘41 e il ‘43? Silenzio indecente su tutto, anche sui 300 criminali di guerra mai passati in giudicato, o sugli squadristi riabilitati nel dopoguerra.
È dal ‘45 che la Destra persegue coerentemente questa rilettura. Ora ha in gran parte raggiunto il suo obiettivo. A furia di insistere ha ottenuto di fissare il Giorno del Ricordo al 10 febbraio, data del “tradimento” (il trattato di pace che ha ceduto terre a Tito) che mi pare scelta apposta per fomentare revanscismi. Nulla è più pertinace della memoria dei Vinti.
Il risultato è che oggi l’Italia accetta di celebrare le foibe evocando solo la barbarie slava e ignorando quella italiana. Onestà vorrebbe che nel gioco delle scuse incrociate si sostituisse la falsa simmetria con una simmetria autentica. Solo così il dopoguerra, a mio avviso, potrà dirsi finito sulla frontiera. Senza onestà la memoria resta zoppa, e il giorno del Ricordo potrà creare tensioni ancora a lungo. A meno che non sia proprio questo che si vuole.
Per fortuna, pare che il campo di concentramento di Visco non rischi più di essere smantellato come sembrava qualche mese fa.
Visco dovrebbe sopravvivere, ma a Gonars, ancora in provincia di Udine, c’è solo un monumento nel cimitero a ricordare la presenza del locale campo di concentramento. In questo caso c’è almeno un luogo della memoria virtuale dedicato al campo, The Gonars memorial, realizzato dal comune di Gonars, da quello di Visco, dalla regione Friuli Venezia Giulia e dalla Commissione Europea. Le medesime istituzioni hanno realizzato anche un documentario:


The Gonars Memorial from nestor anarres on Vimeo.

Segnalo infine alcune letture in rete, che cercherò di aggiornare nel tempo, e dei testi:

Visco: una storia dimenticata

Ferruccio Tassin, Sul confine dell'Impero, Comune di Visco, 1998

Una mia visita a Visco

I campi di concentramento per civili gestiti dalla II Armata

Nei campi di concentramento fascisti di Rab – Arbe e Gonars (PDF)

Relazioni italo-slovene 1880-1956 – Relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena

Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce - L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi

Sulle foibe, per il momento, mi limito a segnalare:

Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Udine 1997

Giuseppe Casarrubea, Foibe, perché?

Jože Pirjevec, Foibe - Una storia d'Italia, Einaudi