lunedì 31 gennaio 2011

Dizionario di tutte 'e cose - R come Resistenza

Me lo segno a mo' di appunto.
Mi sembra che, arrivati a questo punto, l'ultima linea di resistenza di fronte agli attacchi che l'Italia e la sua Costituzione repubblicana e democratica stanno subendo da 17 anni sia fare di tutto - senza esclusione di colpi - per la sintassi recuperare.

domenica 30 gennaio 2011

I nostri brulichii inarticolati

Non mi sono mai sentita di ricopiare la Szymborska, che, come molti, ho letto in traduzione con testo a fronte grazie all'editore Scheiwiller.
Oggi me la sento. 

Spis ludości

Na wzgórzu, gdzie stała Troja,
odkopano siedem miast.
Siedem miast. O sześć za dużo
jak na jedną epopeję.
Co z nimi zrobić, co zrobić.
Pękają heksametry,
afabularna cegła wyziera ze szczelin,
w ciszy filmu niemego obalone mury,
zwęglone belki, zerwane ogniwa,
dzbanki wypite do utraty dna,
amulety płodności, pestki sadów
i czaszki dotykalne jak jutrzejszy księżyc.

Przybywa nam dawności,
robi się w nij tłoczno,
rozpychają się w dziejach dzicy lokatorzy,
zastępy mięsa mieczowego,
reszki orła-Hektora dorównujące mu męstwem,
tysiące i tysiące poszczególnych twarzy,
a każda pierwsza i ostatnia w czasie,
a w każdej dwoje niebywałych oczu.
Tak lekko było nic o tym nie wiedzieć,
tak rzewnie, tak przestronnie.

Co z nimi robić,co im dać?
Jakiś wiek mało zaludniony do tej pory?
Trochę uznania dla sztuki złotniczej?
Za późno przecież na sąd ostateczny.
My, trzy miliardy sędziów,
mamy swoje sprawy,
własne nieartykułowane rojowiska,
dworce, trybuny sportowe, pochody,
liczebne zagranice ulic, pięter, ścian.
Mijamy się na wieczność w domach towarowych
kupując nowy dzbanek.
Homer pracuje w biurze statystycznym.
Nikt nie wie, co robi w domu.

Wisława Szymborska


Censimento

Sul colle dove sorgeva Troia
hanno dissotterrato sette città.
Sette città. Sei di troppo
per una epopea.
Che farne, che farne.
Gli esametri si spaccano,
il mattone privo di trama appare dalle fessure,
muri abbattuti nel silenzio da film muto,
travi carbonizzate, anelli spezzati,
brocche bevute a perdifondo,
amuleti della fertilità, nòccioli di frutteti
e crani tangibili come la luna di domani.

Cresce la nostra dose di antichità,
ci si sta stretti,
inquilini abusivi sgomitano nella storia,
schiere di carne da spada,
rovesci della medaglia di Ettore, a lui eguali in valore,
migliaia e migliaia di singoli volti,
e ciascuno il primo e l'ultimo nel tempo,
e in ciascuno due occhi insoliti.
Era più semplice non saperne niente,
era così tenero, così arioso.

Che fare di loro, cosa dargli?
Un secolo finora poco popolato?
Un qualche plauso per l'oreficeria?
In fondo è troppo tardi per il giudizio universale.
Noi, tre miliardi di giudici,
abbiamo le nostre faccende,
i nostri brulichii inarticolati,
stazioni, spalti negli stadi, cortei,
numerosi oltrefontiera di strade, piani, pareti.
Ci incrociamo per l'eternità nei grandi magazzini
comprando una nuova brocca.
Omero lavora in un istituto di statistica.
Nessuno sa cosa faccia a casa.

Traduzione di Pietro Marchesani


Se posso permettermi, ogni volta che leggo "Era più semplice non saperne niente, era così tenero, così arioso", le parole mi si trasformano in "Sarebbe stato più semplice non saperne niente, sarebbe stato così tenero, così arioso".


Census

On the hill where Troy once stood,
they've dug up seven cities. Six too many
for a single epic.
What's to be done with them? What?
Hexameters burst,
nonfictional bricks appear between the cracks,
ruined walls rise mutely as in silent films,
charred beams, broken chains,
bottomless pitchers drained dry,
fertility charms, olive pits,
and skulls as palpable as tomorrow's moon.

Our stockpile of antiquity grows constantly,
it's overflowing,
reckless squatters jostle for a place in history,
hordes of sword fodder,
Hector's nameless extras, no less brave than he,
thousands upon thousands of singular faces,
each the first and last for all time,
in each a pair of inimitable eyes.
How easy it was to live not knowing this,
so sentimental, so spacious.

What should we give them? What do they need?
Some more or less unpeopled century?
Some small appreciation for their goldsmiths' art?
We three billion judges
have problems of our own,
our own inarticulate rabble,
railroad stations, bleachers, protests and processions,
vast numbers of remote streets, floors, and walls.
We pass each other once for all time in department stores
shopping for a new pitcher.
Homer is working in the census bureau.
No one knows what he does in his spare time.

Translated by Stanisław Barańczak and Clare Cavanagh

Dizionario di tutte 'e cose - C come (il) Cinema prima del cinema

Ritorno al cinema, quando il cinema non esisteva ancora.

*

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Esterno Reggia del Sole

La reggia del Sole. Ha colonne immense. L'oro e il rame che la ricoprono emettono bagliori di fiamma.
Sulla sua porta, d'argento, Vulcano è al lavoro: cesella le distese marine che cingono la terraferma, il mondo terrestre e il cielo.

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Esterno Mare

Nell'acqua, le divinità azzurre: Tritone che suona, Proteo multiforme, Egeone dalle molte braccia che preme su dorsi di balene, Dòride con le sue figlie, di cui alcune nuotano, altre stanno sedute su scogli ad asciugarsi i capelli verdi, altre ancora navigano in groppa a pesci.

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Esterno Terra

Sulla Terra, uomini, boschi, animali, fiumi, ninfe e altre divinità campestri.

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Esterno Cielo

Nel cielo, le costellazioni.
Poi, una stella, sempre più vicina.

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Esterno Reggia del Sole

La stella diviene una di quelle delle dodici costellazioni riprodotte sulla porta della reggia.
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Interno Reggia del Sole

Il Sole siede su un trono di smeraldi. Indossa un mantello rosso porpora. Sul capo, raggi sfolgoranti. Alla sua destra e alla sua sinistra, il Giorno e il Mese e l'Anno, i Secoli e le Ore, ognuna disposta a uguale distanza dall'altra, la Primavera incoronata di fiori, l'Estate, nuda, la testa cinta di una ghirlanda di spighe, l'Autunno impiastricciato d'uva e l'Inverno coperto di ghiaccio, con i capelli irrigiditi.
Si apre la porta. Entra Fetonte, coprendosi gli occhi con la mano. Si ferma a distanza dal Sole, nel punto limite dove riesce a sostenerne la vista. Lentamente, abbassa la mano. 

Sole - Cosa c'è? Come mai sei venuto? 
Fetonte - Ti devo chiedere una cosa: sei veramente mio padre? La mamma dice di sì, ma vorrei sentirlo da te.
Sole (levandosi i raggi dal capo) - Tua madre ha ragione. Ma se ne dubiti, chiedimi quello che vuoi, e te lo darò.
Fetonte - Ti chiedo un favore, la prova che sei mio padre: dammi il cocchio. Lasciamelo guidare per un giorno.
Sole (scuotendo il capo luminoso) - No! Questa è l'unica cosa che non posso darti, figlio mio.
Fetonte - Dai, te lo chiedo per un giorno, un giorno solo.
Sole - È troppo pericoloso. Non sei abbastanza forte e sei ancora troppo giovane. E poi sei mortale: nemmeno un dio potrebbe guidarlo, solo io posso farlo. Nemmeno Giove potrebbe.
Fetonte - Ma seguirò la solita pista che percorri ogni giorno tu, dai.
Sole - Impossibile. Non ce la puoi fare. La via è ripida all'inizio, a metà è già altissima nel cielo, tanto che io stesso, da lassù, ho il terrore di guardare il mare e la terra, e l'ultimo tratto è talmente a strapiombo che da lì Teti ha sempre paura che io cada nelle sue onde. E poi il cielo gira così velocemente, portandosi dietro in un turbine tutte le stelle. Solo io ho la forza per resistere al turbine e alla sua spinta. Tu non potresti, ti faresti portare via dal cielo. E gli animali che bisogna superare! Le corna del Toro, l'arco dell'Arciere d'Emònia, le fauci del Leone, le chele dello Scorpione e quelle del Granchio. I cavalli, poi, tutto un surriscaldarsi e un ribellarsi alle briglie. Non posso. Ripensaci. La prova che ti serve è tutta qui, se vuoi, nella mia paura di concederti il cocchio.
Fetonte - Non mi convinci, tu e le tue storie. Dai, papà, dammi il cocchio. Non hai scelta: se sei mio padre devi lasciarmi guidare il cocchio.

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Interno Garage della Reggia del Sole

Il cocchio. D'oro l'asse, la stanga, il cerchio delle ruote. D'argento i raggi delle ruote. Lungo i gioghi, topazi e file di gemme preziose.
Fetonte lo osserva, ne studia i particolari.
Sorge l'Aurora, le stelle si ritirano, la Luna svanisce, per ultimo se ne va Lucifero, verso la Terra. Il mondo diventa rosso, le Ore aggiogano i cavalli. 

Il Sole spalma un medicamento sacro sul volto del figlio e gli pone i raggi sul capo.

Sole (sospirando per l'ansia) - Segui almeno i miei consigli. Ricordati: non spronare i cavalli, trattienili con le briglie per frenarne la foga e non tagliare mai le cinque zone del cielo, ma segui sempre la pista e la sua curvatura, restando nelle tre zone, evitando di toccare il Polo australe o l'Orsa dalla parte dell'Aquilone. Per aiutarti, puoi seguire le tracce delle ruote che ho lasciato io. Mantieniti a mezza altezza: non andare né troppo in altro né troppo in basso, se non vuoi bruciare le dimore celesti o la terra. E stai alla larga, sulla destra, dal Serpente contorto, e, sulla sinistra, dall'Altare. Tieniti in mezzo, tra l'uno e l'altro. Per il resto, mi affido alla Fortuna. Non vuoi ripensarci? Lascia dare me luce alla Terra!

Fetonte balza felice sul cocchio, ne prende le briglie e saluta il padre.

I cavalli Piroente, Eòo, Etone e Flegonte nitriscono, scalpitano e fiammeggiano.

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Esterno Reggia del Sole

Il cocchio parte, i cavalli, giunti ai cancelli esterni della Reggia, li percuotono con gli zoccoli.
Intanto arriva Teti, trafelata.
Teti apre i cancelli.

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Esterno Cielo basso

Squarciata una cortina di nebbia, i cavalli, volando, sorpassano veloci gli Euri. Il cocchio, privo del peso consueto, vola traballante ed instabile. I cavalli ne approfittano e lasciano presto la pista, correndo all'impazzata, di qua e di là.
Fetonte si spaventa, non sa da che parte tirare le briglie.
È smarrito.

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Esterno Stelle

L'Orsa si scalda ai raggi del sole e cerca di immergersi nel mare. Il Serpente si sposta dal Polo glaciale e viene preso da una furia mai vista. Anche Boote fugge sul suo carro.

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Esterno Cielo alto

Fetonte si volta a guardare dall'alto la Terra, lontana, lontanissima. Impallidisce. Le ginocchia gli tremano. Nello sguardo, sgomento e rimorso per aver preso il cocchio. Poi riguarda in avanti, quasi a misurare il tratto ancora da percorrere davanti a sé. Non sa che fare. Smette di muovere le briglie. Impietrisce.
Il cocchio procede ancora seguendo un percorso incerto.
Passa attraverso una serie di animali mostruosi. Fetonte rabbrividisce. Quando vede lo Scorpione che trasuda veleno nero e minaccia di colpirlo con la punta della sua coda, lascia del tutto le briglie, che cadono sulla groppa dei cavalli.
I cavalli corrono a caso, dove li spinge la foga: cozzano contro le stelle e trascinano il carro per luoghi sperduti.

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Esterno Luna

La Luna vede passare sotto di sé il cocchio.

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Esterno Terra

Le grandi città della Terra bruciano. Gli incendi scoppiano ovunque, riducendo in cenere intere regioni e popolazioni. Bruciano i boschi coi monti: l'Ato, il Tauro in Cilicia, lo Tmolo, l'Eta e l'Ida, ormai prosciugato delle sue sorgenti, l'Elicona delle Muse, l'Emo. L'Etna è un rogo immenso. Le due cime del Parnaso, l'Erice, Il Cinto, l'Otri, il Ròdope senza ormai nevi, il Mimante, il Díndimo, il Micale, il Citerone. Neppure la Scizia si salva. Bruciano il Caucaso, come l'Ossa e il Pindo e l'Olimpo, le Alpi e l'Appennino.

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Esterno Cielo alto

Fetonte rivolge di nuovo lo sguardo giù, verso la Terra.  La vede in fiamme ovunque. Non resiste più al calore, alle ceneri, ai getti di faville. Respira a stento folate d'aria infuocate. Il cocchio diventa incandescente. Un fumo caldo lo avvolge completamente.

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Esterno Terra

Il sangue affiora alla pelle degli Etíopi, che diventano all'improvviso neri.
La Libia diventa un deserto.
Le ninfe piangono la scomparsa di fonti e laghi: la Beozia non trova più la fonte Dirce, Argo la fonte Animone, Efire le acque della fonte Pirene.
Nemmeno i fiumi riescono a salvarsi: il Tànai fuma anche nel mezzo della sua corrente, e così il Peneo, il Caico nel regno di Teutrante, l'impetuoso Ismeno e l'Erimanto nel regno di Fegeo, lo Xanto, il Meandro con tutte le sue anse, il Mela della Migdonia e l'Eurota di Tènaro. Arde l'Eufrate in Babilonia, arde l'Oronte, e il Termidone rapido e il Gange e il Fasi e l'Istro. Ribolle l'Alfeo, bruciano le rive dello Sperchío e l'oro che il Tago trasporta fonde tra le fiamme. Sulle sponde della Meònia, soffocano tutti gli uccelli in mezzo al Caistro. Il Nilo fugge ai margini del mondo e scompare per sempre. La stessa fine tocca all'Ebro e allo Strímone e ai fiumi dell'Occidente: il Reno, il Rodano, il Po e il Tevere.
Dappertutto il suolo si fende e si apre a squarci.

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Esterno Sottosuolo

Attraverso gli squarci profondi nelle viscere della Terra, la luce penetra giù, fino al Tartaro.
Il re e la regina degli inferi atterriscono.

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Esterno Mare

Il mare si contrae e si ritira. Emergono enormi distese di sabbia, emergono montagne, le Cicladi acquistano nuove isole. I pesci cercano riparo sul fondo. I delfini cessano di balzare fuori dall'acqua e si immergono in profondità. Salgono a galla cadaveri di foche, rovesciati sul dorso.
Nereo e Dóride e le loro figlie cercano riparo nelle grotte, ma anche queste sono troppo calde.
Nettuno tira fuori la faccia e le braccia dalle onde tre volte e tre volte, per il calore dell'aria infuocata, si ritrae.

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Esterno Terra

La Terra, ormai arida, si porta una mano alla fronte. Ha cenere negli occhi e sulla faccia. Sussulta, fa tremare ogni cosa e si posiziona più in basso del solito.

Terra (gli occhi al cielo) - Se così è deciso, se ho meritato questo, che aspetti, Giove, a colpirmi con i tuoi fulmini? Io che ho sopportato tagli e tagli di aratri, io che ho dato foglie al bestiame, messi e cibo agli uomini e incenso a voi dei. E ammettiamo che io abbia delle colpe: ma quale colpa avranno mai le acque, che male ha fatto tuo fratello Nettuno? Se non hai pietà di noi, abbi almeno pietà per il cielo, che appartiene a te! Guarda i poli come fumano, guarda Atlante che cede e non ce la fa più a sorreggere l'asse del cielo incandescente. Vuoi tornare alla confusione dell'antico Caos? Pensa all'universo!

Qui la Terra, non resistendo più ai vapori, tace e ritira il suo volto nei recessi del regno delle ombre.

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Esterno Rocca del Monte Olimpo

Giove chiama a testimoni tutti gli dei, compreso il Sole. Cerca le nubi, cerca la pioggia, ma non le trova.
Tuona, libra un fulmine all'altezza dell'orecchio destro e lo lancia contro il cocchiere.
L'incendio si arresta con una fiammata.

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Esterno Cielo

Fetonte, colpito dal fulmine, viene sbalzato via dal carro e dalla vita.
Atterriti, i cavalli si impennano e con uno strappo si liberano dal giogo, spezzano i finimenti e fuggono.
Cadono i morsi, l'asse viene divelto dalla stanga, partono via i raggi delle ruote. I resti del cocchio fracassato si disperdono ovunque.
Fetonte, con i capelli in fiamme, precipita girando più volte su se stesso e lasciando nell'aria una lunga scia, come una scia di stelle cadenti.

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Esterno Fiume Po

Fetonte precipita nel fiume, che gli spegne il viso fumante.

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Interno Reggia del Sole

Il Sole, schiantato dal dolore, resta nella Reggia. Per la prima volta, non esce per una giornata intera.

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Esterno Riva del Po

Le Nàiadi d'Occidente seppelliscono il corpo incenerito di Fetonte. Scrivono dei versi sulla lapide.

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Esterno Riva del Po

Sullo sfondo, si stagliano contro il cielo filari e filari di pioppi bianchi.
Climene, la madre di Fetonte, con le vesti stracciate, piange il figlio davanti alla lapide e legge:
Hic situs est Phaëton, currus auriga paterni,
quem si non tenuit, magnis tamen excidit ausis.

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Sottotitoli

Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre;
non riuscì a guidarlo e cadde, ma fu un'impresa grandiosa.

Fine

*

Si ringraziano Ovidio e le sue Metamorfosi.

sabato 29 gennaio 2011

Promesse. Bellezze. Le nevi. Il passato.

«Il cattolicesimo ha svaccato ogni gesto – dice Marcho Marcho – tanto che in ogni momento il naturale diventa soprannaturale e ciò che sembra banale si trasforma in miracolo. Tutto è teatro. C’è sempre un santo che sanguina, una madonna che frigna, un grand’uomo da ringraziare se si apre una strada o si interra una chiavica. Una banda con gli ottoni per questi pomeriggi di un fauno. Se il resto casca a pezzi chi se ne frega? Mai visti tanti stronzi al timone».
La barca corre e va; la barca è sola. Le generazioni si stancano, passano, ogni vent’anni si può ricominciare da capo.
Promesse. Bellezze. Le nevi. Il passato.

Roberto Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, 1976

Da qui.

*

I presidenti del consiglio dei ministri, per quanto da un po' di tempo sembri difficile crederci, passano. San Gennaro resta. 

venerdì 28 gennaio 2011

Dizionario di tutte 'e cose - I come Ieri

Ci sono uomini, a volte intere generazioni di uomini, i cui pensieri e le cui azioni sembrano finire nel nulla o, nella migliore delle ipotesi, quella che normalmente mi auguro, i cui semi richiedono moltissimo tempo prima di rigermogliare in qualche nuova forma che ne riprenda e ne rispecchi il desiderio di giustizia e di libertà e ne rispetti la dignità di averci creduto e provato fino in fondo, pur nell'imperfezione che ogni atto umano è destinato a portare con sé.

C'è una generazione di tedeschi che ha creduto nel comunismo ed è stata sconfitta, imprigionata e assassinata, in patria e all'estero - dai Freikorps ai campi di sterminio, specie Dachau, ai gulag sovietici -, e condannata più o meno all'oblio. Non erano pochi, eppure il loro ricordo è generalmente circoscritto al più a un paio di loro rappresentanti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e non sempre è immune dalle semplificazioni insite nel processo postumo di idealizzazione più o meno marcata.

Nonostante la loro sete di giustizia e libertà non sia per niente placata, sono stati e sono sconfitti enne volte ed in tutti i modi possibili, direttamente ed indirettamente, da vivi e da morti: nel corso della repressione sanguinosa della rivolta spartachista, negli anni della repressione nazista degli oppositori politici, per effetto delle purghe staliniane che ne hanno condannato le "deviazioni" dall'ortodossia (fossero venate di anarchismo, antibolscevismo, frazionismo, individualismo, trotzkismo, ecc. - la lista di difetti che riuscì a stilare quel sistema di potere è infinita), ogni qual volta si ricorda la Repubblica di Weimar solo quale atto prodromico al nazismo, quando si ripercorrono gli anni della Germania nazista senza degnarli di una parola, per colpa della ripetitiva celebrazione mitizzante di alcuni dei loro esponenti ad opera del regime comunista della DDR, per il crollo di questa e dell'URSS, per la "fine delle ideologie", perché non interessano più.

Ieri e oggi ho pensato a loro.

Es bleibt immer eine Lücke (rimane sempre una lacuna)

Schlafen, luftholen, dichten:
das ist fast kein Verbrechen
HME
(Dormire, respirare, fare poesia:
è quasi non criminale)


PV- Ha una spiegazione del fatto che i tedeschi hanno continuato a lottare così a lungo, così ostinatamente? Come si è prodotto, c'era una specie di fascinazione che lei evidentemente non ha subito? Come si può spiegare che hanno retto fino alla fine, nonostante la guerra di bombardamento, o forse anche a causa della guerra di bombardamento, così a lungo?

HME - Sa, queste sono domande piuttosto grosse, cui è difficile rispondere.

PV - Ma forse può spiegare perché non si riesce a rispondervi.

HME - In primo luogo sicuramente per tali cose non c'è una sola ragione, è spiacevole perché il mondo è troppo complesso, questo per ogni evento, per ogni grande evento che accade. Perché gli americani hanno fatto il Vietnam? Perché? È un esempio più piccolo, ma ci sono migliaia di esempi. E se ora cerca di spiegarla, questa assurdità, questa idiozia. E i movimenti di massa, l'entusiasmo, l'entusiasmo di moltissimi intellettuali, in Europa, per Stalin, per il comunismo: difficile da spiegare, tutto difficile da spiegare... si deve...

PV - Persino da parte di persone che sono andate nei gulag e ciò nonostante hanno detto "il partito ha sempre ragione".

HME - Per questo possiamo assumere ora malvolentieri il ruolo di quelli che sanno e dire "perché i tedeschi sono sempre così, perché hanno questa tradizione di male terribile". Conosciamo tutte queste spiegazioni, ma non bastano, vale a dire rimane sempre una lacuna in queste spiegazioni. Sappiamo, conosciamo l'assassinio degli ebrei europei: ci sono diverse teorie, l'abbiamo letto nei libri, tutti hanno tentato di trovare una spiegazione, però rimane una lacuna e non so come si dovrebbe colmare questa lacuna. Mi succede così per moltissime domande importanti, che resta sempre questo resto, e questo resto è in realtà addirittura determinante. E per questo io esito, voglio dire ci sono i profeti, non abbiamo bisogno di fare loro concorrenza, spiegano tutto, sanno tutto. Bisogna capire qualcosa a poco a poco, un poco qui un poco là: è già piuttosto ambizioso.

Da un'intervista di Peter Voß a Hans Magnus Enzensberger.

Persone


La personne.

Prendre un individu de l'espèce humaine.
L'important sera le visage (pour la photo), s'il a un sosie changer quelque peu le visage ; les doigts (pour les empreintes digitales) ; et les dents (pour le cas ou l'on retrouverait que la tête).
Prendre un individu de l'espèce humaine qui a toute sa tête ;
(Cela ne se voit pas au premier coup d'œil.)


né ;
vivant ;
qui ne se suicide pas.


S'il se met à mourir
en prendre un autre
cela n'est pas grave.

Tarkos, le baroque, al dante, 2009


La persona.

Si prenda un individuo della specie umana.
L'importante sarà il viso (per la foto), se ha un sosia si cambi un poco il viso; le dita (per le impronte digitali); e i denti (per il caso in cui se ne ritrovi solo la testa).
Si prenda un individuo della specie umana che abbia tutta la testa;
(È cosa che non si vede al primo colpo d'occhio.)


nato;
vivo;
che non si suicidi.


Se si mette a morire
se ne prenda un altro
non fa niente.


*


Un qualùnque

Go davanti sentà un omo, oni giorno.
Un qualùnque; no el xe niente par mi;
se fussi un altro me saria l'istesso.
Ma un fioleto ch'el ga se ga malado,
malado de morir; e sul su' viso
sbassà, cori zo làgrime slusenti.
E mi ghe parlo, e zerco in mi parole
par consolarlo che no' isisti. Fazzo
con lui quel che anca lui faria con mi,
che no' son par lui gnente che un qualùnque.

Virgilio Giotti, Colori, Einaudi, 1997


Quelqu'un, n'importe qui

Tous les jours, j'ai en face, assis, un homme.
Quelqu'un, n'importe qui ; il n'est rien pour moi ;
s'il était un autre, cela me serait égal.
Mais un petit garçon qu'il a est tombé malade,
malade à mort ; et sur son visage
baissé, coulent des larmes étincelantes.
Et je lui parle et, pour le consoler, je cherche
en moi des mots qui n'existent pas. Je fais
avec lui ce que lui-même ferait avec moi,
qui ne suis pour lui rien d'autre que n'importe qui.

giovedì 27 gennaio 2011

Indirizzi

Il mio indirizzo è : Virgilio Giotti (niente poeta) – Trieste – Ospedale Maggiore.
Saluti cordiali
Giotti
Da una lettera di Virgilio Giotti a Mario Dell'Arco del 30 novembre 1948


Une adresse

Les pays États sont délimités par des frontières

Les villes sont délimités par les rues qui leur appartiennent jusqu'à un certain point.

Les rues, routes, avenues ont été baptisées selon un nom

Le bâtiments alignés le long de ces rues routes avenues ont été numérotés.

Pays Ville Rue Numéro.
Manque le nom de la personne.

Tarkos, le baroque, al dante, 2009


Gli Stati nazione sono delimitati da frontiere

Le città sono delimitate dalle vie che appartengono loro fino ad un certo punto.

Le vie, le strade, i viali sono stati battezzati secondo un nome

Gli edifici allineati lungo questi viali strade vie sono stati numerati.

Paese Città Via Numero.
Manca il nome della persona.


J'habite rue Bromfield, cher Monsieur.

martedì 25 gennaio 2011

Destino

'Na roba sola so: che sicuro andarò do' che va tute le foie; sì, tute, se le xe bele o brute.
Virgilio Giotti, La canzon de la foia portada dal vento (dalla Imitazione di Leopardi), 24 gennaio 1906
(una cosa sola so: che sicuramente andrò dove vanno tutte le foglie: sì, tutte, che siano belle o brutte)


Le destin

Le destin n’est pas notre destin, comment dissocier nous de notre destin comme si nous étions spectateurs étrangers au déroulement d’une somme dont nous serions aussi l’objet-sujet.
Nous n’avons pas de destin.
Nous sommes un destin.
Ce destin que nous sommes est baroque.
Comment le tirer :
Voir un destin : selon quels découpages ?
Le destin d’un homme : nous ne saurons jamais ce que de son destin passé il a gardé afin de vivre le destin qu’il vit selon sa mémoire, ses sentiments, son émotion, sa personnalité.
Ce qui se passe : À quels carrefours de flux visibles se trouve-t-il ?

Tarkos, le baroque, al dante, 2009

Il destino non è il nostro destino, come dissociarci dal nostro destino come se fossimo spettatori estranei allo svolgimento di una somma di cui saremmo anche l'oggetto-soggetto.
Non abbiamo un destino.
Siamo un destino.
Questo destino che siamo è barocco.
Come derivarlo:
Trovare un destino: in base a quali suddivisioni?
Il destino di un uomo: non sapremo mai quello che ha conservato del suo destino passato per vivere il destino che vive secondo la sua memoria, i suoi sentimenti, la sua emozione, la sua personalità.
Quello che succede: A quali incroci di flussi visibili si trova?

*

Nel profondo
cieco mondo
si precipiti la sorte
già spietata a questo cor.
Vincerà l’amor più forte
con l’aita del valor.
Vivaldi/Braccioli, Orlando furioso, Nel profondo, Marilyn Horne

*

Irène

Tre cose, anzi quattro

Он любил три вещи на свете:
За вечерней пенье, белых павлинов
И стертые карты Америки.
Не любил, когда плачут дети,
Не любил чая с малиной
И женской истерики
...А я была его женой.

Анна Ахматова

Amava tre cose al mondo:
i canti della sera, pavoni bianchi
e mappe sbiadite dell'America.
Non amava il pianto dei bambini
non amava il tè con la marmellata di lamponi
e l'isteria femminile
...e sì che sono stata sua moglie.

Anna Achmatova

English versionS

*

Tre cose solamente m'ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire:
cioè la donna, la taverna e 'l dado;
queste mi fanno 'l cuor lieto sentire.
Ma sì mme le conven usar di rado,
ché la mie borsa mi mett'al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch'i' perdo per moneta 'l mie disire.
E dico: "Dato li sia d'una lancia!"
Ciò a mi' padre, che mmi tien sì magro,
che tornare' senza logro di Francia.
Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che si dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro.

Cecco Angiolieri

English version
*

Anzi quattro.

lunedì 24 gennaio 2011

Dizionario di tutte 'e cose - A come Architettura dei monumenti funebri della Repubblica

stile verticale
stile grotta
stile '14-'18
stile roccia incompiuta

Tarkos, le baroque, al dante, 2009


Ho lasciato il mio indice sinistro nella foto perché è venuto così. Quando ho scaricato la foto mi è tornato in mente un consiglio ricevuto da un fanatico della fotografia. A ruota, mi è riaffiorata alla memoria la risposta automatica che mia nonna offre come replica a qualsiasi frase che cominci per "bisogna", risposta che non solo è inconfutabile, ma è anche alquanto adatta al contesto della poesia.

"Bisogna sempre contestualizzare l'oggetto che si fotografa".
Uno che la sapeva lunga

"Bisogna solo morir".
Nonna Eugenia

Anche gli altri versi che emergono in trasparenza sono venuti così e non c'era motivo di toglierli. Al contrario.

domenica 23 gennaio 2011

Dizionario di tutte 'e cose - M come musica sperimentale



Qualche pezzo tratto dalla parte Antem missa:

Bien soiez venu / Alleluia

Bien soiez venu mon signoir
a vostre osta pour reposade.
Pour pain, pour vin, pour char et salade
de l’avaine pour vostre ronchin,
et sy arez s’il vous agrade
vostre serviteur jusque la fin.

Siate benvenuto mio signore/al vostro ostello per riposare./Per pane, per vino, per carne e insalata/dell'avena per il vostro ronzino,/e sarò, se vi aggrada/il vostro servitore fino alla fine.

Welcome, my lord/to your inn, take a rest./Have bread, wine, meat and salad,/ hay for your nag./
And, if it is your pleasure,/I’ll be your servant for the time being.

In minen sin

In minen sin hadde ick vercoren
een maechdeken jonck van daghen.
Noyt schoonder wijf en was geboren
ter werelt wijt, na mijn behagen.
Om haren wille so wil ick waghen
beyde lijf ende daer toe goet.
Mocht ick noch troost aen haer beiaghen
so waer ick vro, daer ick nu trueren moet.
Haer minnen doet mi mijn herteken quelen,
ick ducht dat ick dat sal besterven.
Nochtans soude si mi niet vervelen,
mocht ick noch troost van haer verwerven,
die nijders tonghen willen my bederven,
des ben ick gheworden vroet;
Woude si mi in haer herteken erven,
so waer ick vro, daer ick nu trueren moet.

Nei miei pensieri avevo scelto/una ragazza giovane in giorni./Mai donna più bella era nata/al mondo, secondo me./Per lei voglio impegnare/il mio corpo e i miei beni./Se solo potessi trarre qualche speranza/sarei contento, mentre ora mi dispero./Amarla fa soffrire il mio piccolo cuore,/credo che ne morirò./Sarei ben meno infelice,/se solo mi desse un po' di speranza./Le lingue invidiose vogliono ferirmi,/ma ho imparato bene;/Se volesse prendermi nel suo piccolo cuore/sarei contento, mentre ora mi dispero.

In my thoughts I had chosen/a virgin young in days/a more beatiful woman never had been born/in all the world, to my pleasure./For her sake I want to risk/both life and goods;/Could I arouse some hope from her,/I would be glad, whereas I am now in distress./Her love makes that I feel grief in my heart/I fear that it will cause my death,/but she would not trouble me,/could I win her favour as yet./The tongues of jealous people will do harm to me,/I have learned that very well./Would she close me into her heart,/I would be glad, whereas I am now in distress.


A suo tempo, è stata musica sperimentale: qualcuno chiamò la produzione del suo compositore "folle e strana". Ma non è meravigliosa? Non lo so se la mia sensazione di meraviglia venga dal fatto di averla ascoltata per la prima volta dopo giornate di ininterrotto ascolto di Händel e Vivaldi o da semplice ignoranza; certo è che trovo affascinante come il fiammingo Agricola sia riuscito a rimanere totalmente immune dalla musica che deve avere avvolto le sue orecchie nei suoi anni in Italia, in Francia e in Spagna (segno di forte personalità?) e come sembri avervi riversato proprio tutto quello che aveva e poteva, inclusa la melodia profana e popolare di In minen sin, sempre opera sua.

Link, link.

C'è un pregevole (a cominciare dal titolo) lavoro de The King's singers dedicato alla storia della polifonia nella forma del madrigale, di qualche decennio successiva a quella di Agricola, che può servire a mettere in risalto l'unicità del fiammingo. Almeno, a me è servito.

sabato 22 gennaio 2011

Scambio/Austausch

Forma urbis Romae

Alles das ist verschwunden.
Nichts mehr da von der Pracht,
Die der Grundriß uns glauben macht.

So am Forum der Friedenstempel
Mit dem geräumigen Kartensaal.
An der Wand hing bis zur Decke,
In Marmor platten graviert,
Der älteste Stadtplan der Welt.

Nicht mehr hallen die Schritte
Der Bücherträger, die Stimmen
Der Kartographen. All das ist fort.

Siete qui sagt der Pfeil
Am Ort der Leere. – Sie sind hier.
Wo sind wir? Wer sind wir?

Wir sind das Imaginäre,
Die Agenten des Ungefähren.

Es gibt jetzt nur uns hier
Im Staub des Forum Romanum,
Da, wo vieles begann, was wir sind,
Abgesandte der reinen Absenz.

Wo sind wir? – Sie sind hier,
Sagt der Pfeil und zeigt wortlos
Den Ort an, die Grube zu Füßen.
Doch da ist nur das Erdreich.

Wann sind wir? fragt sich im stillen,
Der auf schwankendem Boden steht.
Wir sind hier. Jetzt sind wir.

Durs Grünbein


Tutto ciò è scomparso.
Nessuna traccia dello splendore
che la pianta architettonica ci induce a credere.

Così nel foro del Tempio della Pace
con la sua ampia sala della mappa.
Alla parete era appesa, fino al soffitto,
scolpita su lastre di marmo,
la mappa cittadina più antica del mondo.

Non più risuonano i passi
dei portatori di libri, le voci
dei cartografi. Tutto ciò è passato.

Siete qui dice la freccia
nel luogo del vuoto. – Siete qui.
Dove siamo? Chi siamo?

Siamo l'immaginario,
gli agenti dell'approssimazione.

Ora ci siamo solo noi qui
nella polvere del foro romano,
là dove iniziò molto di quello che siamo,
inviati della pura assenza.

Dove siamo? – Siete qui,
dice la freccia e indica muta
il luogo, la tomba in basso.
Solo là c'è ora il regno terrestre.

Quando siamo? si chiede in silenzio
chi sta su terra che trema.
Siamo qui. Ora siamo.


1186 frammenti in 1 banca dati

*

Porta Westfalica

Una giornata di nuvole, a Minden,
su un taxi che mi porta
in cerca di queste due parole.
Chiedo in giro e nessuno sa
cosa indichino - esattamente, dico -
che luogo sia, dove, se una fortezza
o una chiusa. Eppure il nome brilla
sulla carta geografica, un barbaglio,
nel fitto groviglio consonantico, che lancia
brevi vocali luminose, come l'arma
di un uomo in agguato nel bosco.
Si tradisce, e io vengo a cercarlo.
Il panorama op-art si squaderna tra alberi
e acque, mentre i cartelli indicano ora
una torre di Bismark, ora il mausoleo di Guglielmo,
la statua con la gamba sinistra istoriata
dalla scritta: "Manuel war da",
incisa forse con le chiavi di casa, tenue
filo dorato sul verde del bronzo,
linea sinuosa della firma, fiume
tra fiumi. Lascio la macchina, inizio a camminare.
Foglie morte, una luce mobile, l'aria gelata,
la fitta di una storta alla caviglia,
io, trottola che prilla, io,
vite che si svita. Nient'altro.
Eppure qui sta il segno, qui
si strozza la terra,
qui sta il by-pass, il muro
di una Berlino idrica in mezzo
a falde freatiche, bacini artificiali,
e la pace e la guerra e la lingua latina.
Niente. E mentre giro nella foresta penso
all'autista che attende perplesso,
all'autista che attende perplesso
e ne approfitta per lavare i vetri
mentre nel suo brusìo
sotto il cruscotto scorre sussurrando
il fiume del tassametro, l'elica del denaro,
diga, condotto, sbocco, chiusa dischiusa, aorta,
emorragia del tempo e valvola mitralica,
Porta Westfalica della vita mia.

Valerio Magrelli


Ein Wolkentag, in Minden,
in einem Taxi, das mich mitnimmt
auf die Suche nach diesen zwei Wörtern.
Ich höre mich um und keiner kann mir sagen,
was sie bezeichnen – genau, meine ich –
was für ein Ort das ist, wo das ist, ob das eine Festung
oder eine Schleuse ist. Und doch glänzt dieser Name
auf der Karte, eine Blendung
im dichten Konsonantengewirr, das kurze
leuchtende Vokale wirft, wie die Waffe
eines Mannes, der im Wald lauert.
Er verrät sich und ich mache mich auf die Suche nach ihm.
Das Op-Art Panorama zerblättert sich zwischen Bäumen
und Gewässern, während die Schilder
einen Bismarckturm oder das Wilhelms-Grabmal anzeigen,
das linke Bein der Statue dekoriert mit der Aufschrift:
"Manuel war da", vielleicht
mit den Wohnungsschlüsseln eingeritzt, dünner
goldener Faden auf dem Grün der Bronze,
geschwungene Linie der Unterschrift, Fluß
unter Flüssen. Ich verlasse das Auto, gehe zu Fuß.
Abgestorbene Blätter, ein bewegliches Licht, die eiskalte Luft,
der Schmerz eines verstauchten Fußknöchels,
ich Kreisel, der kreiselt, ich
Schraube, die aufspringt. Nicht mehr.
Und doch hier ist das Zeichen, hier
verengt sich die Erde,
hier ist der Bypass, die Mauer
eines Wasser-Berlin inmitten
von Grundwassern, künstlichen Becken
und der Frieden und der Krieg und die lateinische Sprache.
Nichts. Und während ich im Wald wandere denke ich
an den Fahrer, der ratlos wartet,
an den Fahrer, der ratlos wartet
und die Gelegenheit die Scheiben zu putzen nützt,
während in seinem Gemurmel
unter dem Armaturenbrett flüsternd fließt
der Fluß des Taxameters, der Propeller des Geldes,
Damm, Leiter, Mündung, entschlossene Schleuse, Aorta,
Hämorrhagie der Zeit und Mitralklappe,
Porta Westfalica meines Lebens.

Porta

venerdì 21 gennaio 2011

Voi ricordate, naturalmente

Voi ricordate, naturalmente, che il 21 gennaio del 1921, a Livorno, nacque il PCd'I.


Quando è stata scattata questa foto avevo due mesi e due giorni. Da adolescente, avrei saputo seguire un'analisi storica delle posizioni di Tasca e Terracini e forse anche scrivere almeno una pagina, con parole semplici, ma abbastanza precise, sulle principali differenze tra Bordiga e Gramsci. Ora non più. Stasera, risfogliando per l'occasione vecchi libri, ho trovato conferma che, come nell'adolescenza, Raskol'nikov non mi fa pensare ad un politico e diplomatico sovietico e mi sono soffermata su parole come: И если мы, относясь ныне к другим средневековым художественным произведениям только как к объекту изучения, к «Божественной комедии» подходим, как к источнику художественного восприятия, то происходит это не потому, что Данте был флорентийским мелким буржуа XIII столетия, а в значительной мере, несмотря на это обстоятельство (*).  E come queste: Вы помните, конечно, «Новое Слово» — лучший из старых легальных марксистских журналов, в котором сотрудничали многие из марксистов старшего поколения, в том числе и Владимир Ильич. Журнал этот, как известно, вел дружбу с декадентами...

- [...] Voi ricordate, naturalmente, il Novoe Slovo, la migliore delle vecchie riviste marxiste legali, al quale collaboravano molti marxisti della vecchia generazione, tra cui anche Vladimir Il'ič. Questa rivista, come noto, aveva fatto amicizia coi decadenti. Come si spiegava la cosa? Col fatto che a quel tempo i decadenti costituivano una corrente giovane e perseguitata della letteratura borghese. Il fatto d'essere perseguitati li spingeva verso il nostro spirito d'opposizione, il quale, naturalmente, aveva tutt'altro carattere. Eppure i decadenti furono nostri contemporanei "compagni di strada". Anche in seguito le riviste marxiste (di quelle semimarxiste non è neppure il caso di parlare), il Prosveščenie compreso, non avevano alcuna rubrica letteraria "monolitica" e riservavano largo spazio ai "compagni di strada". Si poteva essere in questo senso più severi o più condiscendenti, ma una politica monolitica nel campo dell'arte era impossibile per l'assenza degli elementi artistici necessari.
Ma non è questo che Raskol'nikov vuole. Nelle opere d'arte egli ignora proprio ciò che le rende tali. La cosa si è espressa nel modo più chiaro nel suo straordinario giudizio su Dante. La Divina commedia, a suo dire, è preziosa per noi proprio perché permette di capire la psicologia di una classe determinata di un'epoca determinata. Porre così il problema significa cancellare semplicemente la Divina commedia dalla sfera dell'arte. Forse è tempo di farlo, ma allora bisogna capire con chiarezza la sostanza della questione e non avere paura delle conseguenze. Se dico che il significato della Divina commedia è quello di permettermi di capire lo stato d'animo di determinate classi in un'epoca determinata, io la trasformo in un documento storico soltanto, poiché come opera d'arte la Divina commedia deve dire qualcosa ai miei propri sentimenti e stati d'animo.
La Divina commedia può agire su me in modo opprimente, nutrire in me il pessimismo, lo sconforto, o, al contrario, esaltarmi, entusiasmarmi, animarmi... Questo è appunto il rapporto fondamentale tra il lettore e l'opera d'arte. Naturalmente, nulla proibisce al lettore di presentarsi in veste di ricercatore e di trattare la Divina commedia soltanto come un documento storico. È chiaro, tuttavia, che questi due punti di vista si trovano su due piani diversi, che sono sì legati tra loro, ma che non si coprono reciprocamente. In che modo è pensabile un rapporto non storico, ma immediatamente estetico tra noi e quest'opera medievale italiana? La cosa si spiega col fatto che la società di classe, nonostante tutta la sua mutevolezza, ha alcune caratteristiche generali. Le opere d'arte che si sono formate nella città medievale italiana possono quindi comunicare sentimenti anche a noi. Che cosa si richiede perché questo avvenga? Non molto: che questi sentimenti e stati d'animo raggiungano un'espressione così vasta, intensa e possente che li sollevi sopra la limitatezza della vita del tempo. Naturalmente, anche Dante è il prodotto di un determinato ambiente sociale. Ma Dante è un genio. Egli solleva le esperienze interiori della sua epoca ad un'altezza poetica enorme. E se noi, mentre oggi trattiamo le altre opere d'arte medievali soltanto come oggetto di studio, consideriamo invece la Divina commedia come una fonte di percezione poetica, ciò avviene non perché Dante fu un piccolo-borghese fiorentino del XIII secolo, ma in notevole misura nonostante questa circostanza (*). Prendiamo, ad esempio, un sentimento fisiologico elementare come la paura della morte. Questo sentimento è proprio non solo agli uomini, ma anche agli animali. Negli uomini esso ha trovato un'espressione dapprima semplicemente articolata, e poi anche poetica. Nelle varie epoche, nei vari ambienti sociali questa espressione è mutata, cioè gli uomini hanno temuto la morte in vario modo. Eppure, ciò che a questo proposito è scritto non soltanto in Shakespeare, in Byron, in Goethe, ma anche nel salmista è capace di comunicarci sentimenti.

- (Esclamazione del compagno Libedinskij).

- Sì, sì, sono entrato proprio nel momento in cui lei, compagno Libedinskij, stava spiegando al compagno Voronskij nei termini dell'abbicì politico (è lei che si è espresso così) che i sentimenti e gli stati d'animo delle varie classi sono mutevoli. In questa forma generale la cosa è indubbia. Non vorrà negare, però, che Shakespeare e Byron dicono qualcosa alla nostra anima.

Libedinskij - Ancora per poco.

- Se per poco non so, ma è indubbio che verrà un'epoca in cui gli uomini considereranno le opere di Shakespeare e di Byron come noi consideriamo i poeti medievali, cioè esclusivamente dal punto di vista dell'analisi storico-scientifica. Ancora prima, però, verrà il tempo in cui gli uomini cesseranno di cercare nel Capitale di Marx ammaestramenti per la loro attività pratica e il Capitale non sarà che un documento storico, come il programma del nostro partito. Ma adesso noi non ci proponiamo di mettere in archivio Shakespeare, Byron e Puškin, e continueremo a raccomandarne la lettura agli operai. Il compagno Sosnovskij, ad esempio, raccomanda intensamente Puškin, dichiarando che una cinquantina d'anni può senz'altro durare. Non parliamo delle scadenze. Vediamo, invece, in che senso possiamo raccomandare Puškin a un operaio. In Puškin non c'è un punto di vista proletario di classe, e tanto meno c'è un'espressione monolitica di stati d'animo comunisti. Naturalmente, la lingua di Puškin è magnifica, ma questa lingua gli serve per esprimere una visione aristocratica del mondo. Andremo a dire all'operaio:  leggi Puškin per capire come un nobile proprietario di servi della gleba e gentiluomo di camera accoglieva la primavera e si accomiatava dall'autunno? Naturalmente, in Puškin c'è anche questo elemento, poiché Puškin è cresciuto su una radice sociale determinata. Ma l'espressione, che Puškin dava ai suoi stati d'animo, è così satura di un'esperienza poetica o, in generale, psicologica di secoli, è così universalizzata che è durata fino ai nostri tempi e, secondo le parole del compagno Sosnovskij, durerà ancora una cinquantina d'anni. E quando mi dicono che il significato poetico di Dante per noi è determinato dal fatto che egli esprime il modo di vita di una determinata epoca, non si può che restare perplessi. Sono convinto che molti come me, leggendo Dante, dovrebbero sforzare assai la memoria per ricordare il tempo e il luogo della sua nascita, eppure questo non impedirebbe di ricevere un piacere estetico, se non da tutta la Commedia, almeno da alcune sue parti. Poiché non sono uno storico della cultura medievale, il mio rapporto con Dante è principalmente poetico.

Rjazanov - È un'esagerazione. "Leggere Dante è come bagnarsi in un mare", disse contro Belinskij Ševyrëv, il quale pure era contro la storia.

- Non dubito che Ševyrëv abbia detto veramente così, come afferma il compagno Rjazanov, ma io non sono contro la storia: questo è ingiusto. Naturalmente, il punto di vista storico su Dante è legittimo e necessario e influisce sul nostro rapporto estetico con lui, ma non si può sostituire l'uno con l'altro. Ricordo quello che a questo proposito Kareev scrisse in polemica coi marxisti: che i marxidi (così egli allora appellava ironicamente i marxisti) ci mostrino in che modo gli interessi di classe hanno dettato la Divina commedia. E, d'altro lato, un marxista italiano, il vecchio Antonio Labriola, scrisse all'incirca così: "Cercare di interpretare il testo della Divina commedia coi conti delle pezze di panno, che gli astuti mercanti fiorentini spedivano ai loro committenti, è cosa che possono fare dei semplicioni soltanto". Ricordo questa frase quasi letteralmente perché in polemica coi soggettivisti m'è toccato citare più volte queste righe negli anni andati. Credo che il compagno Raskol'nikov consideri non con un criterio marxista, ma col criterio del defunto Šuljatikov, che in questo campo era la caricatura del marxismo. Contro questa caricatura ha detto la sua parola forte Antonio Labriola. [...]

Intervento pronunciato da Lev Trotsky nella riunione sulla letteratura indetta nel maggio del 1924 dalla Sezione Stampa del CC del PCR, tratto da Letteratura e rivoluzione, a cura di Vittorio Strada, Einaudi, 1973 e ripubblicato in Lev Trotsky, Scritti sull'Italia, Erre emme, 1990

mercoledì 19 gennaio 2011

Dizionario di tutte 'e cose - E come Esperimenti

Per poter vedere tantissime barche a vela di diversi colori e stazze che si incrociano e si allontanano in mille direzioni diverse anche quando non c'è un alito di vento e persino quando il mare è lontano, si ripercorra mentalmente, mentre ci si sta dirigendo verso un luogo abbastanza affollato, questa poesia, avendo come sola cura quella di concluderla nel momento in cui si svolta l'ultimo angolo di casa che ancora separa gli occhi dalla visione di una folla di passanti in movimento:

..................................
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l'onda che ammorza
Ne l'onda volubile smorza
Ne l'ultimo schianto crudele
Le vele le vele le vele

Dino Campana, Barche amorrate

Gli sperimentatori più audaci, una volta svoltato l'angolo, la declamino ad alta voce.

lunedì 17 gennaio 2011

Arminius/Hermann

Bekannt ist sein Ausspruch, er habe Arminius "von hertzen lib. Wenn ich ein poet wer, so wolt ich den celebriren. Hat hertzog Herman geheißen".
Den neuen Namen leitete Luther aus der lateinischen Bezeichnung "dux belli" (Anführer im Krieg) ab, die er mit "Heer man" übersetzte, einen Mann "der zum heer und streit tüchtig ist, die seinen zu retten und forn an zu gehen".

Ralf-Peter Märtin, Die Varusschlacht. Rom und die Germanen, S. Fischer, 2009

È noto il suo detto per cui Arminio gli sarebbe stato "caro al cuore. Se fossi un poeta, così vorrei celebrarlo. Si è chiamato duca Herman".
Il nuovo nome Lutero lo derivò dalla denominazione latina "dux belli" (comandante in guerra), che egli tradusse con "Heer man", un uomo "capace, nell'esercito e nella battaglia, di salvare i suoi e di avanzare".

Quattro cose:
1. È un libro ricevuto in regalo da cari amici, quindi di per sé speciale. È anche bello, specie nella parte dedicata ai secoli successivi alla battaglia di Varo, alla nascita del mito di Arminius/Hermann e al suo utilizzo nel tempo. Un mito nato per colpa degli italiani, perché i tedeschi, per 15 secoli, avevano praticamente dimenticato persino il nome di Arminio. La riscoperta ebbe inizio nei primi del '500, per colpa (o grazie, come vedremo) di un cacciatore di manoscritti italiano, che trovò i primi sei libri degli Annali di Tacito nella biblioteca del monastero di Corvey, in Renania Settentrionale. Erano sfuggiti all'opera di setaccio fatta tre quarti di secolo prima da parte di un altro italiano più famoso, Francesco Poggio Bracciolini, segretario della cancelleria papale, cacciatore anch'egli (e ladro) di manoscritti un po' ovunque, a St. Gallen, Reichenau, Fulda e Colonia, da dove prelevò ignoti discorsi di Cicerone, frammenti del Satyricon di Petronio, scritti di Quintiliano e i dieci volumi sull'architettura di Vitruvio. Non che il setaccio di Bracciolini fosse stato mal fatto: si era semplicemente rifiutato categoricamente di inoltrarsi nella Germania del nord, quindi non passò per Corvey. Dal suo punto di vista, tra l'altro, non si trattava di furti: la sua era una missione per salvare e liberare le opere greche e latine dalle "carceri dei barbari". Ma sto divagando. Il punto è che se i sei libri degli Annali non fossero arrivati in Vaticano, non li avrebbe più trovati nessuno: qualche anno dopo il loro ritrovamento, infatti, un incendio ridusse in cenere la biblioteca di Corvey. E invece, grazie al loro arrivo in Vaticano e alla loro pubblicazione, Ulrich von Hutten potè leggerli, restare folgorato dalle parole di Tacito, secondo cui Arminio era stato il liberatore della Germania invitto in guerra (liberator Germaniae (...), bello non victus) e dare origine alla sua mitizzazione.
2. Notare Anführer. Führer in effetti a volte crea problemi, a volte no, e non è banalissimo capire quando lo fa - nel contesto bellico qui, pur se distante, probabilmente li avrebbe creati. Lager non crea alcun problema (è un magazzino), mentre Zone li crea, ma per motivi postbellici: era associata con le Besatzungszonen, le zone di occupazione della Germania occupata.
3. Quando si commettono degli errori di ortografia, ci si potrebbe giustificare facilmente, avendo cura di assestarli bene e con una certa coerenza, con un uso voluto della lingua del Cinquecento.
4. Non mi sento affatto rassicurata dalla digitalizzazione dei testi rispetto al rischio della perdita dei libri. Continuo a soffrire incongruamente della sindrome da biblioteca di Alessandria. Immaginiamoci per un attimo - è questo l'incubo che alimenta tuttora la sindrome - se uno come George Dabliu, nelle sue ore di studio, che devono essere molto lunghe da quando non è più presidente, si mettesse a maneggiare, oltre ai Bretzel, anche un prototipo di virus sviluppato dalla CIA e scartato perché inefficace contro i cervelli delle sale operative dei reattori nucleari iraniani, ma dagli ignoti effetti collaterali, devastanti per i PDF.

domenica 16 gennaio 2011

Ancora sul Teatro Libero di via Savona

Corrado d'Elia ha deciso di andare avanti e io ho deciso, nel mio piccolo, da lontano, di continuare a seguire a distanza le vicende del suo teatro con l'affetto che gli devo per quello che mi ha regalato quando vivevo a Milano.

Prima di tutto, gli appelli di chi conta.





E ora quel che posso dire io. Da quello che sono riuscita a capire, le produzioni del Teatro Libero di via Savona sono ancora ospitate da altri teatri milanesi, tra i quali si è reso disponibile il Teatro Franco Parenti di Andrée Ruth Shammah, altro piccolo grande teatro milanese. Nel frattempo, per tentare di riaprire la sua storica sede, il Teatro Libero di via Savona sta cercando soldi, quelli che il Comune di Milano si sarebbe offerto di dare, ma che non ha o che forse aveva ma ha preferito destinare ad altro. Non c'è da stupirsene. Per fare un unico esempio concreto senza annoiare con cifre o bilanci, ho letto recentemente, credo sul quotidiano La Stampa, che l'Italia, con l'ultima legge passata in Parlamento, destinerebbe a tutta l'opera lirica rappresentata dai teatri lirici dell'intero territorio nazionale l'equivalente di quello che la Francia destina al solo teatro dell'Opéra. E se a tutta la lirica italiana va così, figuriamoci cosa resta ad un piccolo teatro di prosa come il Teatro Libero.

Non c'è da stupirsene, ma non è un buon motivo per desistere.

Qualcuno penserà alle priorità del Paese, alla criminalità organizzata e alla corruzione, agli operai della Fiat cui è stata data una gran bella libertà di scelta, alle aziende che chiudono senza che se ne spenda una parola, alla disoccupazione giovanile, al trattamento che viene offerto agli immigrati, ai dimenticati delle alluvioni e dei terremoti, a chi vive in mezzo alla monnezza o in periferie degradate, alla ricerca che si continua a non voler fare, o anche solo al piccolo particolare che Milano, nell'ultimo decennio, è la città che è riuscita a fare eleggere in uno dei suoi Collegi del Senato un candidato che risponde al nome di Marcello Dell'Utri, ecc. ecc.

Tutto vero.

Eppure, tra le priorità di Milano, e quindi del Paese, c'è anche il Teatro Libero di via Savona. Perché se riapre il Teatro Libero di via Savona, vuol dire che ci può andare della gente. E se ci può andare della gente, quella gente torna a casa la sera un po' più ricca di idee e di pensieri. E magari la mattina dopo parla con dell'altra gente, che a sua volta comincia ad andare al Teatro Libero di via Savona o, trovandolo esaurito, decide di andare - per esempio - al Teatro Franco Parenti. E magari poi alcuni di quelli che hanno passato la serata al Teatro Libero di via Savona o - per esempio - al Teatro Franco Parenti l'indomani passano in libreria o in biblioteca a cercare il testo dell'opera teatrale vista al Teatro Libero di via Savona o - per esempio - al Teatro Franco Parenti. E magari qualcuno di questi si mette a parlare in giro del testo teatrale, che - non dimentichiamocelo - parla di libertà o di giustizia o di verità o di cose così, o del suo autore (a questo punto il testo e l'autore andrebbero già declinati al plurale, essendo almeno due i teatri già coinvolti). E magari a qualcuno delle persone che ne hanno sentito parlare viene voglia di leggere il testo originale, perché non è da escludere che almeno uno dei testi sia una traduzione da un'altra lingua. E magari a qualcuno di quelli cui è venuta voglia di leggere il testo in originale si iscrive ad un corso di lingue. O magari un giorno al cinema arriva la trasposizione cinematografica dell'opera teatrale. E magari in quel cinema danno anche una rassegna di un regista di cui da tempo non si vedono più i film, o di un giovane regista emergente, così magari qualcuno inizia a frequentare quel cinema. E magari in una scena di un film che danno in quel cinema ci sono due che parlano della bellezza della matematica, o che guardano le stelle di una costellazione che si vede solo nell'emisfero australe o che riescono a comunicare tra loro solo con la forza del pensiero o che, viaggiando nel tempo, piombano nell'Atene di Pericle, in mezzo all'agorà, nell'ora di punta. E magari, solo perché qualcuno è andato al Teatro Libero di via Savona, si comincia a studiare seriamente la matematica, l'astronomia, la psicologia o la storia o la filosofia e così via e magari si cerca di praticare, ognuno nel proprio ambito e nonostante la desolazione del quadro generale, la libertà e la giustizia e la verità e cose così. 

Magari.

O magari, per non cadere troppo nella tentazione delle grandi utopie e restare piuttosto ai piccoli fatti quotidiani, lungo il percorso che conduce tutte queste persone a teatro o in libreria o in biblioteca o alla scuola di lingue o al cinema, o magari in ognuno di questi posti, c'è un barista, una cassiera o un altro frequentatore del posto o solo un passante che passa di lì per caso con cui ci si trova a scambiare qualche chiacchiera nell'attesa di entrare. E magari ci si dimentica improvvisamente dello spettacolo teatrale, del suo testo, della lingua o del film e ci si innamora del barista, della cassiera o del frequentatore o del passante.

O magari chissà che altro può capitare, solo perché alcuni possono andare al Teatro Libero di via Savona. 

101 ragioni per imparare l'ungherese - 19

Perché può capitare a tutti di finire nel freddo e nell'estraneità di una via di Vienna senza aver attraversato i pensieri di nessuno, ma se non ci mettiamo ad imparare l'ungherese, noi che rizziamo le orecchie al solo suono della musica di Mozart restando indifferenti ai tamburi delle tribù vicine, rischiamo, al posto di ascoltare dalla sua viva voce le parole di un poeta che ci parla appoggiato ad una colonna di una chiesa con il Requiem sullo sfondo, di doverci accontentare sempre e solo di una loro versione inglese, ad esempio quella di Paul Sohar, che in ogni caso, per tutto il lungo tempo che ci separa dal momento - se mai arriverà - in cui potremo forse dire di aver imparato un po' l'ungherese, ringraziamo di tutto cuore.


Halottak napja Bécsben

Befonnak egyszer téged is
valami pompás koszorúba
idegen lesz majd és hideg
minden akár e bécsi utca
elgurulsz mint egy villamos
utánad felgörbül a vágány

kutyatej páfrány
tör át a járdán

kit érdekel hogy erre jártál

Oszlopnak vetett háttal
hallgattam az ágoston-rendiek
fehérre meszelt templomában
hallgattam a rekviemet

Mert a legárvább akinek
még halottai sincsenek
bora ecet könnye torma
gyertyájának is csak korma
álldogálhat egymagában
kezében egy szál virággal
mert a legárvább akinek
még halottai sincsenek

Mondják hogy ítéletidő tombolt
összeért a temető s a mennybolt
vízszintben állt ösvénnyel az árok
egymást se látták a gyászhuszárok
toccsantak térdig tövig derékig
senki se látta mégis beszélik
és a sírok is mint a leláncolt bárkák
táncoló farukat föl-le-föl dobálták
volt minden egérlyuk gurgulázó korsó

s hogy elúszott volna akkor a koporsó

dunából tengerbe
ki az óceánra
dunából tengerbe
ki az óceánra

úszik a koporsó
zene a vitorla
úszik a koporsó
zene a vitorla

Menjen innen kis vörös gömböc
rúgott felé a fitos kis kóristalány
és wolfgang amadeus mozart
a megszégyenítéstől még vörösebben
kioldalgott az öltözőből
a gnädige frau nem győzte várni
a kocsi nemsokára visszajön
hajolt földig a cseh portás
és wolfgang amadeus mozart
kilépett az utcára
föltekintett a csillagokra
a csillagok épp akkor kezdtek
fürödni a fölérkezett muzsikában
és wolfgang amadeus mozart
megtörülgette homlokát
és nekivágott gyalog

dunából tengerbe
ki az óceánra
úszik a koporsó
zene a vitorla

Mit szólhat isten amikor
heréltek zengik az ő dicsőségét
csupa semleges hang neutrum
neutrum neutru-u-um

Mondják sőt írja az histoire de la musique
encyclopédie de la pléiade egyébként
kolozsvárott a vasile alecsandri tíz szám alatt
lakó dr schuller rudi barátom bárkinek aki
franciául nem értené szívesen magyarra né-
metre vagy románra fordítja azt a részt
hogy a nagy utazók les grands voyageurs állítása
szerint a legistenhátamögöttibb les plus lointaines
civilizációk bennszülöttei akik a szomszédos
törzs tamtamja iránt is teljesen közömbösek valának
egyedül mozart zenéje hallatán kezdték
hegyezni a fülük

Fehér templomokban
fehér imádságot
hej regő rejtem

fekete templomban
fekete imát
hej regő rejtem

fehér templomokban
fekete imát
hej regő rejtem

fekete templomban
fehér imádságot
hej regő rejtem
azt is megadhatja
az a nagy úristen

Gágogó ludakkal
hápogó récékkel
tetves csirkékkel
varas malaccal egy-
közös tenyérnyi udvarról
alkoholmámorban fogant
koszos kis kölykök
serege bámul
a hangnál sebesebben
tovaívelő gépek egére

szállj le világ
állj meg világ
sohase érünk utol

Oszlopnak vetett háttal
hallgattam az ágoston-rendiek
fehérre meszelt templomában
hallgattam a rekviemet

Dies irae dies illa
szórhat szikrát a favilla
festve divat a szempilla

megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni

az a nap ha mégis eljő
lobbot vet égnek a felhő
lábon lángol minden erdő

tüzet immár sokat láttunk
égő várost is csodáltunk
poklok poklára is szálltunk

megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni

csak a bíró késett eddig
bűn bűn alól új bűnt vedlik
s nem tudhatjuk vajon meddig

tartatunk ítélet nélkül
s mint bűnhődtünk azt is végül
nem róják-e vissza vétkül

megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni
megásni tűz elföldelni

lám a kétség belénk dobban
hihetünk-e vajon abban
mi sem marad megtorlatlan

Ezerkilencszáznegyvennégy június másodikán
nagyvárad szőnyegbombázásakor egy anyának
négy szép gyermeke maradt a romok alatt
kettő négy hat nyolc
éves korukban ölték meg őket
mondja el minden esztendőben a feleségem
amikor idáig és a naptár-igazítással
ez az ő békeverse

poklot miattuk ki reszket
aki győzött aki vesztett?

bűn a vég és bűn a kezdet

Kezdem megszokni hogy a kéz
nehezen moccan kézfogásra
elmarad vidám parolája
s a tekintet semmibe néz

még szelídnek indul a szó
de már a mondat enyhén karcos
és sejteti a riadót
mely mindnyájunkra annyi bajt hoz

jó volna kezet rázni ismét
s a vállat átölelni testvér
mielőtt bután el nem esnék
mielőtt bután el nem esnél

Én királyom nagy királyom
ki születtél kolozsváron
gyertyámat most érted gyújtom
szál virágom néked nyújtom

mennyben s pokolban szószóló
légy érettünk közbenjáró

Fölséges uram kend
hogyha férkőzése
volna közelébe
kérje meg odafent

hogy vetne már véget
a nagy protokollnak
dolgaink romolnak
s bizony hogy avégett

s lenne védelmünkre
hogy ne kéne nyelvünk
féltünkben lenyelnünk
s önnön szégyenünkre

Küküllő-angara
maros-mississippi
küküllő-angara
maros-mississippi

hazamegyek haza
már maga se hiszi
hazamegyek haza
már maga se hiszi

szóródik folyton porlódik
él pedig folyton porlódik
szabófalvától san franciscóig
szabófalvától san franciscóig

Uram ki vagy s ki mégse vagy
magunkra azért mégse hagyj
ajtódon félve kaparász

kis szárnyával e kis fohász
gyermeki hangon gügyöget
dícsértessék a te neved

Aj miféle népek volnánk
szégyentől mért ég az orcánk
mivel vétettünk mi többet
mint akár a legkülönbek

vén zsidók ószövetségi
nyelvével kéne most élni
de hallgatunk senki sem mer
feleselni az istennel

verjed bartók verd a dobot
frakkod szárnya tüzet fogott
ég a kunyhó ropog a nád
tüzet fogott ég a világ

Harmincnyolc éves voltam amikor
krisztina a majdnemhogy meztelen
szép stájer lány egy pohár whiskyre
hívott engem a singerstrasse sarkán
szegény vagyok szívecském s idegen
macht nichts mondta halottak napja van
megittunk aztán kétszer két felet
az zsuzsanna az szép német leány
bécsben lakik tiefengrab utcáján
was für ein gedicht
vier jahrhunderte alt
piros rózsa tündöklik orcáján
szép kaláris tetszik az ajakán
kit sok vitéz kíván

szép voltát csudálván
de csak heában szeretik sokan
lennék ma néked ingyen a zsuzsannád
de gyász a gyász halottak napja van
többet szólnom dolgunkról nem szükség
csókot adott kedvesen cuppanósat
s intett elég ha két schillinget
hagyok a ruhatárnál

Hallgattam hát oszlopnak vetett háttal
az ágoston-rendiek
fehérre meszelt templomában
hallgattam a rekviemet

Volt egy kevéske földünk-kertünk
isten előtt se térdepeltünk
üggyel-bajjal de megvalánk
panaszra nem nyílott a szánk
fohászra is inkább szokásból
s hogy őrizne meg a kaszástól

Rólam is majd emlékezzél
megvizült hátamon az ing
mint a bujdosó kossuth lajosén
mikor a törökhöz folyamodott
megvizült hátamon az ing
olyan egy beszédet vágtam ki én is
rossz lábom a kapunyílásba vetve
nehogy becsaphassa az orrom előtt
mert akkor oda az egész virrasztás
égen volt még a
hajnalcsillag amikor
odaültem a kapujába
nehogy elszalasszam ma is
megvizült hátamon az ing
akár a szegény kossuth lajosén
fél kezemmel a kapukilincsen a másikkal
botomat szorongattam mint a torkomat
a visszanyelt szavak
finomnak kellett lennem
különben nem érek célt
s ott rothad a kicsi rossz szénám
akárcsak a tavaly a kicsi rossz
szénám amit a tagútban kaszáltam
a tagútban s harmadában amit régebben
nagyidő elleni harangozás fejében
a minden háztól kijáró kupa
búza mellé ingyen jussolt a
falutól a harangozó
megvizült hátamon az ing
amíg kértem a mérnök urat
adna egy fogatot
arat a nép
mindenki a mezőn
áll az iga
ingyen eszik a ló
közérdek is hogy az a kicsi rossz
széna födél alá kerüljön
a harmada csak az enyém
a harmada
majd meglátjuk úgy dél felé
hé-te-hé hé-te-hé
suhintotta felém a szót
úgy dél felé
hogy suhant volna válaszul a bot
de akkor oda a cél a kicsi
rossz szénám hé-te-hé csavarni
lehetett volna az inget a hátamon
mint a szegény bújdosó kossuth lajosén
ott égje el a tűz
vagy ott rothadjon ítéletnapig

s már nem is a lába
a botja hozza
az én hetvenen túli
földig alázott
édesapámat

Róla is majd emlékezzél
akiért a földre jöttél
jézus meg ne feledkezzél

adjad hogy jó véget érjen

de szándékod felől kérdezd meg
mielőtt harsonáid megfúvatnád

Rikitó rézpetúniák
szirmain gyémánt harmat
fürdőző pufók angyalok
tomporára rápall a karnagy
mise és mese csörgedez
eltrillázgat a szoprán
és földöntúli édeni
nyugalmat balzsamoz rám

párától glóriás
puliszka-óriás

susog a tej
surrog a tej
csobog a tej
a bársonyos
az édes

csak ennyi kell
csak enni kell
csak ennyi kell
az esti
üdvösséghez

mise és mese csörgedez
köcsögök cserépfazekak
messzi beszéde hallszik

kérődző kedves bivalyokra
gondol a tej
s megalszik

Tu esti vapaie fara grai
de dincolo de matca mumii
te vagy a láng a szótalan
az áldott anyaméhen túli
világvégét érintő angyalok
szárnyaitól szoktál kigyúlni

ó itt maradnom adj erőt
örökre itt legyek megáldott
hol sötéten enyésznek el
gyilkos hiábavalóságok

nem tudhatja század se szem
oly mélyre nem lát olyan távol
hová fészkemre menekít
egy tűzpillangó a halálból

Befonnak egyszer téged is
valami pompás koszorúba
idegen lesz majd és hideg
minden akár e bécsi utca
wie die glocken ihren schall verloren
felejted hamar minden örömöd

Akarva nem akarva
itt meg kell állanunk
valami eltakarta
vezérlő csillagunk

pedig sehol egy felhő
nincs egy tenyérnyi folt
más csillag sincs ha feljő
egymaga lesz a hold

ormok és tornyok dőlnek
egymásra hangtalan
minden ránca a földnek
kisímul boldogan

ki elkezdett bevégez
nincs gondunk ezután
talpunk alatt a csöndes
gömbölyű óceán

Ahogy a harangok a harangszót
felejtem hamar minden örömöm

bort ide angyalkák az ajtóm elibe
világból válni akarok
szabadok közé szállni

Utána már semmi sem következhet
csak a lebegés olyan szegényen
akár egy hidrogénatom
de megkísérthet még a félsz
ha netán eszükbe jutna
elvenni az egyetlen megmaradt
elektronunkat is
így legalább
megvolna még a remény a tíz-húsz
milliárd évnyi jövendőbe vethető
hit a feltámadásra
vagy valami ahhoz hasonlóra

Kányádi Sándor, 1978

*

È un po' come ringraziare di cuore Süßmayr per il suo lavoro, ma poter gioire - come mai si sarebbe pensato di poter più provare per una musica stranota - all'ascolto del Requiem interpretato da Frieder Bernius, Carus-Verlag, 2000.