venerdì 14 gennaio 2011

Comunicazione di servizio

Niente paura, ritorno alle poesie non appena possibile. La prosa è meglio che la lasci ad altri, altrimenti sì che ci sarebbe da prendere paura: alla ricerca di qualcosa che non sia mai* stato consigliato dal New York Times, stasera ho cominciato Le confessioni di un italiano.



*Quasi mai (4 volte in 160 anni, tra cui la prima volta che è stato pubblicato fin ingdese):


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Due fazioni

Intanto il patriziato friulano cominciava a dividersi in due fazioni; l'una paesana, piú rozza, piú selvatica, e meno propizia alla dominazione dei curiali veneziani; l'altra veneziana, cittadinante, ammollita dal diuturno consorzio coi nobili della dominante. Le antiche memorie famigliari e la vicinanza delle terre dell'Impero attiravano la prima al partito imperiale; la seconda per somiglianza di costumi piegavasi sempre meglio a una pecorile obbedienza dei governanti; ribelle la prima per istinto; impecorita la seconda per nullaggine, ambidue piucché inutili nocive al bene del paese. Cosí veggiamo parecchi casati magnatizi durare per molte generazioni al servizio della Corte di Vienna, e molti altri invece imparentati coi nobiluomini di Canalazzo ed esser onorati nella Repubblica da cariche cospicue. Ma i due partiti non s'aveano diviso fra loro le costumanze e i favori per modo che non fosse qualche parte promiscua. Anzi alcuno fra i piú petulanti castellani fu veduto talvolta andarne a Venezia per far ammenda dei soprusi commessi, o comperarne dai senatori la dimenticanza con delle lunghe borse di zecchini. E v'avevano anche dei nobiluzzi, venezievoli in città pei tre mesi d'inverno, che tornati fra i loro merli inferocivano peggio che mai; sebbene tali gradassate somigliassero piú spesso truffe che violenze, e sovente anche prima di commetterle se ne fossero assicurati l'impunità. Quanto a giustizia io credo che la cosa stesse fra gatti e cani, cioè che nessuno la pigliasse sul serio, eccettuati i pochi timorati di Dio che anco erano soggetti a pigliar di gran granchi per ignoranza. Ma in generale quello era il regno dei furbi; e soltanto colla furberia il minuto popolo trovava il bandolo di ricattarsi dalle sofferte prepotenze. Nel diritto forense friulano l'astuzia degli amministrati faceva l'uffizio dell'equitas nel diritto romano. L'ingordigia e l'alterezza degli officiali e dei rispettivi padroni segnavano i confini dello strictum jus.

Capitolo primo

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Come l'estro portava

Allora i vapori i telegrafi e le strade ferrate non avevano attuato ancora il gran dogma morale dell'unità umana; e ogni piccola società, relegata in se stessa dalle comunicazioni difficilissime, e da una indipendenza giurisdizionale quasi completa, si occupava anzi tutto e massimamente di sé, non curandosi del resto del mondo che come d'un pascolo alla curiosità. Le molecole andavano sciolte nel caos, e la forza centrípeta non le aveva condensate ancora in altrettanti sistemi ingranati gli uni negli altri da vicendevoli influenze attive o passive. Cosí gli abitanti di Fratta vivevano, a somiglianza degli dei di Epicuro, in un grandissimo concetto della propria importanza; e quando la tregua de' loro negozii o dei piaceri lo consentiva, gettavano qualche occhiata d'indifferenza o di curiosità a destra o a sinistra, come l'estro portava.

Capitolo secondo

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Quel sentimento d'uguaglianza

E lontano dai merli signorili e dall'odore della cancelleria, mi ripullulava nel cuore quel sentimento d'uguaglianza che ad un animo sincero e valoroso fa guardar ben dall'alto perfin le teste dei Re. Era il pesce rimesso nell'acqua, l'uccello fuggito di gabbia, l'esule tornato in patria. Aveva tanta ricchezza di felicità che cercava intorno cui distribuirne; e in difetto d'amici ne avrei fatto presente anche agli sconosciuti o a chi mi voleva male.

Capitolo terzo

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Portogruaro

Portogruaro non era l'ultima fra quelle piccole città di terraferma nelle quali il tipo della Serenissima Dominante era copiato e ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le case, grandi spaziose col triplice finestrone nel mezzo, s'allineavano ai due lati delle contrade, in maniera che soltanto l'acqua mancava per completare la somiglianza con Venezia. Un caffè ogni due usci, davanti a questo la solita tenda, e sotto dintorno a molti tavolini un discreto numero d'oziosi; leoni alati a bizzeffe sopra tutti gli edifici pubblici; donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per le calli e presso ai fruttivendoli; belle fanciulle al balcone dietro a gabbie di canarini o vasi di garofani e di basilico; su e giù per la podesteria e per la piazza toghe nere d'avvocati, lunghe code di nodari, e riveritissime zimarre di patrizi; quattro Schiavoni in mostra dinanzi le carceri; nel canale del Lemene puzzo d'acqua salsa, bestemmiar di paroni, e continuo rimescolarsi di burchi, d'ancore e di gomene; scampanio perpetuo delle chiese, e gran pompa di funzioni e di salmodie; madonnine di stucco con fiori festoni e festoncini ad ogni cantone; mamme bigotte inginocchiate col rosario; bionde figliuole occupate cogli amorosi dietro le porte; abati cogli occhi nelle fibbie delle scarpe e il tabarrino raccolto pudicamente sul ventre: nulla nulla insomma mancava a render somigliante al quadro la miniatura. Perfino i tre stendardi di San Marco avevano colà nella piazza il loro riscontro: un'antenna tinta di rosso, dalla quale sventolava nei giorni solenni il vessillo della Repubblica. Ne volete di piú?... I veneziani di Portogruaro erano riesciti collo studio di molti secoli a disimparare il barbaro e bastardo friulano che si usa tutto all'intorno, e ormai parlavano il veneziano con maggior caricatura dei veneziani stessi. Niente anzi li crucciava piú della dipendenza da Udine che durava a testificare l'antica loro parentela col Friuli. Erano come il cialtrone nobilitato che abborre lo spago e la lesina perché gli ricordano il padre calzolaio. Ma purtroppo la storia fu scritta una volta, e non si può cancellarla. I cittadini di Portogruaro se ne vendicavano col prepararne una ben diversa pel futuro, e nel loro frasario di nuovo conio l'epiteto di friulano equivaleva a quelli di rozzo, villano, spilorcio e pidocchioso. Una volta usciti dalle porte della città (le avean costruite strette strette come se stessero in aspettativa delle gondole e non delle carrozze e dei carri di fieno) essi somigliavano pesci fuori d'acqua, e veneziani fuori di Venezia. Fingevano di non conoscere il frumento dal grano turco, benché tutti i giorni di mercato avessero piene di mostre le saccoccie; e si fermavano a guardar gli alberi come i cani novelli, e si maravigliavano della polvere delle strade, quantunque sovente le loro scarpe accusassero una diuturna dimestichezza con essolei. Parlando coi campagnuoli per poco non dicevano: - voi altri di terraferma! - Infatti Portogruaro era nella loro immaginativa una specie di isola ipotetica, costruita ad immagine della Serenissima Dominante non già in grembo al mare, ma in mezzo a quattro fossaccie d'acqua verdastra e fangosa. Che non fosse poi terraferma lo significavano alla lor maniera le molte muraglie e i campanili e le facciate delle case che pencolavano. Credo che per ciò appunto ponessero cura a piantarle sopra deboli fondamenti. Ma quelle che erano proprio veneziane di tre cotte erano le signore. Le mode della capitale venivano imitate ed esagerate con la massima ricercatezza. Se a San Marco i toupé si alzavano di due oncie, a Portogruaro crescevano un paio di piani; i guardinfanti vi si gonfiavano tanto, che un crocchio di dame diventava un vero allagamento di merletti di seta e di guarnizioni. Le collane, i braccialetti, gli spilloni, le catenelle innondavano tutta la persona; non voglio guarentire che le gemme venissero né da Golconda né dal Perù, ma cavavano gli occhi e bastava. Del resto quelle signore si alzavano a mezzodí, impiegavano quattro ore alla teletta, e nel dopopranzo si facevano delle visite. Siccome a Venezia le gran conversazioni erano di teatri, d'opere buffe e di tenori, esse si tenevano obbligate a discorrere di questi stessi argomenti; cosí il teatro di Portogruaro, che stava aperto un mese ogni due anni, godeva il raro privilegio di far parlare di sé un centinaio di bocche gentili per tutti i ventitré mesi intermedi. Esaurita questa materia si calunniavano a vicenda con un'ostinazione veramente eroica. Ognuna, ci s'intende, aveva il suo cicisbeo, e cercava di rubarlo alle altre. Taluna portava questa moda tant'oltre che ne aveva due e perfino tre; con diritti variamente distribuiti. Chi porgeva la ventola, chi l'occhialetto, il fazzoletto, o la scatola; uno aveva la felicità di scortar la dama a messa, l'altro di condurla al passeggio. Ma di quest'ultimo divertimento erano di stile molto parche; non potendo godere le divine mollezze della gondola, e facendole raccapricciare la sola vista del barbaro movimento della carrozza, si vedevano costrette di uscir a piedi, fatica insopportabile a piedini veneziani. Qualche villanzone del contado, qualche zotico castellano del Friuli osava dire che l'era un'ultima edizione della favola della volpe e dell'uva non matura, e che già di carrozza, anche a volerla con tutte le forze dell'anima, non ne avrebbero potuto beccare. Io non saprei a chi dar ragione; ma la gran ragione del sesso mi decide a favore di quelle signore. Infatti ora vi sono a Portogruaro molte carrozze; e sí che gli scrigni nostri non godono una gran fama appetto a quelli dei nostri bisnonni. Gli è vero che a que' tempi una carrozza era cosa proprio da re; quando capitava quella dei Conti di Fratta era un carnovale per tutta la ragazzaglia della città. La sera, quando non s'andava a teatro, il giuoco produceva la notte ad ora tardissima; anche in ciò si correva dietro alla moda di Venezia, e se questa passione non distruggeva le casate come nella capitale, il merito apparteneva alla prudente liberalità dei mariti. Sui tappeti verdi invece dei zecchini correvano i soldi; ma questo era un segreto municipale; nessuno lo avrebbe tradito per oro al mondo, e i forestieri all'udir ricordare le vicende, i batticuori, e i trionfi della sera prima potevano benissimo credere che si avesse giocato la fortuna di una famiglia per ogni partita e non già una petizza da venti soldi. Soltanto presso la moglie del Correggitore si passava questo limite per giungere fino al mezzo ducato; ma l'invidia si vendicava di questa fortuna coll'accusar quella dama di avidità e perfino di trufferia. Alcune veneziane maritate a Portogruaro o accasatevi cogli sposi per ragioni d'uffizio, facevano causa comune colle signore del luogo contro il primato della signora Correggitrice. Ma costei aveva la fortuna di esser bella, di saper mover la lingua da vera veneziana, e di dardeggiare le occhiate piú lusinghiere che potessero desiderarsi. I giovani le si affollavano intorno in chiesa, al caffè, in conversazione; ed io non saprei dire se gli omaggi di questi le fossero piú graditi dell'invidia delle rivali. La moglie del Podestà, che gesticolava sempre colle sue manine bianche e profilate, pretendeva che le mani di lei fossero proprio da guattera; la sorella del Soprintendente asseriva che l'aveva un occhio piú alto dell'altro; e ciò dicendo allargava certi occhioni celesti che volevano essere i piú belli della città e non rimanevano che i piú grandi. Ognuno notava nell'emula comune brutte e difettose quelle parti che in sé credeva perfette: ma la bella calunniata, quando la cameriera le riportava queste gelose mormorazioni, si sorrideva nello specchio. Aveva due labbra cosí rosee, trentadue denti cosí piccioletti candidi e bene aggiustati, due guancie cosí rotonde e vezzeggiate da due fossettine tanto amorose, che solo col sorriso pigliava la rivincita di quelle accuse.

Capitolo sesto

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Un essere immaginario

- Napoleone! che razza di nome è? - chiese il Cappellano - certo costui sarà un qualche scismatico.
- Sarà un di quei nomi che vennero di moda da poco a Parigi - rispose il Capitano. - Di quei nomi che somigliano a quelli del signor Antonio Provedoni, come per esempio Bruto, Alcibiade, Milziade, Cimone; tutti nomi di dannati che manderanno spero in tanta malora coloro che li portano.
- Bonaparte! Bonaparte! - mormorava monsignor Orlando. - Sembrerebbe quasi un cognome dei nostri!
- Eh! c'intendiamo! Mascherate, mascherate, tutte mascherate! - soggiunse il Capitano. - Avranno fatto per imbonir noi a buttar avanti quel cognome; oppure quei gran generaloni si vergognano di dover fare una sí trista figura e hanno preso un nome finto, un nome che nessuno conosce perché la mala voce sia per lui. È cosí! è cosí certamente. È una scappatoia della vergogna!... Napoleone Bonaparte!... Ci si sente entro l'artifizio soltanto a pronunciarlo, perché già niente è piú difficile d'immaginar un nome ed un cognome che suonino naturali. Per esempio avessero detto Giorgio Sandracca, ovverosia Giacomo Andreini, o Carlo Altoviti, tutti nomi facili e di forma consueta: non signori, sono incappati in quel Napoleone Bonaparte che fa proprio vedere la frode! Si decise adunque al castello di Fratta che il generale Bonaparte era un essere immaginario, una copertina di qualche vecchio capitano che non voleva disonorarsi in guerre disperate di vittoria, un nome vano immaginato dal Direttorio a lusinga delle orecchie italiane.

Capitolo decimo

3 commenti:

  1. Che bel libro.
    Ciao Fra!

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  2. Ma veramente (ci sono libri, a volte, prodighi di una generosità così disinteressata e priva di qualsiasi rancore nei confronti di coloro che li hanno trascurati o abbandonati troppo presto per anni, che ci si chiede seriamente se possano avere un'anima).
    Ciao Filo!

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  3. Ce l'hanno. Quello di sicuro!

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