domenica 2 gennaio 2011

Il cinese secondo Ernesto

Ragazzoni - d'ora in poi: Ernesto - conosceva l'inglese, il francese e il tedesco. Per decenni le sue traduzioni di Poe (o Pöe, come si trovava a volte scritto allora in Italia) sono state considerate tra le più belle, e comunque le prime degne di nota tra quelle che precedettero le versioni di Praz prima e di Manganelli poi. Se ne possono apprezzare le rime e soprattutto il ritmo nella quarta parte del testo realizzato nell'ambito del progetto Manuzio.

Avrei scommesso, puntando tutto su quel che ho di più caro - le sue pagine invisibili, per esempio -, che la sua attività di traduttore giunta a pubblicazione non è che una piccola traccia di moltissime altre curiosità che non sono riuscite a vedere interamente la luce e con le quali si dilettava con tutto il fervore tipico degli autodidatti, vale a dire di quelli - per intenderci - che un giorno, all'improvviso, senza alcuna spiegazione razionale, si fiondano fuori di casa con l'intenzione di recuperare tutto quello che riescono su una lingua - una a caso: l'ungherese - e che non demordono nemmeno quando i loro sforzi non sono coronati da successo, nemmeno quando, dopo aver passato in rassegna scaffali e scaffali fornitissimi di testi su tutte le lingue del mondo, se ne tornano a casa a mani vuote eppur non rassegnati o domi, ma solo temporaneamente delusi ed anche leggermente increduli al pensiero di aver adocchiato persino un Parlons ossète, ma non uno dei testi desiderati. 

Ci avrei scommesso: ora, grazie ad un articolo di Ernesto rinvenuto in bozza e pubblicato postumo nel 1921, ne ho le prime prove.

*

Impariamo il cinese?

Può sembrare che la remotissima Cina nulla abbia a vedere colle cose di Torino. Sentirete.
Fu appunto a Torino, traversando il ponte sul Po, verso il monte dei Cappuccini, che qualcuno, proprio in quest'epoca dell'anno, ma un anno già parecchio lontano, mi faceva la strana proposta:
— Impariamo il cinese?
Era l'anno dell'esposizione, non l'ultima, l'esposizione del novantotto, che comprendeva nei suoi reparti una mostra di Arte sacra, vasta e ricchissima, e nella sezione dell'Arte sacra, emporio di tutto il mondo adunato da missionari pazienti, aveva posto un padiglione sovra gli altri interessante della missione cinese.
La Cina era ancora, a quei tempi, un paese di chimera e di favola. L'Europa non vi aveva ancora inviate le sue spedizioni armate contro i boxer furiosi, non l'avevano ancora attraversata in automobile Barzini ed il principe Borghese, non s'era messa a repubblica; era per davvero Estremo Oriente, l'Asia che si vede dipinta sui ventagli, sulle lacche, sulle porcellane, sui paraventi; l'Impero celeste con intomo nubi di sogno e di mistero.
Quando si parlava della impenetrabile "Città violetta", la residenza dell'"Invisibile", del "Figlio del Cielo" e della "Città gialla" entro cui la "Città violetta" è chiusa, del "Lago dei fiori di loto" e del "Ponte di marmo" — nomi fatali che designavano inaccessibili cose — s'evocavano alla mente immagini di luce e di colori preziosi, di reggie labirintiche, popolate da potenti claustrati, che si sono posti essi stessi, per isdegno, fuori del mondo.
E si narravano cose paurose, di supplizi raffinati fino a diventare opere d'arte della crudeltà; e di cucine maravigliose fatte di incredibili intingoli, di pasti interminabili composti di gamberi mangiati vivi coll'acquavite, di midolle di bambù, di radici di ninfee candite, di sangue di montone fermentato bevuto come liquore, per non dir nulla dei troppo noti nidi di rondine e delle pinne di pescecane che tutti sanno.
E venivano di laggiù, non notizie di mutamenti di ministeri, ma aliti di poesia delicatissima. — "Le nubi leggiere errano indolenti come i miei pensieri. Tramonta il sole ed io sento anche più vivamente la tristezza della separazione. Al disopra dei cespugli tendo un'ultima volta la mano, al momento in cui t'allontani. Lancio la mia voce un'ultima volta a salutarti... Mi risponde un canto d'usignuolo". Od ancora: "Ecco che la bruma rinchiude la mia casa. C'è solo intorno a me l'acqua del fiume che va. È la sola che conosce il mio dolore. E forse si stupisce di riflettere così sempre, l'angoscia di questi occhi sbarrati".
Ora, una bricciola di questa Cina antica, era caduta a Torino in un lembo del Valentino e noi s'era finito per diventare buoni amici della piccola colonia di cinesi e di missionari che teneva a custodia le belle cose singolari portate da tanto lontano e là raccolte. Ma il più assiduo di noi era il prof. Giovanni Vacca, assistente di Peano(*) all'Università. Interrogava monaci, si faceva spiegare iscrizioni, sfogliava libri ed albi, tentato dai caratteri sconosciuti tracciati col pennello inviati a noi da tempi immemorabili, e ad ogni tratto, imbattendosi cogli amici ripeteva: — Impariamo il cinese? perché non impariamo il cinese? È assurdo non sapere il cinese!
Ne parlava con Giovanni Vailati, mente luminosa, che approvava sorridendo: ne parlava con Francesco Porro, direttore allora dell'Osservatorio di Palazzo Madama, il quale si interessava al cinese massimamente per ragioni di teosofia e di scienze occulte; ne parlava con me che ascoltavo senza dir nulla, mettendoci solo quel tanto di intelligenza che si limita alla curiosità.
Un giorno, Giovanni Vacca ci annunziò netto il suo proposito: — Imparo il cinese. Mi diverto moltissimo. Mi mando a mente ogni giorno trenta parole coi relativi segni. Non è niente affatto difficile.
Pel suo cervello matematico, abituato a sbrigare le matasse delle algebre più astruse, non c'era mai niente di difficile.
E così avvenne che Giovanni Vacca, il quale incominciò a studiare la lingua di Lao-tse, di Li-tai-pè, di Confucio in riva al Po, finì per impararla davvero sulle rive del Yang-tse-Kiang e dell'Hong-ho, ai piedi della grande muraglia, e passati parecchi anni in Cina, è ora professore titolare di cinese all'Università di Roma!
Ne è passato del tempo! La vita separa, allontana, sconvolge, ma serba anche le sorprese dei riavvicinamenti impensati.
Ecco che, passati anni ed anni parecchi, proprio sul Po, dove la prima volta l'antico assistente del professor Peano mi proponeva: — "Impariamo il cinese?" — m'imbatto in Giovanni Vacca. È cosa di questi giorni.
Ciascuno vuol sapere dell'altro, ciascuno ha la sua da chiedere e da rispondere. E naturalmente si ricade sull'antico argomento.
— Sì, ho vissuto nel meraviglioso paese delle favole di cui abbiamo tanto parlato. Vi ho mangiato più bistecche che nidi di rondine ed ho viaggiato più in ferrovia che in palanchino. Insegno a Roma ed ho allievi numerosi. Si comincia a capire che occidente e oriente debbono affratellarsi, che occidente e oriente hanno convenienza ad intendersi. La Cina impenetrabile chimerica d'un tempo non è più e si dovrebbe cominciare a perdere l'abitudine di considerare questo paese unicamente come la patria del drago volante, delle teiere di porcellana, dei codini, dell'oppio. Esiste ormai, presso tutto il mondo civile, una triplice questione cinese: la commerciale, la militare, la letteraria; ognuna di esse ha un interesse speciale. Per prendervi parte attiva e penetrare nella mente e nel cuore di quel popolo, a suo modo classico, è mestieri anzitutto conoscere la sua lingua, la quale, come dice un poeta di laggiù, è la veste nuziale del pensiero. L'hanno chiamata la "lingua del diavolo" e le hanno creato attorno una pessima fama. È un pregiudizio ed una ingiustizia. Il meccanismo della lingua è semplicissimo: niente articoli, niente coniugazioni, niente declinazioni, niente distinzioni di generi. Per la semplice disposizione delle parole nell'insieme della frase, un carattere cinese, un sostantivo per esempio, può diventare volta a volta, pur rimanendo invariabile, aggettivo, verbo attivo, verbo neutro, verbo passivo ed anche avverbio.
Ecco qua. Si vuole per esempio coniugare il verbo leggere (sciū)? Si dirà: "io ora leggere" (leggo); "io allora leggere" (leggevo); "io poi leggere" (leggerò). E così via. Ci vedrebbe chiaro l'ultimo scolaretto che stenta sulla sua grammatica latina. E nemmeno, altro vantaggio, ci sono inversioni di costruzione. Tutti quelli che [illeggibile, purtroppo] capitomboli di quelle indiavolate particelle separabili, di quegli insidiosi an, ab, vor, zu, pulci di sillabe che saltano sempre e che bisogna andare a scovare nei punti più riposti della frase, apprezzeranno al suo giusto valore questa lingua asiatica, così onesta. Insomma, per quanto monosillabico, il cinese non è più arduo a maneggiarsi di tante lingue a flessione. Del resto, non bisogna supporre che per servirsi del cinese occorra ficcarsi nella memoria l'intero vocabolario. Non abbiamo in testa nemmanco i tre quarti di quello italiano! Mille parole bene apprese bastano per farsi intendere a Pechino. Non si possiede ancora una lingua con mille parole, d'accordo, ma se con quelle parole riesco a capire ed a farmi capire, posso starmene contento. Dove allo studioso occorre veramente pazienza, è nel ritenere i segni. Ma ci hanno tanta bizzarra arte nella loro costruzione che invogliano come pitture. Si potrebbe determinare tutta un'estetica della scrittura cinese.
Ogni carattere cinese si può considerare come una proposizione elittica di cui non si pronunzia che uno dei suoi elementi; gli altri sono ricordati all'occhio dai segni annessi al carattere stesso.
Così il mio dotto amico, algebrista e sinologo, miracolosamente ripescato. Avevamo ciarlato cammin facendo e ci avviammo giusto per via Roma, dove di sicuro non c'era nessun altro, in quel momento, che  s'occupava di cinese.
— Se andassimo a prender qualche cosa al nostro solito caffè di una volta? — propose il professore.
— Il caffè della Borsa?
— Sì.
— Ne hanno fatto un cinematografo! 
Il giorno dopo questa conversazione, tutto invasato di fervor cinese, mi sono dato attorno per Torino a cercare quanto di cinese si potesse trovare, in fatto di grammatiche, di lessici, di manuali. Manco male, dai librai che appestano le loro vetrine colle opere dell'insigne Barbusse ed altre tali, non trovai nulla!
Invece, bene spigolai da certi antiquari, su un bancherottolo di piazza San Carlo e presso una modesta e buona signorina che tiene in via Lagrange un negozio di libri scolastici, religiosi e di stampe.
Ho così in questo momento sul tavolo, mentre scrivo, la Lingua cinese parlata di F. Magnasco; le Tavole di scrittura cinese del dottor Senes, magnifiche; la Grammaire Mandarine di M. A. Bazin, classica, stampata a Parigi nel 1856: i Chinese sketches del Giles; il Manuel de la langue chinoise del Hochet...
Vi sareste immaginati tanto cinese sparpagliato per Torino, voi? Io no.
Io non so ancora, a dir vero, se mi darò allo studio della vantata lingua, ne ho assai paura!, ma intanto mi diverto a guardarla, e le tavole del dottor Senes mi procurano un grandissimo diletto. Pure a non capirne nulla, è bellissimo vedere il cinese, come il greco del marchese Colombi: anche più bello dello stesso arabo la cui calligrafia è di per sè sola un ricchissimo motivo orientale.
Non per nulla, in Cina, la scrittura è opera di pennello. Ogni segno si direbbe la stenografia di un disegno. E ve n'hanno che sembrano nastri svolazzanti, che hanno profili di pagode, che simulano gesti di braccia che paiono lame incrociate, che dànno l'idea di segnali di semaforo immobilizzati, di scrigni intarsiati, di appiccati appesi alla forca, di ali aperte, di graticole, di congegni di chiavi inglesi... Potete enumerare tutte le forme, tutti i simboli della vita!
Ed un'altra cosa divertente scopro, sfogliando la grammatica del Bazin, la grande quantità delle onomatopee per cui le cose entrano nel linguaggio col loro suono preciso. Tsi-tsi-uà-uà, è la voce di parecchie persone che parlano; Hi-hi, è la risata: Si-so, il fruscio della seta; Pi-pi-po-po, il crepitio della fiamma; Tsi-tsi, ricorda il lavoro del tessitore al telaio: Ko-tang-ko-tang, l'andirivieni regolare del bilanciere del pendolo. Ed aggiungete che ognuno è padrone, se gli fa piacere, di crearsi tutte quelle altre onomatopee che crede! Non è comodo? È una lingua ideale per i paroliberi!
Quanto a me, volete vedere che sono capacissimo già di infilarvi del cinese, e per giunta in versi? 

Quadretto cino-invernale
Mentr'arde il fuoco come un falò
cianciano insieme bimbi e papà:
hi-hi hi-hi, tsi-tsi-uà-uà;
entra la mamma: si-so si-so,
e siede a tessere: tsi-tsi-tsi-tsi;
in gabbia un passero canta: ci-ci;
la fiamma crepita: pi-pi-po-po,
calmo fa il pendolo: ko-tang-ko-tang:
così si vive sul Yan-tse-Kiang.

Impariamo il cinese?



(*) Del matematico Peano, mi piace rinviare al suo Latino sine flexione.

Nessun commento:

Posta un commento