Ci sono uomini, a volte intere generazioni di uomini, i cui pensieri e le cui azioni sembrano finire nel nulla o, nella migliore delle ipotesi, quella che normalmente mi auguro, i cui semi richiedono moltissimo tempo prima di rigermogliare in qualche nuova forma che ne riprenda e ne rispecchi il desiderio di giustizia e di libertà e ne rispetti la dignità di averci creduto e provato fino in fondo, pur nell'imperfezione che ogni atto umano è destinato a portare con sé.
C'è una generazione di tedeschi che ha creduto nel comunismo ed è stata sconfitta, imprigionata e assassinata, in patria e all'estero - dai Freikorps ai campi di sterminio, specie Dachau, ai gulag sovietici -, e condannata più o meno all'oblio. Non erano pochi, eppure il loro ricordo è generalmente circoscritto al più a un paio di loro rappresentanti, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, e non sempre è immune dalle semplificazioni insite nel processo postumo di idealizzazione più o meno marcata.
Nonostante la loro sete di giustizia e libertà non sia per niente placata, sono stati e sono sconfitti enne volte ed in tutti i modi possibili, direttamente ed indirettamente, da vivi e da morti: nel corso della repressione sanguinosa della rivolta spartachista, negli anni della repressione nazista degli oppositori politici, per effetto delle purghe staliniane che ne hanno condannato le "deviazioni" dall'ortodossia (fossero venate di anarchismo, antibolscevismo, frazionismo, individualismo, trotzkismo, ecc. - la lista di difetti che riuscì a stilare quel sistema di potere è infinita), ogni qual volta si ricorda la Repubblica di Weimar solo quale atto prodromico al nazismo, quando si ripercorrono gli anni della Germania nazista senza degnarli di una parola, per colpa della ripetitiva celebrazione mitizzante di alcuni dei loro esponenti ad opera del regime comunista della DDR, per il crollo di questa e dell'URSS, per la "fine delle ideologie", perché non interessano più.
Ieri e oggi ho pensato a loro.
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