Il Teatro Libero di via Savona è un posto piccolissimo: può accogliere 100 spettatori a spettacolo. Si trova all'ultimo piano di un condominio milanese anonimo, che dà su un cortile interno assieme ad altri condomini come tanti altri, non lontano dai Navigli. Il palcoscenico è microscopico, le scene minimaliste, i costumi essenziali.
Andateci, appena riapre, se abitate a o passate per Milano e, se ci andate, cercate di non dimenticare di portare una bottiglia di vino o dei pasticcini. Perché, se ve ne scorderete, quando per entrare in sala salirete per le scale o prenderete l'ascensore, specialmente incrociando condomini magari intenti a portare via la spazzatura o a spasso il cane, proverete la spiacevole sensazione di essere in procinto di presentarvi a casa di amici a mani vuote.
Al Teatro Libero di via Savona si fa Cultura con pochi mezzi, ma molto impegno, passione e serietà e per il solo piacere di farlo. Nel Cirano, ad esempio, il rimando al '600 sta tutto nelle ampie camicie indossate dagli attori e le lettere non sono fatte di carta, ma di mani e voci, voci che ne recitano il contenuto, mani che coprono delicatamente il volto e il cuore del destinatario, prendendolo alle spalle e facendone leggermente reclinare il corpo all'indietro, in una trasognata posizione di ascolto totale.
Andateci, dunque, se riapre e se vi riesce. E se non riapre, protestate in ogni modo possibile. Ma, se riapre, non dimenticate la bottiglia di vino.
Che bello. Mi ravviva la memoria dei “teatri di casa” che facevamo a Budapest prima del 1989 quando non valeva la pena di andare al teatro ufficiale. Spero molto che riapra e che lo possa visitare un giorno a Milano.
RispondiEliminaTe lo auguro perché è proprio bello e anche perché non vale mai la pena andare al teatro ufficiale, ovunque ci si trovi :-)
RispondiEliminaNon è un teatro "underground" come forse (lavoro solo di immaginazione) lo sono stati quelli "di casa" (o d'appartamento?) di Budapest prima del 1989. Forse (sempre lavorando di immaginazione e un po' per associazione), però, non lo sono stati nemmeno quelli. Negli anni '90, per la prima volta in vita mia, in una casa di Jena mi capitò di prendere in mano e di sfogliare un vero samizdat, parola che in me, vivendo in Italia, aveva sempre evocato chissà che scritture sovversive o rivoluzionarie, piene di dirompente carica emotiva: il risultato fu deludente, nel senso che risultò essere una specie di favola per bambini, neanche molto poetica e piuttosto noiosa, alle cui parole era stata affidata l'impotenza provata per non potersi esprimere liberamente nei canali di comunicazione ufficiali.
Me lo posso immaginare. Io ho vissuto lo stesso con i “samizdat” russi, che erano allo stesso livello. In Ungheria c’era un pizzico di più di libertà, e perciò queste cose non erano necessarie “sam izdať”, pubblicare privatamente, ma hanno trovato la loro media ufficiale, riviste di provincia, eccetera. Ciò che qui si chiamava samizdat era veramente quello a cui pensavi tu, ed era non solo di carattere politico, ma anche artistico. Il padre del samizdat artistico era il grande Miklós Erdély (aleatoricamente, qui o qui) la cui influenza ha elevato l’arte underground a un’altezza metafisica. Così erano anche i “házszínház”, teatri di casa, che normalmente hanno coinvolto tutti o la maggioranza degli appartamenti attorno a un cortile, presentando una storia di sogno basandosi sulle storie di vita degli abitanti (con cui se ne discuteva per settimane prima della presentazione).
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