Foto presa velocemente, sotto l'occhio vigile dell'addetto alla sorveglianza del Théâtre National La Colline, insospettito dal mio cellulare.
"Il dolore e la confusione regnano, dagli attentati del 13 novembre.
Non bisogna che questo dolore e questa confusione ci distruggano.
Recitare per voi questa sera è il nostro modo di credere nella vita".
Christophe Honoré e la troupe di Fin de l'histoire (tratto da Gombrovicz).
*
Galli della Loggia fustiga gli europei dalle colonne del Corriere della Sera: saremmo mistificatori, saremmo buoni, avremmo un'insulsa arroganza culturale, enfatizzeremmo i nostri oscuri sensi di colpa, il nostro desiderio di normalità sarebbe un impegno roboante.
C'è da essere orgogliosi, per una volta, se la parola guerra in Italia è una parola tabù, posto che resti tale nonostante le sirene contrarie. Avremmo forse dovuto bombardare qualcuno, dopo le stragi di piazza Fontana, di piazza della Loggia, della stazione di Bologna? Allora, come oggi, i terroristi sono interni, trovano appoggio ed addestramento fuori dall'Europa, ma sono interni, nati, cresciuti e vissuti in Europa.
Per quanto riguarda la Francia, che è anche Europa, non siamo in pochi a non sentirci in guerra, contrariamente a quello che dichiarano Hollande, il suo primo ministro e molti altri uomini di potere. Noi, o almeno questi non pochi di noi, non ci sentiamo e non siamo in guerra perché gli attentatori sono criminali, non soldati. Tra di noi, poi, molti sono contrari allo stato di emergenza, a una riforma della costituzione proposta sull'onda dell'emozione e a molto altro che ci sta piovendo addosso, anche se solo sei (6) deputati si sono pronunciati contro il prolungamento di ben tre mesi dello stato di emergenza ed altri deputati, più numerosi (21), hanno presentato un emendamento volto al "controllo della stampa, di pubblicazioni di qualsiasi natura nonché (a) quello delle trasmissioni radiofoniche, delle proiezioni cinematografiche e delle rappresentazioni teatrali": per fortuna non è passato, ma lascia lo stesso una traccia vergognosa negli annali dell'Assemblée nationale e di questo Paese.
Per quanto riguarda la Francia, che è anche Europa, non siamo in pochi a non sentirci in guerra, contrariamente a quello che dichiarano Hollande, il suo primo ministro e molti altri uomini di potere. Noi, o almeno questi non pochi di noi, non ci sentiamo e non siamo in guerra perché gli attentatori sono criminali, non soldati. Tra di noi, poi, molti sono contrari allo stato di emergenza, a una riforma della costituzione proposta sull'onda dell'emozione e a molto altro che ci sta piovendo addosso, anche se solo sei (6) deputati si sono pronunciati contro il prolungamento di ben tre mesi dello stato di emergenza ed altri deputati, più numerosi (21), hanno presentato un emendamento volto al "controllo della stampa, di pubblicazioni di qualsiasi natura nonché (a) quello delle trasmissioni radiofoniche, delle proiezioni cinematografiche e delle rappresentazioni teatrali": per fortuna non è passato, ma lascia lo stesso una traccia vergognosa negli annali dell'Assemblée nationale e di questo Paese.
Tuttavia, a parte tre eccezioni, non siamo né Hollande né Valls né Mme Mazetier, prima firmataria del suddetto emendamento, e non siamo neanche buoni o migliori di altri. Subito dopo l'attacco in rue de la Fontaine-au-Roi, un giornalista dell'AFP ha filmato dei passanti intenti a prendere delle foto delle vittime riverse a terra. Se un bagaglio ha l'aria di essere abbandonato in una carrozza del métro, alcuni di noi non esitano ad aspettare che il treno stia per ripartire per scagliarlo sul quai un attimo prima della chiusura delle porte, lasciando il problema a quelli che aspettano il treno successivo. Altri, all'indomani dell'eccidio di Charlie Hebdo, non hanno ritenuto di partecipare al minuto di silenzio per le vittime; questi altri erano in prevalenza giovani e giovanissimi. Altri ancora, in quei giorni, hanno preferito immedesimarsi nell'attentatore dell'Hyper Cacher e non nelle sue innocenti vittime.
Diciamo même pas peur, ma in realtà abbiamo paura. Tanta paura che lo scoppio di una lampada di un bar genera del panico tra la folla. Tanta paura che, anche se molti hanno agito con generosità, il 13 novembre, alcuni cittadini non hanno osato aprire la porta di casa per dare rifugio ai sopravvissuti degli attacchi. Tanta paura che l'affluenza nei teatri e nei musei si è ridotta del 50%, subito dopo gli attentati. Tanta che alcuni di noi hanno esitato persino ad uscire sotto casa, sabato mattina (la prefettura raccomandava di restare a casa e di uscire solo se necessario), e ce l'hanno fatta solo nel pomeriggio. Nonostante la paura, il lunedì successivo abbiamo però ripreso a lavorare, a mandare i bambini a scuola, a spostarci con i mezzi pubblici ed in bicicletta, senza alcuna enfasi o retorica. Abbiamo anche chiesto, a quelli che continuavano a scrivere #prayforParis, che non si pregasse per Parigi, ché di religione non abbiamo proprio bisogno, non a livello collettivo.
Abbiamo sensi di colpa, certo, perché le cités sono una gran brutta cosa, frutto di progetti urbanistici disastrosi, anche se non ne siamo tutti responsabili, ma abbiamo anche la consapevolezza che esiste la possibilità di andare a scuola, in questo paese, e di contribuire a renderlo più giusto. Alcuni di noi, poi, hanno sensi di colpa per essere sopravvissuti, altri per il solo fatto di aver fotografato i fiori deposti in omaggio alle vittime. Nessuno di questi sensi di colpa è oscuro.
La normalità è l'unica arma a nostra disposizione, non ne abbiamo altre. Spesso, ci mancano persino le parole, altro che normalità. Sabato, non ne volava nessuna, in giro. Subito dopo gli attentati di gennaio, per strada la gente attaccava bottone facilmente, aveva bisogno di scambiare parole, idee, trovare una spiegazione alla follia omicida che ha eliminato un'intera redazione di un giornale. Sabato 14 novembre no, niente di tutto questo: solo fiori, candele, sguardi bassi, talvolta lacrime e, come colonna sonora, un silenzio assoluto.
Diciamo même pas peur, ma in realtà abbiamo paura. Tanta paura che lo scoppio di una lampada di un bar genera del panico tra la folla. Tanta paura che, anche se molti hanno agito con generosità, il 13 novembre, alcuni cittadini non hanno osato aprire la porta di casa per dare rifugio ai sopravvissuti degli attacchi. Tanta paura che l'affluenza nei teatri e nei musei si è ridotta del 50%, subito dopo gli attentati. Tanta che alcuni di noi hanno esitato persino ad uscire sotto casa, sabato mattina (la prefettura raccomandava di restare a casa e di uscire solo se necessario), e ce l'hanno fatta solo nel pomeriggio. Nonostante la paura, il lunedì successivo abbiamo però ripreso a lavorare, a mandare i bambini a scuola, a spostarci con i mezzi pubblici ed in bicicletta, senza alcuna enfasi o retorica. Abbiamo anche chiesto, a quelli che continuavano a scrivere #prayforParis, che non si pregasse per Parigi, ché di religione non abbiamo proprio bisogno, non a livello collettivo.
Abbiamo sensi di colpa, certo, perché le cités sono una gran brutta cosa, frutto di progetti urbanistici disastrosi, anche se non ne siamo tutti responsabili, ma abbiamo anche la consapevolezza che esiste la possibilità di andare a scuola, in questo paese, e di contribuire a renderlo più giusto. Alcuni di noi, poi, hanno sensi di colpa per essere sopravvissuti, altri per il solo fatto di aver fotografato i fiori deposti in omaggio alle vittime. Nessuno di questi sensi di colpa è oscuro.
La normalità è l'unica arma a nostra disposizione, non ne abbiamo altre. Spesso, ci mancano persino le parole, altro che normalità. Sabato, non ne volava nessuna, in giro. Subito dopo gli attentati di gennaio, per strada la gente attaccava bottone facilmente, aveva bisogno di scambiare parole, idee, trovare una spiegazione alla follia omicida che ha eliminato un'intera redazione di un giornale. Sabato 14 novembre no, niente di tutto questo: solo fiori, candele, sguardi bassi, talvolta lacrime e, come colonna sonora, un silenzio assoluto.
A Galli della Loggia han dato fastidio le parole mielose di Antoine Leiris, anche se si limita ad attribuirne la responsabilità ai giornali che le hanno rilanciate. Certo che sono mielose, ma meritano rispetto, mannaggia! Si prendesse, Galli della Loggia, il tempo di leggere il miele di quelle parole con attenzione, senza la mediazione dei giornali, visto che Melvil è un nome maschile, e non femminile, e di considerare, al di là dell'aspetto formale, l'ipotesi che il dolore possa essere più forte dell'odio. Leggesse, Galli della Loggia, altre testimonianze rese dai sopravvissuti (ce ne sarebbero molte altre, ma Galli della Loggia vola alto ed è molto occupato: il suo tempo non va sprecato nella lettura di cronache dal basso). Provasse, Galli della Loggia, prima di stigmatizzare la roboanza della normalità, non dico ad immedesimarsi in un parente o in un conoscente di una vittima o in un sopravvissuto, ma solo a prendere il métro ogni giorno, ad andare in posti affollati come i teatri, i cinema e le mostre, a prendere una birra in terrasse nell'undicesimo o nel decimo, ad un passo dai luoghi dell'eccidio, le narici ancora intasate dall'odore delle centinaia di candele deposte di fronte al Bataclan, che non è niente, rispetto all'odore di quella sala, venerdì sera. Ripensasse, Galli della Loggia, lo stesso Galli della Loggia che ha sostenuto Berlusconi, noto costruttore di una più avanzata democrazia europea, lo stesso Galli della Loggia che ha ravvisato nelle pale eoliche installate in Molise "uno dei peggiori flagelli che si (sia) abbattuto nell'ultimo quindicennio su tutta la Penisola", non dico all'estetica delle pale danesi o tedesche, ma almeno al fatto che affrancarsi dal petrolio puntando sulle energie rinnovabili è una - non la sola, ma una - delle azioni più efficaci per contribuire ad indebolire il terrorismo attuale. E, se anche lui è tra quelli che evita di venire a Parigi ora, provasse a chiedere agli abitanti della Bruxelles di questi giorni se non avvertano un desiderio di normalità e se disdegnino le promesse o gli impegni, per quanto roboanti e più o meno illusori, a mantenerla. E infine, prendesse tutto il tempo che gli serve per farlo, perché non c'è alcuna fretta, ma andasse - s'il lui plaît -, alla prima occasione, in monazza.