domenica 3 luglio 2011

Degli occhi crudeli sono il solo modo intelligente che possa avere uno scrittore per amare il proprio paese

La fortuna di avere incontrato Tito Maniacco, dicevo. La vado ad illustrare con un lungo lavoro da amanuense su un suo scritto, che mi piace copiare perché il Friuli, che è stato a lungo il mio vicino di casa quando vivevo dopo il trattino del Friuli-Venezia Giulia, è una terra di confine che non mi sembra essere molto nota nel resto d'Italia.

C'eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974

Figuriamoci quindi se può essere noto l'immaginario collettivo degli abitanti di Trasaghis, dei loro vicini di Peonis e di tutti quelli (pochi, tutto sommato) che li circondano nel nord-est italiano, che Maniacco descrive senza indulgenza, ma in modo serio ed articolato e per niente generico, nonostante la intrinseca impalpabilità e fluidità del soggetto. In realtà, il Friuli è un territorio ancora più piccolo di quel che sembra, se si considerano le particolarità delle sue fasce confinarie, in cui è compenetrato da culture diverse da quella friulana, vale a dire la veneta, l'austriaca e la slovena. Quest'ultima, a sua volta, è diversa dalla cultura a me più familiare del microcosmo degli sloveni della Venezia Giulia, su cui di tanto in tanto ho già speso qualche parola in passato. Per limitarsi alla differenza più evidente, basti pensare che gli sloveni di luoghi come la val Canale e le valli del Natisone sono sempre stati, politicamente, tendenzialmente bianchi, mentre quelli del Carso triestino e di Trieste sono stati politicamente piuttosto orientati verso il colore rosso. In realtà, a guardarlo con la lente di ingrandimento, il Friuli è proprio piccolissimo, forse addirittura, almeno in parte, pura opera di fantasia, perché il suo cuore batte stretto tra la Bassa Friulana a sud e la Carnia a nord, in cui i veri conoscitori potrebbero trovare (e trovano) delle ulteriori nuances che ci allontanerebbero ancora dal suo carattere più profondo. La Carnia, in effetti, è Friuli e al contempo non lo è: spero proprio che la Carnia dica qualcosa al di là del Friuli, se non altro perchè la Carnia, ricordo, ha conosciuto, come la val d'Ossola, l'esperienza della repubblica partigiana (che comprendeva l'ormai notissimo Trasaghis; ah, e Peonis, naturalmente).
Da ultimo, ma forse avrei dovuto porlo come primo motivo, mi faccio amanuense perché, a dispetto delle apparenze e forse delle intenzioni stesse di Maniacco, mi pare che il Friuli condivida con molte altre terre il suo immaginario in tema di inferiori e diversi.
Aggiungerò delle note: le mie saranno marcate con delle lettere(a) per distinguerle dai numeri attribuiti alle note del testo originale. 

*

Gli inferiori e i diversi

Lis feminis àn putrôs cjavêi e pôc ciâf
(le donne hanno molti capelli e poca testa)
proverbio friulano

L'immaginario, dovendo vivere nel mutare delle condizioni storiche, deve convivere con le contraddizioni.
Così la comunità di villaggio, la vicìnia, il cui nucleo ideologico fondamentale alla base dell'immaginario (è stato) elaborato con tanta paziente tessitura da generazioni d'intellettuali, è del tutto svanita.
Due contraddizioni principali emergono ai nostri giorni e tendono ad assumere un'importanza sempre maggiore contro la logica del vecchio immaginario.
Esse sono le donne e gli stranieri.
Il friulano, nel suo inconscio (che si riversa poi sulle pratiche sociali), considera le donne degli esseri inferiori e diabolici: Uélin siet umin a fâ une cjase, e baste une femine a sdrumâle (ci vogliono sette uomini per costruire una casa, e basta una donna per distruggerla! Sdrumâ = crollare, distruggere, ha un senso biblico come fosse pronunciata da Giobbe).
L'emigrazione, in Carnia in particolar modo (forse perché i carnici sono dei friulani particolari, o forse perché sono i soli friulani rimasti, o forse perché sono carnici e basta), ha fornito alla donna un forte potere all'interno della comunità ma è pur sempre un potere delegato. È vero che la donna gestisce il denaro delle rimesse dall'estero e dirige la vita della casa e ha un forte potere sui figli, ma è anche vero che cammina dietro il marito quando esso ritorna a prendere lo scettro.
Si dirà, cose d'altri tempi. Probabilmente è vero: non camminano più in fila indiana, ma i rapporti restano disuguali.
La falsa coscienza, doppio imbarazzante dell'ideologia, che qui assume le suadenti forme di una società ligia alla tradizione, permette un'emancipazione della donna che procede in parallelo con il suo sostanziale e vecchio rapporto di dipendenza patriarcale.
Quando la donna (certe donne, sempre di più, comunque) raggiunge e supera il limite consentito, allora intorno ad essa si racchiude, a forma di conchiglia che tutto riflette e riluce, un settore privilegiato dove l'immaginario, venendo a patti con lo stato delle cose, stabilisce una zona franca in cui tutto è lecito in nome dell'eccezionalità che è data, pragmaticamente, dai risultati.
D'altra parte, la donna in questione, proveniendo dall'imprenditoria o da altre forme moderne dell'attività fra cui lo sport, ad esempio (la terrificante poesia che lo scrittore Maldini ha dedicato sulla prima pagina de Il Messaggero Veneto alla Di Centa, è sicuramente lo specchio più fedele di quel che è la retorica dell'immaginario in questo campo(1)), comprende che deve riunire in sé tutte le caratteristiche (almeno esteriormente), il passato e le radici ancestrali servendo e giustificando e stabilendo delle grandi finalità morali per la sua stessa carriera. Essa, insomma, finisce con l'ammettere la sua eccezionalità e, ammettendola, giustifica quel che l'immaginario dà per scontato, e cioè l'esistenza di uno stato di natura votato ai figli, alla famiglia e, in definitiva, rinchiuso in limiti ben definiti di una società che non è patriarcale, ma semplicemente è così, biologicamente.
Perché, par si dica, le forme sociali e storiche tramontano, non tramontano mai i dati naturali (si può sempre discutere su chi e che cosa li abbia determinati: Dio o il Caos, non cambia niente).
Avendo ottenuto licenza d'agire, essa non può far altro che servire da puntello e strumento illusorio ad un potere maschile.
Che lo faccia in assoluta buona fede (forse) non può far altro che confermare la cinica e meschina funzione che verso il genere l'immaginario, non a caso scritto al maschile, coscientemente esercita.
Il comparire di donne di talento e, in qualche misura, diverse rispetto alla media, non può che confermare e il ruolo di sudditanza di esse e quello di superiorità, assodata a tutti i livelli, dell'uomo, al quale è sempre spettato, spetta e spetterà la funzione di deus ex machina dello strumento sociale.
Lo stesso è avvenuto nei momenti di emancipazione dei lavoratori, socialisti e comunisti, ai quali certamente spetta il merito storico di una rivendicazione del lavoro delle donne e della loro funzione nella storia, parità di orario, parità di paga, fermo comunque restando il fatto che, anche in questi movimenti, l'esaurirsi delle attività dentro il sociale, voto delle donne compreso, non ha mai posto seriamente in discussione il potere maschile negli apparati di lotta sociale, politica, clandestina o pubblica.
Una società contadina e il suo immaginario con i suoi attuali riflessi non riesce certamente a cogliere la complessità di una storia in genere essendo tale storia, una volta per tutte, già stata scritta dal maschio.
La nostalgia per il mondo contadino, che non è solo reazionaria e conservatrice (no?), contiene certamente in sé un'assoluta comunanza di potere maschile, da qualunque parte ideologica essa sia vista.
L'utopia contadina di Pasolini, ad esempio, immagina un mondo com'era prima, e come tale, maschilista. Sarà pur comunista l'ansia di beni necessari(d) con cui vorrebbe connotata tale utopia, ma sempre senza alterare i rapporti di potere fra i generi.
Il problema di fondo è che la questione femminile, in questo immaginario, non è mai stata presa in considerazione.
Se la misoginia è una delle caratteristiche fondamentali della società patriarcale, la sua perenne corrente passa costantemente nella società tutta, ed è accolta, non paradossalmente, anche dalle donne che vi si riconoscono, probabilmente dal giorno in cui la nuova idea del patriarcato fece pendere la bilancia contro l'antico giudizio che riteneva che l'uccisione della madre fosse il peggiore di tutti i delitti(2), tanto che La bisbetica domata pare un testo senza tempo e senza luogo ed una sua traduzione in lingua friulana (o c'è?) potrebbe aggiungersi al trionfale repertorio del teatro locale, che è trionfale proprio perché rappresenta tutti i luoghi dell'anima friulana, cioè quel lato kitsch, perbenista, che alcune cose buone, vanamente scritte negli ultimi decenni, non riusciranno mai a contrastare.
Le dichiarazioni di donne emergenti sembrano proprio andare verso un nuovo tipo di riconoscimento dell'autorità del padre, quasi come una sorta di accettazione-proposta di cogestione (sempre e comunque vincolata dall'autorità degli dèi del patriarcato) della direzione politica, economica e morale della società.
Un aggiustamento, insomma, più che un rovesciamento in un mondo in cui più nessuno osa mormorare la parola proibita rivoluzione.
L'astuzia maschile sta nel fatto che probabilmente l'implicita proposta pare, a queste donne, essere nei fatti e i fatti sembrerebbero dar loro ragione, proprio quando niente spiega meglio lo stato delle cose, nudo e crudo, quanto questa apparenza di vittoria.
Il problema vero è che, nel genere, una sudditanza-discriminazione nel ruolo, nel salario, nella dignità, l'idea stessa di relegare tanta parte della società (oltre la metà del cielo, si suol dire, in quegli insopportabili ritorni come stupidità ripetitiva collettiva di parole o frasi) è una sudditanza concreta, generale. Le vittorie singole, sempre più numerose, è vero, sempre più qualificate, è vero, proprio in virtù dell'essere sempre più numerose, sempre più qualificate, portano peso reale al potere insostituibile del maschio.
Il fatto che in un sogno concreto sembrava scritto che una cuoca potesse dirigere lo stato(3), con tutta la retorica e lo spirito maschilista che vi stava sopra, sotto, intorno, dietro e avanti fino a noi, è un atteggiamento di gran lunga più ricco di possibilità di quanto possa sembrare in tempi tetri come ci tocca di vivere e scrivere.
La comparsa di figure virtuose di donne fa naturalmente parte dell'immaginario. Anzi, si potrebbe dire che senza questa oscura luminosità tutto il discorso complessivo ne risulterebbe ideologicamente menomato; ma quel che non è cambiato è proprio il meccanismo di misoginia messo in movimento dai padri in genere, e da quelli cristiani in particolare. Tutto sommato, ci sentiamo più vicini, nonostante i secoli che ci separano, all'ironico illuminismo di Aristofane che non all'ingombrante madre nascosta dietro Agostino che prefigura il potere di una madre celeste, sempre inferiore, e per questo madre, attraverso la cui mediazione, scorrendo attraverso tutte le madri di questo paese cattolico, sempre inferiori, il reale potere dello spirito passa ai figli celibi di queste, sotto l'innocente aspetto di mediatori fra i poteri del cielo e della terra, cioè come preti(4).
Questo odio sessuofobico evapora da queste figure virtuose, anzi, l'alone mette in luce il caratteristico abito nero di tali umili protagoniste della storia friulana sia come madri esemplari, lavoratrici esemplari, ma sempre circondate e sommerse dal peso realmente materiale dei figli, delle gerle di fieno, dei bozzoli, delle pezze di seta o di lino, del letame, come figlie devote di una Patria, che sarebbe poi la terra dei padri (e infatti la lingua inferiore, il dialetto, non è detto anche lingua materna?) che ha sempre misconosciuti tutti i loro diritti, da quello del lavoro a quello dell'istruzione e del voto, fino all'ottusità della diffidenza italiota per idiomi stranieri e quindi sospetti, ma che, nel momento del bisogno, ad esse ricorre per portare gerle di viveri e di munizioni attraverso sentieri sconosciuti, ai soldati in trincea sui crinali dei monti carnici.
Basta osservare le foto del periodo per rendersi conto della lieta inconsapevolezza di queste passive protagoniste in cui l'immaginario tende ad elevare ad alto potenziale proprio la passività come forma di solida virtù e a ridurre a pura apparenza il protagonismo che è, innanzitutto, biologicamente maschile e socialmente appartiene alle classi dirigenti (basterà solo prendere nota dell'incredibile rapporto esistente fra medaglie d'oro ed ufficiali e medaglie d'oro e soldati, tenendo proprio conto della sproporzione).
Resta chiaro comunque che quel che è comune, nonostante le differenze fra misoginia cattolica e tranquilla superiorità borghese, è la sottoconsiderazione della donna.
Essa appare, alla retorica ugualmente comune, la Madre che tutto sacrifica (non è un caso se l'ignoto soldato è un maschio e se colei che lo veglia è una donna, alla quale l'ipocrisia borghese di una strana fratellanza fra le nazioni civili risparmia, momentaneamente, di essere Antigone - una lotta a morte come quella europea della seconda guerra mondiale, la riproporrà -), colei che in tempo di costante miseria (la carestia è una vibrazione sismica nel corso del tempo generale della miseria), proprio per il privilegio di mangiare o prima o dopo i maschi maturi, si priva della sua parte per i figli, eppure il suo posto sociale, se appare parallelo nelle foto di gruppo, nella realtà è arretrato. Lo sa lei e lo sanno i maschi, con la stessa tranquillità appunto, con cui contemplano i meccanismi della natura (probabilmente sarebbe meglio dire subiscono).
È qui che si salda l'alleanza, tanto contraddittoria quanto obbligatoria, fra Chiesa, o pensiero cattolico ufficiale e borghesia, sulla donna e sul centro della vita sociale voluta da Dio: la famiglia cui essa deve restare avvinta, o, se ne è parzialmente uscita mediante il lavoro, ritornarvi.
Non importa se tornando - ma quando se ne sarebbe andata? -  riproporrà all'ombra del potere maschile una sorta di atroce vendetta femminile. Come potremmo chiamare questo atteggiamento che si definisce magari mammismo nel senso dell'ironia o del motto di spirito, - in questo i friulani sono totalmente italiani - se non, tragicamente, medeismo?
Ma se il prezzo da pagare per la reclusione della donna - e che altra parola si potrebbe usare senza infingimenti? - è questo tipo di famiglia - quale orribile agrodolce e mostruosa famiglia ci si prepara in nome di un ritorno (ci eravamo mai allontanati?) alla tradizione Dio-Patria-famiglia? - quale prezzo si deve pagare per lo straniero che meccanismi mondiali spingono sulle nostre rive?

I diversi.
Un circolo vizioso.
Mai meglio che al termine degli ultimi quattro secoli della sua storia, l'uomo occidentale è in grado di capire che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l'umanità dall'animalità, accordando all'una tutto ciò che toglieva all'altra, apriva un circolo vizioso, e che la stessa frontiera, costantemente spostata indietro, sarebbe servita ad escludere dagli uomini altri uomini e a rivendicare, a beneficio di minoranze sempre più ristrette, il privilegio di un umanesimo nato corrotto per aver desunto dall'amor proprio il suo principio e la sua nozione.
C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale due
(da J.T. Godbout, Lo spirito del dono)

Di stranieri, barbari nel senso che balbettano la lingua delle lingue, che è sempre la propria, e barbari nel senso della tradizione storica, come invasori, il Friuli è pieno e ne rimbomba automaticamente il suo immaginario.
Il primo principio è la diffidenza e la diffidenza nasconde, nel suo profondo, il sentimento più antico che è la paura, la paura dei celti all'arrivo dei romani (la paura dei venetici all'arrivo dei celti e lo strato precedente, traumatico, di paure, all'arrivo degli indoeuropei), la paura dei romani e dei contadini e montanari celti vagamente romanizzati all'arrivo dei longobardi, e la paura dei longobardi al primo distruttivo arrivo degli avari e poi dei franchi, frammenti di sensazioni nascosti dentro i nomi, repipin(5), e via dicendo e trascorrendo, una paura dentro e dietro una paura, senza fine.
Qualcuno dice che con l'anno mille e dintorni nasce il popolo friulano come identità(6). Probabilmente è un'affermazione corretta, ma questo popolo friulano, che è riconoscibile dalla formazione della lingua e dalla generale adesione al cristianesimo aquileiese, geneticamente, cos'è e chi è?
Dopo gli ungari, la vastata hungarorum(f), cioè il territorio che comprende il medio e basso Friuli, una sorta di gigantesco semicerchio che raschia le colline e gli anfiteatri morenici e le prealpi carniche, reso un deserto d'uomini, edifici e campagne organizzate, è stata colmata con contadini croati, sloveni e serbi, con slavi insomma, ai quali, naturalmente, né i patriarchi che richiedono coloni, né i duchi slavi che munificamente li concedono in cambio di qualcosa di molto concreto, han loro chiesto il permesso di trasferirli brutalmente, in un fiat, da villaggi che magari si chiamano Belgrado, Goricizza, Santa Marizza ad altri luoghi ai quali dare pure nome Belgrado, Goricizza, Santa Marizza, usando le pietre e le travi delle macerie.
Si dirà, ma è l'irrazionalità dell'orgoglio, ché l'identità friulana è stata così forte da aver cancellato la precedente identità che, intanto, almeno per gli studiosi di toponomastica, resta tale.
Tanti stranieri di tutte le caratteristiche si sono incuneati in questo paese che l'immaginario dei vecchi tempi, che circolava come mito, leggenda o fiaba, può essersi inventato o arricchito a dismisura la figura del salvàn(7), ma non certo l'esistenza di linee di contenimento sul bordo delle valli per separare invasori franchi e ribelli longobardi rintanati nei luoghi più stretti, gli uni con le chiese dedicate a San Mauro e gli altri a San Martino (vecchi pagani, vecchi ariani, ognuno alla ricerca del protettore celeste più confacente)(8).
È dunque una storia di meticciato, culturalmente, religiosamente e linguisticamente unificato. Ma quanti santi e sante provengono da luoghi del neolitico e del mondo degli invasori ariani al nostro pantheon, rigorosamente monoteista? e questa Chiesa quanto è mediorientale, siriaca e alessandrina a partire da quel misterioso Marco la cui leggenda simbolico-corporale va da Alessandria a Venezia, ma che sosterrebbe a lungo ad Aquileia in diramazioni missionarie mitteleuropee?
Quanti correnti calde han percorso queste terre, lasciando sedimentazioni profonde e inconsce, come latine, bizantine, e cosa sono in questo contesto mediterraneo che fluttua nel Golfo Adriatico o Golfo di Venezia, Grado e Aquileia, rispetto a Cividale la longobarda, l'altogermanica, la feudale tutta investita da correnti fredde, slave e germaniche?
Si dirà che è pura e semplice storia di classi dirigenti che vanno e vengono, mentre è il popolo romanzo, il popolo contadino e cristiano che sta qui, fermo e immoto, sì che non di lotta di classe si tratterebbe per delineare le tante storie che incombono e s'intrecciano sul Friuli, quanto di lotte etniche in cui gli oppressi sono sempre gli stessi e mutano gli oppressori.
Ma anche questa è solo una verità, quella del catonismo, dove ogni classe dominante esalta il sangue, la terra e la lingua. E proprio in questo crogiolo si forma la diffidenza per il diverso, che in questo caso non è mai stato un diverso religioso a meno che non si voglia prendere in considerazione il lungo flusso ariano longobardo, e certe gelide correnti catare, distillate sempre, come il protestantesimo però o le misteriose credenze di Menocchio(9), o le vecchie mitologie collegate ai culti agrari. Vi è sempre un'alterità nei diversi, nonostante tocchi persone conosciute, persone della comunità di villaggio o del cerchio dei villaggi, che conducono un'operazione magica, sia essa benefica o malefica, a seconda delle interpretazioni, che li rende in qualche modo stranieri. Non provengono da lontano nello spazio, ma dal profondo di ognuno e nel profondo collettivo, evocando forze oscure, inconsce, forse addormentate, nonostante l'ingenuo richiamo alla Vergine o ai santi.
Infatti è stato uno studioso che veniva dall'esterno del cerchio virtuoso degli specialisti friulani a prendere e a trasformare queste storie, intendo quelle dei benandanti e del mugnaio Menocchio, in un mito generale e ben diffuso che dimostra, fra l'altro, come in realtà non ci siano stranieri.
Per le streghe occorre dire che esse rientrano nel discorso delle donne (ma chi è più straniero di chi hai al tuo fianco e non consideri, in fondo, tuo pari, ma un essere inferiore, supplementare, complementare forse?) ed è stato molto facile trasferire la corrente di odio puro che emana ogni volta che si affronta la questione stregoneria dal genere al caso particolare, quasi in una sorta di transfert.
Scaricando la misoginia maschile sulla strega come entità maligna, si libera la donna (apparentemente) dall'incantesimo che da essa fluisce verso il maschio e si alza il livello della fobia che si sente sempre più indotta a scaricare segrete tensioni. In questo senso, è liberatorio considerare la strega una straniera che proviene da territori sconosciuti e abitati da forze malvagie.
La donna è strega, strie, perché è donna, o è donna perché è strega? Un uomo insultato non viene definito stregone, ma una donna insultata, una donna vecchia e malandata, una vecchia povera sono definite streghe.
È più facile che la donna esemplare, e cioè la norma sognata, cioè inventata in funzione di quel che si vorrebbe e non in funzione di ciò che è in un mondo dominato dalla religione cattolica, un vero e prorpio concentrato di misoginia, venga definita santa, une sante.
Ma torniamo ai veri e propri stranieri. Essi coprono una vasta area che sarebbe da seguire con un'attenzione emotiva perché seguono i vari momenti di assetto ideologico dell'immaginario, il togliere, lo sfumare, l'aggiungere, il lodare, il disprezzare, il depositare per il futuro (lo zingaro, ad esempio, straniero anomalo che ha l'arroganza di viaggiare sempre, essere se stesso, l'ebreo, verso il quale l'atteggiamento è più sommesso che nei paesi slavi e tedeschi, anche se vi si appiccica intorno l'ostilità cattolica - uno degli insulti a Zanon, che si trova in una poesia satirica, è l'allusione ad una sua possibile origine ebraica che ci si affretta a smentire(10)).
Gli austriaci, i tedeschi in genere, godono di un'evidenza particolare. Nel loro caso la disinvoltura e la contraddizione raggiungono punte altissime da rilevatore sismico.
Dalla caduta dell'impero romano il Friuli è sempre stato dentro la corrente fredda germanica (dal VI secolo quella slava era subalterna, una cultura di emigranti in massa, montanari e contadini, la gran qualità dei toponimi lo evidenzia, e ha convissuto infilandosi a spina di pesce nelle vallate che entrano in Friuli da nord e da est, valli del Natisone, val Torre, val Resia, val Canale) dai longobardi ai franchi, dagli Ottoni agli Hohenstaufen fino alla prima metà del XIII secolo come reale potere politico, e per almeno altri due secoli, fino all'arrivo di Venezia, prima età del XV secolo, i mercanti tedeschi s'irradiavano dal Canal del Ferro, dal Passo di Monte Croce Carnico e da Venzone e da Gemona, per i cui abitanti l'alto tedesco o il carinziano erano quasi una seconda lingua proprio per la complessità giuridica ed economica dei traffici a quei mercati connessi.
Gli intellettuali scrivevano in tedesco e partecipavano a missioni diplomatiche e militari in uno spazio che andava dal mare del Nord al Baltico fino all'Adriatico. I grandi poeti tedeschi come Walther von der Vogelweide erano ospiti a Cividale di patriarchi tedeschi, intellettuali friulani scrivevano in tedesco libri di cortesia, certo erano intellettuali complessi che potevano scrivere in romanzo e in tedesco forse e sicuramente in latino e parlare in friulano nei luoghi di nascita come Tommasino di Cerchiaria(11). Gran parte della nobiltà friulana è di origine germanica, basta fare un piccolo sforzo linguistico leggendone i nomi ormai italianizzati da secoli. Gran parte dell'emigrazione stagionale friulana e carnica, compreso il grande flusso dei vari livelli di cramârs(12) è come un sistema sanguigno di andata e di ritorno dal cuore pulsante dell'attività economica dell'Impero (gran parte della terminologia tecnica friulana, quella della prima società industriale, è di origine tedesca, come di origine tedesca, in Carnia, è la patata, cartufule, quando il povero Zanon aveva invano tentato di portarne la coltivazione da ovest, cioè da Venezia, come sarà francese quella relativa all'edilizia e alle miniere dal primo dopoguerra in poi).
Normali sono le storie di soldati carnici o friulani che riconoscono casualmente un vecchio compagno di lavoro o un vecchio padrone nell'altra trincea, in qualche reggimento stiriano o carinziano, nella trincea di quello che è più straniero di tutti, lo straniero per eccellenza, il nemico.
Trasformare in nemico un vicino di casa, rimetterlo nel ruolo di amico, poi di ambiguo vicino, poi di amico-alleato (ma alleato era stato anche prima) e poi, di nuovo in nemico in una lotta antifascista che non era di sicuro il massimo dei sogni delle classi dominanti, rassicurate comunque da inglesi e americani, e poi di nuovo grande, grandissimo amico, almeno lungo il nostro crinale, con qualche perplessità sul crinale altoatesino, è un'operazione complessa che, pur faticosamente, è stata seguita ed eseguita con eccessiva disinvoltura (la coerenza non è una virtù all'interno di un sistema che si deve aggiornare continuamente. Come si sa, ogni esaudimento dei desideri o delle volontà restringe fatalmente la pelle di zigrino(13)), e se una volta questa complessa operazione educativa, atta a promuovere la naturalezza del consenso, passava direttamente dall'alto al basso e cioè dal pulpito ai fedeli, ora è distribuita orizzontalmente e circolarmente attraverso la stampa quotidiana e periodica, la radio è uno dei sogni dell'anima friulana che non manca di ricordare che questo possesso, attraverso la RAI, è gestito a Trieste da triestini che abitano dietro il trattino Friuli-Venezia Giulia e per questo non sanno niente dei friulani, anche perché, nel reclutamento, i friulani sono una minoranza che per di più non conta, anche in presenza di vistose smentite.
Comunque l'austriaco è pur sempre un forestiero, ma è anche un vicino di cui, da un po' di tempo in qua, si vantano eccessivamente le virtù. Questo popolo ha prodotto un numero incredibile di grandi scrittori (nella concentrazione pari, forse, all'Irlanda) e ne sta producendo ancora in numero rilevante, in cui, comunque, anche se volessimo escludere il distruttivo e tetro e assolutamente geniale Bernhard, prevale uno stato d'animo molto depresso verso i propri compatrioti.
Forse questi occhi crudeli sono il solo modo intelligente che possa avere uno scrittore per amare il proprio paese.
Il ritorno dell'immagine avviene su vari componenti dello spettro. Ruotando il cerchio, la luce si farà bianca e quindi, apparentemente, l'immaginario manda, su questa questione, la stessa pulsazione, ma se solo la velocità del cerchio rallenta, l'osservazione permette di cogliere diversi colori, diversi bagliori.
Non entriamo nel campo vasto e misterioso, fino a diventare banale e uniforme, di tutto ciò che va sotto il nome di mitteleuropeo. Facendo il percorso inverso dei barbari, lungo la soglia di Gorizia, attraverso le basse acque dell'Isonzo, dove guardava la cavalleria ungara e poi quella irregolare turca, quel certo Friuli goriziano può annaspare nelle acque danubiane, ma non è il Friuli, per essere schietti, è una certa idea di Friuli come abbiamo già osservato, filtrata attraverso le penne dell'aquila imperiale più che attraverso le penne-piume del leone (quasi quattrocento anni, generale Bonaparte che te ne stai nella villa dell'ultimo doge - I ga fato doge un furlan e la republica xe morta -, non sono pochi(14) per il Friuli cosiddetto veneto, sufficienti per modellare delle assolute diversità o delle caratteristiche originali).
In quel particolare Friuli, il ritorno imperiale, se è una retorica, e lo è, è almeno giustificato dal passato: settanta anni di sciovinismo italiano non possono aver nascosto mille anni di impero. Non c'è locale pubblico da Grado a Gradisca, da Gorizia a Cormons che non ostenti foto di Francesco Giuseppe, sciabole di ussari, documenti delle amministrazioni austriache (come nel Friuli veneto sono abbastanza comuni documenti delle amministrazioni venete napoleoniche, accuratamente strappati), foto di gruppo dell'altro esercito.
L'altro aspetto, che nasce evidentemente dalla crisi in atto dell'idea di questo Stato unitario e centralizzato, nonostante la retorica delle regioni, crisi che assume l'aspetto politico della Lega, è una sorta di innamoramento dell'idea dell'impero, dell'idea dell'Austria felix non solo come era, ma come è, o come dovrebbe essere o come si vuole che debba essere (che è poi l'equivalente dell'innamoramento, da parte delle élites delle classi dirigenti, per l'idea dell'Inghilterra, dagli studi agli abiti, dal tè al tabacco, alla politica, fino ad interpretare una struttura sociale quasi medievale, basata per caratteristiche assolutamente ineguagliabili - nel senso di irripetibili, senza peggiorativi o accrescitivi - su di un oppressivo maggioritario, come il non plus ultra per questo paese, caratterizzato proprio dalla complessa diversità delle realtà, innamoramento acritico che non vede distinzioni tra progressisti, conservatori e reazionari). È un culto piccolo borghese, che ha i suoi lati ideali, sentimentali, mimetici: mangiare come gli austriaci, vestire come gli austriaci, in loden, giacca e cappotto, cappelluccio di loden o di feltro con piumino - quanto al bere, pare che il vino sia meglio della birra, ma anche la Stiria ha dell'eccellente vino -, e pratici: depositare soldini evasi da questo Stato cattivo e messi a fruttare in banche austriache.
Il borghese non si smentisce mai: dietro ad un amore disinteressato e sfrenato ci trovi sempre un gretto interesse.
Questo meccanismo, nato da poco, ha qualche difficoltà ad entrare nell'immaginario friulano, per evidenti motivi, perché propone, in buona sostanza, di scivolare ad un altro immaginario.
Qui le fratture sono complesse, contraddittorie e antagoniste. Oramai c'è il Friuli tradizionale che vuol stare in mezzo, vuole l'Italia e vuole le sue tradizioni, si può avere ben tutto, capra e cavoli, la diversità nell'unità e poi c'è il Friuli autonomista con le sue varie sfumature fino a quella che vuole un Friuli nazione: un popolo, una lingua, un territorio dell'Europa delle piccole patrie, e così via, e c'è il Friuli degli sciovinisti per i quali non è mutato niente dal 1918 e se è mutato, tutto deve tornare come prima.
È qui che l'immaginario ha le sue difficoltà.
D'altra parte si scopre, poi, che è più facile stringersi ai tedeschi per potersi scagliare contro gli slavi, divertimento favorito dello sciovinismo locale il cui arco va dai fascisti a elementi della resistenza. Divertimento sciovinista, appunto, più che dell'immaginario locale, una parte del quale, anni fa, ingenuamente ha distribuito libriccini per scuole elementari in lingua friulana (non amati, fra l'altro, dalla scuola italiana) nelle valli slovene del Natisone, ma se ne è accorto e almeno se ne è imbarazzato.
Da centinaia di anni il friulano parla con il montanaro delle valli slovene, Natisone, Torre, Resia in lingua friulana, sapendo benissimo che l'altro conosce il friulano, ma gli risponderà nelle varianti slovene.
Qui l'immaginario tende a scindersi in un corretto ed onesto tentativo di collegare le due minoranze linguistiche ed etniche, la friulana e la slovena, in una sola lotta contro lo strapotere dell'idiozia italiota (in moltissimi casi è pura e semplice ignoranza dei problemi, delle loro origini, della loro naturalezza), ed un tentativo sciovinista di confondere lingua ed etnia con appartenenza totalizzante allo Stato italiano che ha una sola lingua come ha una sola religione, dove il friulano avrebbe l'unico merito, nel suo misero contesto di umile dialetto, di essere diretto figlio dell'aquila romana che, come tutti sanno, arrivò ad Aquileia, sulle rive della Natissa, per difendere disinteressatamente i diritti dei veneti oppressi dall'aggressione dei celti: parcere subiectis debellare superbos.
Ma i pastori slavi che i duchi longobardi delegarono a tappare ermeticamente tutte le vie d'entrata e d'uscita dell'Italia a nordest (tanto efficacemente che nel mare del Nord e nel Baltico, per i due secoli di dominio longobardo, cessano del tutto arrivi di materiali di commercio e di scambi con l'Adriatico(15)) trovarono modi di vivere e di convivere con i patriarchi e con Venezia. Modi di vivere e di convivere che si fecero difficili con l'arrivo dei prefetti dei Savoia e poi di Mussolini e assolutamente non facili con quelli della Repubblica, non convinti nemmeno dall'ondata monarchica e democristiana che sommerse le Valli.
È di minoranze, e non molto seguite, d'intellettuali friulani il tentativo di unire questi destini slavi e friulani.
Attività, documenti, manifestazioni, con testo friulano a fronte di testo sloveno compaiono costantemente, ma probabilmente non riescono a raggiungere la corrente normale dell'immaginario, dove domina, nel migliore dei casi, un atteggiamento paternalista verso il montanaro slavo e una perplessa incomprensione sulla sua necessità di essere slavo: come si fa ad essere slavi e a volerlo essere quando si ha la fortuna di vivere in Friuli?
Fra tutte le chances di questo montanaro, che comunque, nonostante tutto, straniero non è considerato, probabilmente sembra un friulano muto, c'è quella di essere cattolico, il che, se non altro, lo ha messo al riparo dalle attenzioni dell'inquisizione, che, oggi scopriamo, aveva scopi puramente educativi.
Però l'Italia non ha mai visto di buon occhio le prediche che un clero sloveno, - un tempo, da decenni non più - faceva nella sua lingua materna, tanto che i monaci sloveni del famoso e popolarissimo Santuario di Castelmonte, in cui è venerata una delle famose Madonne nere del mondo slavo, sono stati fatti sloggiare ancora sotto il Regno d'Italia e sostituiti con padri cappuccini. La religione è una lingua universale, non serve parlare con la Madonna in sloveno che è una lingua inferiore di senza storia (anche per ammissione del vecchio Karl Marx). Una maggior considerazione del problema da parte della Chiesa dà la possibilità di far prediche e catechismo in sloveno, ma è, oggi, l'estrema unzione ad un popolo distrutto dall'emigrazione, dal pregiudizio degli imbecilli e in tal modo disperso per le vie del mondo. Lo slavo in genere, comunque, è un salvadi (selvaggio) e ha l'aspetto molto vicino al detestato zingaro (cingar) che attenta sempre e comunque alla proprietà privata e a quella collettiva. Di fronte ai secoli, qualche decennio di forti pregiudizi anticomunisti si sono facilmente allineati a pregiudizi antislavi, ben presenti in certi ufficiali monarchici passati ad una resistenza caratterizzata da questa costante fobia slavo-comunista.
Che nazionalisti slavi, presenti nel fronte di liberazione e quindi nella formazione del IX Corpus, fossero la carta copiativa di quelli italiani non v'è dubbio. Tanto gli uni volevano di qua, quanto gli altri volevano di là. Il crescere di possibilità di vittoria degli Alleati, caso mai, aumentava le pretese degli uni e, specularmente, le preoccupazioni degli altri.
Caduto il sistema su cui si reggeva la Jugoslavia, una sottile crosta ideologica di meno di cinquant'anni in più di mille e trecento di immaginario collettivo slavo e cattolico, e cioè sostanzialmente conservatore e reazionario, non sarà difficile osservare la costanza di un atteggiamento. Dall'una e dall'altra parte i nazionalisti faranno il loro ottuso mestiere, ma i pregiudizi, nel popolo, non muteranno.
Ma, sostanzialmente, la sua antipatia per lo straniero, il suo senso di minacciata superiorità (v'è nell'inconscio un timore di persecuzione e di inferiorità) il friulano lo adopera a piene mani per i meridionali per i quali si sprecano nomignoli ed epiteti offensivi. E v'è probabilmente un crescendo vagamente isterico che si può agganciare al reale timore che si prova al vero altro, quello colorato in tutte le possibili varianti.
Questa sorta di miserabile ideologia (l'ideologia è certamente una falsa coscienza, ma è anche il riflesso di una concezione del mondo che può essere nobilitata dalle sue aspirazioni, appunto, sospettosamente ideali. Questo è uno scarto dei magazzini dell'ideologia che ha tutte le caratteristiche nazionali della miseria italiana) è un collante che ha momentaneamente unito tanti friulani nella Lega. Là dove i movimenti autonomistici avevano fallito o avevano ottenuto elettoralmente cifre modeste, proprio la diretta e violenta, plebea e, mi si consenta, vandeana aggressività istintiva, senza infingimenti e contorcimenti, ha ottenuto successo.
È un modo di essere fratelli del nord questa comunanza nella fantasia anticentralista (ma negli autonomisti era un sogno perbene) che comunque si esplicita nella fantasia delirante dello scavo di canali di separazione fra le varie parti d'Italia che sono parti della storia d'Italia, una storia di classi dominanti mediocri ed ottuse, prive di principi e di dignità, non di popoli mediocri ed ottusi, inefficienti ed incapaci, ché tali popoli non esistono.
Di questa mentalità l'immaginario si vergogna e non si vergogna e risolve il problema con la pratica della doppia verità: ufficialmente si dice una cosa (e cioè che gli italiani sono fratelli) e a livello popolare si dice esattamente il contrario. Come si sa: vox populi vox dei.
Questo meccanismo molto antico, dovuto a fatti storici inequivocabili, trova motivazioni in guerre fra poveri, naturalmente, e in giustificati sospetti verso un governo centrale rapace e poco solidale con le periferie (la piemontesizzazione d'Italia dei meridionalisti).
Il problema storico di fondo è che il Friuli, nonostante la sua supponenza mitteleuropea, appartiene di fatto all'area mediterranea, Braudel dixit(16). È, naturalmente, una delle porte del Mediterraneo, ma è Mediterraneo. E la sua Chiesa, così orgogliosa della sua diversità (non vuole partecipare ad incontri liturgici triveneti perché non si sente e non è Veneto), che è proprio strutturale più che linguistica e che avrebbe potuto anche essere liturgica se Roma non avesse agito pesantemente contro le velleità autonomistiche patriarcali, è una chiesa mediorientale.
Fino a un centinaio d'anni fa il Friuli era ancora la linea di limite dell'area dell'olio di oliva, e del vino, in cui si era introdotta, dai celti in poi, la cultura del maiale e dello strutto che ha accompagnato la misera gastronomia locale fino a quache decennio fa (misera da miseria, non nel senso sia da poco).
E allora il fatto di lavorare duramente fra montagne e pianure sterili riempite per centinaia di metri in profondità da ghiaie mette il friulano nella condizione di irridere a chi non lavorerebbe, a chi sarebbe un pigro per natura e per storia, pur godendo di una natura solare e benigna.
L'uomo non è razzista, lo diventa per motivi storici e sociali.
Il codice genetico ha memoria solo di condizioni e di attitudini ed abitudini determinate da condizioni ambientali e sociali, storiche in definitiva.
Ma questa irrisione è ambigua, ed è sempre venata da un rapporto incostante fra complesso di superiorità, complesso di persecuzione e complesso d'inferiorità. Una società contadina, lenta, impacciata, quasi inespressiva deve fronteggiare una società ben più complessa, altrettanto misera, calpestata e sfruttata, ma nello stesso tempo più agile, vivace e poi sempre diversa, ché il terrone può essere Napoli, ma può anche essere Palermo o Bari. Il grande teatro meridionale non può essere confrontato con Nico Pepe, né il teatro in friulano, misera cosa da filodrammatici, può essere paragonato a quello napoletano, così, tanto per elevare il tono dell'ingiuria, ma invertendola.
Il meridionale è per antonomasia non solo la rappresentazione della neghittosità e delle cattive abitudini gestuali - la vicinanza dell'Italia meridionale all'Africa e ai paesi arabi in genere la introduce sempre nel sillogismo tacco = Africa = arabi = beduini. Non salta mai in mente che l'Italia meridionale sia Magna grecia e che noi siamo, noi occidentali tutti, da tre millenni debitori, in maniera determinante ed assorbente dei greci. La questione meridionale è soltanto un'invenzione degli storici meridionali per giustificare uno spaventoso drenaggio dei fondi comuni che i fedeli e corrotti friulani, assieme a tutto il nord che paga le tasse con la stessa ossessività dei friulani, versano.
Nell'immaginario collettivo il friulano paga regolarmente le eccessive ed ingiuste tasse, mentre il meridionale non si cura di pagarle, il clientelismo politico è una malattia caratteristicamente meridionale, mentre in Friuli non si presenta, il friulano è efficiente mentre il meridionale non lo è.
L'ultimo danno che i meridionali procurano ai friulani è l'occupazione sistematica dei posti nell'apparato burocratico locale. Burocrazia ed apparato che sono sempre stati longobardi, franchi, tedeschi, e poi, con l'arrivo dei patriarchi guelfi dell'area romanza, lombardi e toscani e poi, in un crescendo d'inefficienza e pedanteria, veneti e italici, e poi, ecco, i taliàns che operano dall'alto del possesso della lingua di Dante (che è poi un possesso molto discutibile, molto manzoniano misto a forti inflessioni dialettali, piemontesi prima di tutto) il genocidio linguistico e la metodica distruzione dei toponimi attraverso l'impassibile e scientifico Istituto Geografico Militare.
Qui l'immaginario è cauto, appunto per la sua doppia anima che certamente sarebbe prima friulana e poi italiana, ma come si fa a parlar male della Patria! È più facile, logicamente, parlar male dell'esercito di burocrati che valicano Appennini e Po e approdano alle Alpi con il loro accento impossibile, la gestualità eccessiva (a teatro il pubblico friulano non è il massimo per un attore desideroso d'espansività verso la propria fatica), il servilismo verso i superiori e la prepotenza verso gli inferiori e la diffidenza verso i friulani (che sono, guarda caso, servili con i superiori e prepotenti con gli inferiori) che costringono a parlare in italiano.
Si è venuta formando così, sotto la corrente circolare dell'immaginario ufficiale, una corrente ben distribuita di ottuso e feroce razzismo nel cui cerchio, di tanto in tanto, vengono persino ammessi meridionali pentiti, uno dei quali per mesi, nel periodo del terremoto, ha espresso con i suoi costanti articoli di fondo sul giornale dei friulani che poi, guarda caso ed ironia, si chiama Veneto e non friulano, il più alto e concentrato brodo di coltura del luogo comune, del generico, dello sciovinismo, sì che friulano può certamente essere diventato, a livello ufficiale, sinonimo di sano, onesto, lavoratore indefesso, ligio ed oculato gestore del pubblico, ma probabilmente, a livello non ufficiale, di babbeo, come era secoli fa(17).
L'ultima volta che ha visto tanti uomini scuri (se si esclude qualche indiano dei reggimenti inglesi, o negro degli Stati Uniti che continua comunque a vedere ad Aviano) il contadino friulano è quando cavalcavano dentro i suoi miseri paesi uccidendo o razziando o rapendo donne e bambini, nei panni dei cavalieri irregolari turchi che guadavano l'Isonzo, il Tagliamento e la Livenza, alla fine del XV secolo. Sono passati quattro secoli, ma qualcosa è rimasto all'interno, e passato attraverso le generazioni.
Quel che non è passato, invece, è il viaggio inverso dell'uomo bianco, proprio a partire da quattro secoli fa, in tutte le direzioni della terra. Qualcuno dovrebbe spiegare alle anime belle che è un risultato dell'economia mondo, un risultato del mercato. Qualcuno dovrebbe anche spiegare perché se è passato un certo immaginario, non è passata una corretta informazione sugli effetti devastanti del colonialismo e dell'imperialismo.
Anche qui la doppia verità svolge la sua eterna e metodica passeggiata sui luoghi della storia comune, della psicologia collettiva e individuale, influisce ambiguamente sui comportamenti, ingenerando una confusa doppiezza che è miserevole e miserabile, in omaggio, appunto, ai due aspetti che assume.
Il cittadino, il friulano in questo caso, è abbandonato a se stesso e alle sue contraddizioni: interessi immediati e fastidio sociale da un lato (quasi nessuno tenta di spiegare che la maggior parte di questi uomini e di queste donne fa lavori che nessun italiano e nessun friulano farebbe più) e quel minimo di religione cattolica che gli è stata insegnata negli anni dell'infanzia, fra la comunione e la cresima.
Accade che qui, per la complessità del tessuto del passato che avvolge come un velo funebre i rapporti dei vivi (anche se non sempre, le mort saisit le vif(18)) gli aspetti non siano solo due, ma infiniti, quasi una sfaccettatura luminosa, caratterizzata come le impronte digitali, del comportamento individuale. In questa situatione si inserisce, però, in tutta la sua pesantezza, la Chiesa, e quella ufficiale e quella che ad essa fa costante riferimento.
Non è certo possibile tergiversare: l'immaginario cattolico, che è poi quello del comportamento collettivo dei friulani - ma lo è ancora, e in che misura e su quali terreni di verifica? - non può avere doppie verità che si contraddicono, poi, palesemente.
Ce n'è una sola: difendere sempre e in ogni occasione gli oppressi. Non si scappa. La Chiesa ufficiale può forse trovare tempi diplomatici lunghi e tortuosamente ambigui (basterà ricordare la chiesa friulana e la resistenza, i preti di campagna con i partigiani, l'apparato in complesse trattative con tedeschi e fascisti ad ogni livello per trovare soluzioni accettabili, umanitarie in ogni modo), ma la Chiesa-Chiesa, quella che è sempre sul posto qualunque giudizio di possa dare sul modo con cui sta in quel determinato posto, la parrocchia, la comunità che le ruota intorno, il gruppo di volontari, non può transigere; il diverso, qualunque sia il suo colore e la sua fede religiosa di partenza, deve essere difeso, protetto, vestito e nutrito e aiutato ad essere inserito nel contesto della vita sociale e lavorativa.
L'elastica struttura del cattolico, abituato a duemila anni di temperie, dentro il potere, fuori del potere, all'ombra del potere, permette al suo particolare immaginario (ma non mi riesce di pensare ad un immaginario friulano non legato in maniera ombelicale al pensiero cattolico) una serie di flessioni... contro la sua stessa natura, ma non può andare oltre certi limiti.
In qualche modo è il blocco storico oltre che della psicologia collettiva del friulano ad insorgere. Gli interessi materiali sempre più pressanti, la cattiva coscienza del proprio limite religioso, un generico umanitarismo riescono ancora a contenere entro certi limiti questo rapporto che sta diventando sempre di più un rapporto culturale definitivo con il mondo moderno.
Giunti a questo punto si cominciano a pagare puntualmente tutte le distorsioni, tutte le false coscienze, tutte le autoconsolatorie giustificazioni delle classi dirigenti, le eterne, immutabili classi dirigenti friulane (il plurale indica solo passaggi quantitativi di generazioni) alle quali cambiano le maschere e i nomi, ma la cui sostanza è sempre la stessa.
Mai, nella sua avida, atavica stupidità la piccola borghesia trionfante e generalizzata (tutte le classi dirigenti, oggi, sono piccola borghesia come atteggiamento e forma mentis, indipendentemente dalla struttura sociale classista da cui possono essere partite. Il kitsch è la sublimazione della piccola borghesia) aveva sventolato bandiere più becere e forcaiole e giustizialiste su interessi così elementari e scoperti, e mai come ora l'immaginario friulano, nei suoi contorcimenti di adattamento camaleontico, è finito con l'identificare la peggior parte di sé (quella degli Ostermann, dei Marinelli, dei Leicht, dei Paschini era pur sempre un degno e civile immaginario) con la peggior parte dell'immaginario generale di un'Italia sommersa, espressione rampante di una maggioranza silenziosa sempre vincitrice, sempre ingannata dai reali ceti dominanti sui cui agogna invano d'addivenire.
Il palese e latente, a seconda dei casi, razzismo antimeridionale e antiextracomunitario dei friulani viene alla resa dei conti con la sua matrice storica, il cattolicesimo particolare della chiesa aquileiese, il cui antico ossigeno ideologico, per le sue stesse caratteristiche iscritte nei quattro vangeli, non può assolutamente assecondare l'emergere del vero istinto naturale dell'anima piccolo borghese, Homais, il farmacista di Flaubert e i signori in bombetta e le signore in cappellino ed ombrellino immortalate nella loro mostruosa vacuità da Pudovkin ne La fine di San Pietroburgo, e da Eisenstein in Ottobre: piccoli, miseri interessi spiccioli legati al contingente (primo comandamento: non pagare le tasse), alla vita di tutti i giorni nella sua lampante durezza (il riflesso negativo del suo ideale immaginario), egoisticamente concentrato sul proprio io con l'esclusione di tutto ciò che è un peso sociale senza reale remunerazione: poveri, assistenza sociale, servizi sanitari, cultura, scuola e naturalmente, nuovi poveri, nuovi immigrati (lo specchio esatto del friulano di centocinquanta, cento, cinquanta, trenta anni fa, la sua disperata voglia di lavorare ad ogni costo, anche, quindi, di lavorare per meno, passando tranquillamente per crumiro presso gli operai, i muratori, i minatori francesi, belgi, svizzeri), il cui continuo fluire contro questa nuova cortina di ferro, nonostante tutto, non potrà essere risolto.
Pare evidente, dunque, il perplesso legame che lega la Chiesa, attraverso l'immaginario e attraverso le consuete pratiche sociali, a questi nuovi padroni la cui evidente mancanza di valori sociali e umanitari stride con la tradizione, in modo che, in questi ultimi tempi, si assiste ad una disoccupazione senza precedenti dell'intellettuale organico della società friulana, del prete, quando esso, per il vero, è tutto mobilitato sul versante sociale ed assistenziale, con un pericoloso vuoto negli spazi vacanti, fra i pori del potere.
In questo complesso e contraddittorio contesto, lo stato dell'immaginario appare incerto e confuso, perché incerta e confusa è la direzione verso cui intende marciare la classe dominante nel suo complesso che, nonostante il persistere tradizionale di anelli forti, è all'evidente ricerca di quell'ubi consistam che con tanta coerenza era sempre riuscita a ricomporre all'indomani di ogni cambiamento sociale e politico.
Nel crepuscolo dei vecchi dèi e dei vecchi valori (ma quando invecchia un valore come la solidarietà?) un'ombra grigia ed indistinta si sta diffondendo sul paesaggio sociale che ci circonda, rendendo tutto indistinto, atono, banale.
La sbrigativa e semplicistica religiosità volgarmente laica (cioè priva di reali valori mondani e spirituali) di chi si accontenta (perché non ha altro, né ci si è preoccupati di darglielo, e perché non vuole che gli altri vogliano altro) di un piccolo commercio concentrato in Dio, Patria e Famiglia, per lasciare ampio spazio, il maggior spazio possibile, al cannibalismo sociale cui siamo fatalmente votati, non può accontentare certamente né i laici intrisi dell'aura dei valori positivi e generali dello spirito del mondo moderno (che non è solo mercato - una rilettura o lettura (?) di Polany(g) ci dovrebbe far riflettere più attentamente su questa divinità cui si sta sacrificando acriticamente il mondo), né quei laici convinti tuttora che il socialismo non sia quell'utopia da babbei o da nostalgici retrogradi che si vuole, con strano accanimento, far accreditare come luogo comune, né la Chiesa, né, tanto meno, le persone sinceramente e profondamente religiose.
Man mano che scende l'oscurità si avverte già la necessità che qualcuno dica: "Va', metti una sentinella; ch'essa annunci quel che vedrà!", proprio perché dall'indistinto grigiore sorge la domanda continua: "Sentinella, a che punto è la notte?"(19).
Si sta avvicinando, nella meditazione e nella poca azione, il momento di una definitiva scelta di campo e, a questo punto preciso, l'immaginario non può pretendere di continuare ad essere il tranquillo fiume su cui viaggiano, indisturbati ed imperturbabili, i miti e i riti delle classi dominanti del momento.
Esso dunque dapprima deve spezzarsi e poi ricomporsi e poi ancora ricostruirsi, non più sotto il riflesso di una falsa coscienza che proviene da un'anima, forse melanconica, ma abbassata a livelli triviali e banalizzanti, ma sotto il riflesso e l'impulso di una lotta politica e sociale che può non essere delegata alle anime belle che in ogni situazione difficile emergono e si mettono in movimento. In qualunque modo possa finire la vicenda non si farebbe altro che riproporre una direzione egemonica di élites ad un immaginario la cui capacità di assorbimento e di assestamento è senza pari.
Poiché avere una tradizione è meno che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla(20).

Tito Maniacco, marzo 1994 - aprile 1995

da L'ideologia friulana. Critica dell'immaginario collettivo di Tito Maniacco, Kappa Vu 2010

*

(a) Le mie note al testo di Maniacco saranno probabilmente influenzate dal fatto che vengo da un soggiorno italiano, dopo il quale mi ci vorrebbe un lungo periodo di decantazione per farmi uscire dalla testa almeno la frase che più spesso ho letto e sentito nelle ultime settimane: l'Italia non è la Grecia-l'Italia non è la Grecia-l'Italia non è la Grecia(b1, b2)...
(b1) Qualche volta seguita dal corollario: e neanche la Spagna-e neanche la Spagna-e neanche la Spagna...
(b2) Come si fa a ridurre un intero paese, inclusa la sua popolazione, la sua cultura e la sua storia - con una bruttissima sineddoche(c), tra l'altro - al suo solo salvadanaio?
(c) Sineddoche che, senza la Grecia, non avremmo nemmeno nel nostro vocabolario.
(d) Così non si può più andare avanti.
Perché avete lasciato che i nostri figli fossero educati dai borghesi? Perché avete permesso che le nostre case fossero costruite dai borghesi? Perché avete tollerato che le nostre anime fossero tentate dai borghesi? Perché avete protestato solo a parole mentre pian piano la nostra cultura si andava trasformando in una cultura borghese? Perché avete accettato che i nostri corpi vivessero una cultura borghese? Perché non vi siete ribellati alla nostra ansia, che si giustificava giorno per giorno con lo strappare qualcosa alla miseria, ad avere una vita borghese? Perché vi siete condotti in modo da trovarvi di fronte a questo fatto compiuto, e, vedendo che ormai non c'era più niente da fare, eravate disposti a salvare il salvabile, partecipando, realisticamente, al potere borghese? Così non si può più andare avanti
Bisognerà tornare indietro, e ricominciare daccapo. Perché i nostri figli non siano educati dai borghesi, perché le nostre case non siano costruite dai borghesi, perché le nostre anime non siano tentate dai borghesi. Perché se la nostra cultura non potrà e non dovrà più essere la cultura della povertà, si trasformi in una cultura comunista. Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari.
Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo daccapo.
Non vi troverete più di fronte al fatto compiuto di un potere borghese ormai destinato a essere eterno. Il vostro problema non sarà più il problema di salvare il salvabile. Nessun compromesso. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari.
Pier Paolo Pasolini, Appunti per una poesia in terrone, La nuova gioventù, Einaudi.
(f) Pare che sia una storpiatura di via vel strata Hungarorum, corrispondente alla via Postumia.
(g) Polányi.

(continua)

(1) Messaggero Veneto, prima pagina, venerdì 25 febbraio '94.
(2) Eschilo, Le Eumenidi, Episodio III.
(3) V. Majakovskij, Il poema Lenin, XI(e).
(e)            Мы и кухарку
каждую
             выучим
                          управлять государством!

                 A ogni semplice cuoca
insegneremo
                 a guidare
                              lo stato!

Vladímir Majakosvkij, Lènin, Einaudi 1967, traduzione di Angelo Maria Ripellino
(4) L. Accati, Il marito della santa. Ruolo paterno, ruolo materno e politica italiana, Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali, 13 pagg. 79-104.
(5) Cfr. L'Europa barbara e feudale, in Storia d'Italia e d'Europa, a cura di U. Guidetti, Iaca Book, 1978, cap. VIII, pag. 176 "... dell'invasione franca sono messi per lo più in risalto i lati negativi, gli episodi di crudeltà... il nome di Pipino dato in Friuli ad un uccellino che altrove è detto régolo, animaletto piccolo e voracissimo". Cfr. G. Faggin, Vocabolario della lingua friulana, Del Bianco, 1985: repipin (zool.) régolo, fiorrrancino (Regulus regulus...).
(6) Menis, Storia del Friuli.
(7) Il nuovo Pirona, Vocabolario friulano: Salvàn = Silvano, om di bosc, om salvadi di bosc, protagonista di molte favole carniche.
(8) G. Biasutti, La lunga fine dei Longobardi in Friuli, Udine, 1979.
(9) C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, 1976; A. Del Col (a cura di) Domenico Scandella detto Menocchio, Biblioteca dell'Immagine, 1990.
(19) G. Biasutti, La mala lingua di un poeta satirico di sangue blu contro il "meccanismo" del ghetto, sta in A. Zanon, Friulano illustre, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Udine, 1975.
(11) J.P. Cuvillier, Storia della Germania medievale, Sansoni, 1985. VI, I pag. 410; G. von Zahn, Studi friulani, Udine, 1888.
(12) F. Bianco, D. Molfetta, Cramârs, l'emigrazione dalla montagna carnica in età moderna (Secoli XVI-XIX), C.C.I.A.A. Udine, 1992.
(13) H. de Balzac, La pelle di zigrino. Come è noto è una pelle che, secondo la leggenda, si restringe ogni volta che viene espresso ed esaudito un desiderio.
(14) Manin Ludovico depose la carica di doge nel 1794 sotto la minaccia di Bonaparte. Antica famiglia friulana.
(15) L. Musset, Le invasioni barbariche. Le ondate germaniche, Mursia, 1989, III, I pag. 140.
(16) F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II. Einaudi, 1976; R. Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità V. Il Mediterraneo.
(17) P. Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Einaudi, 1973. Modo nuovo de intendere la lingua zerga: Furlano = Menchione (pag. 218).
(18) Il morto afferra il vivo, trascina con sé. K. Marx, Il Capitale, prefazione alla prima edizione del 1867, pag. 17, ed. Rinascita, 1956, Libro primo, I.
(19) Isaia, 21-6 e 221-11.
(20) C. Pavese, Prefazione a Moby Dick o la balena, Adelphi, 1987; sta anche in Saggi letterari, in Opere, Herman Melville, Einaudi, 1968.

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