domenica 21 agosto 2011

Pensando alla Libia

En icelle estoit le pays de Satin, tant renommé entre les pages de Cour: duquel les arbres et herbes ne perdoient fleurs ne feuilles, et estoient de damas et velours figuré.
Rabelais, Pantagruel, Livre V, Chapitre XXX, Comment nous visitasmes le pays de Satin, pages 298-302
(it.)


et vismes un petit vieillard bossu, contrefait et monstrueux; on le nommoit Ouy-dire : il avoit la gueule fendue jusques aux aureilles, et dedans la gueule sept langues, et chaque langue fendue en sept parties ; quoy que ce fust, de toutes sept ensemblement parloit divers propos et langages divers : avoit aussi parmy la teste et le reste du corps autant d'aureilles comme jadis eut Argus d'yeux ; au reste estoit aveugle et paralytique des jambes.
Rabelais, Pantagruel, Livre V, Chapitre XXXI, Comment au pays de Satin nous veismes Ouy-dire, tenant escole de tesmoignerie, pages 302-305
(it.)

Sentite questa, oggi, se vi va. Pur se superfluamente, vorrei provare a parlare un po' anch'io della Libia, anche se non l'ho mai vista, anche senza muovermi di un millimetro dalla mia sedia. Anzi, proprio per questo.

Lo faccio, come è facile capire, partendo da Rabelais. Attraverso la lunghissima serie di lenti che sono frapposte tra me e Rabelais, costituite dal vetro del tempo che ci separa, in senso assoluto ma anche nel senso che lui ha colto del suo tempo e in quello che io colgo del mio, dal vetro dei ricordi che ho serbato ed elaborato da una ormai datata lettura dei suoi testi, dal vetro delle lenti dell'interprete che ho incontrato di recente (Lucien Febvre, Le problème de l'incroyance au XVIe siècle. La religion de Rabelais, Albin Michel, 2003), che è un vetro sbozzato anche dall'azione delle turbolenze dell'anno in cui l'interprete ha scritto, il 1942, attraverso tutte queste infinite lenti, dicevo, la visione che ho complessivamente filtrato da quest'ultimo incontro è molto sfocata, tanto che per onestà, forse, non dovrei riportarne proprio niente. Eppure cercare di riportarne anche solo una piccola parte malgrado tutto questo, oggi - eccezionalmente - ha un minimo di senso perché fa parte dell'esercizio stesso.

Tra le ombre sfocate intraviste qua e là nel corso dell'incontro con Febvre e dal conseguente risfogliare Rabelais, c'è in effetti una scena che mi appare messa a fuoco alla perfezione e quindi estremamente nitida, molto probabilmente per una combinazione più che casuale nella disposizione delle lenti che ho detto, che ne ha allineato sulla stessa retta i successivi fuochi, potenziando a dismisura la visione che ne ho tratto. Febvre, in un capitolo della sua opera, interpreta il paese di Satin del libro V di Pantagruele alla luce del carattere meramente compilatorio di molte opere che erano state pubblicate poco prima della nascita di Rabelais e durante la sua vita. Nelle pagine dedicate da Rabelais a Satin, un paese tappezzato di damasco e velluto, domina il ritornello "et tout par Ouy-dire" (o nella variante ortografica Ouï-dire, cioè Sentito dire): sono, come tutto il libro V, pagine del 1564 e non si sa nemmeno per certo se siano state scritte effettivamente da Rabelais (altra lente?). Febvre, per giustificare la propria interpretazione, ne nomina molte, di tali opere compilatorie, tra le quali compaiono gli Astronomici Veteres, Manuzio, Venezia, 1449, le Herbarum vivae icones ad naturae imitationem effigiatae di Otto Brunfels, Argentorati, Strasburgo, 1530, l'Historia stirpium di Fuchs, Officina Isingriniana, Basilea, 1542, le Historiae animalium di Gessner, Froschauer, Zurigo, 1551, i Poissons di Rondibilis, Lione, 1554, De re metallica di Agricola, Froben, Basilea, 1555, ecc. ecc., se vogliamo tralasciare (ma non vogliamo) la pubblicazione delle opere del sapere antico, greco e latino (l'Historia naturalis di Plinio, Giovanni da Spira, Venezia, 1469, la Cosmografia di Tolomeo, Lapi, Bologna, 1475, De historia animalium di Aristotele, Manuzio, Venezia, 1495-1498,  l'Historia plantarum di Teofrasto, Manuzio, Venezia, 1495-1498, le opere di Galeno, Manuzio, Venezia, 1525, e quelle di Ippocrate, Manuzio, Venezia, 1526, gli Elementi di Euclide, Hervagius, Basilea, 1533, le Opere di Archimede, Hervagius, Basilea, 1544) e naturalmente l'opera di Avicenna (1473, 1476 e 1491).

Senza alcuna intenzione di mettere minimamente in discussione l'interpretazione di Febvre, che è serissima e ragionata e ha il pregio di colpire al cuore la bizzarra ma radicata idea per cui gli uomini del Rinascimento venerassero incondizionatamente tutti i libri, tuttavia la scena nitida di cui dicevo non vuole proprio togliersi dai miei occhi di oggi ed è semplicemente il ritratto - rabelaisiano o meno, poco importa, in questa sede - del vecchio gobbo Ouy-dire, cieco perché non ha bisogno di vedere, dalle gambe paralitiche perché non ha bisogno di spostarsi per conoscere, tutto orecchi per poter sentire i "sentito dire" e dotato di una bocca estesa fino alle orecchie e di sette lingue, ciascuna ripartita in sette parti, per poter riportare ad altri, in tutte le lingue del mondo e tutti i giorni della settimana, ciò che ha sentito dire. Ouy-dire è circondato da un vasto uditorio di uomini e donne che ascolta con attenzione ed impara tutto molto rapidamente (en peu d'heures), senza particolari sforzi: gli basta in effetti pochissimo tempo per farlo e tutto per Sentito dire.

A questo punto, per completare l'esercizio, prima di alzarmi dalla sedia, dovrei almeno corredare il reportage con una foto, non necessariamente informativa (qualsiasi cosa può andare bene: la foto di una gazzella, per esempio, va benone). Chiaramente, non intendo sottrarmi a questa regola basilare: che Sentito dire sia il personaggio del 51° disegno e che il mantello gli copra tutte le orecchie?

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