mercoledì 17 novembre 2010

101 ragioni per imparare l'ungherese - 11

Per scoprire chi è quel burlone di un ungherese che, dalla sera alla mattina, e per il solo gusto di prendersi gioco di Dante, ha cambiato il sì ungherese da  a igen.

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Dante aveva fatto un unico ceppo delle lingue di slavi, ungheresi, tedeschi, sassoni ed inglesi, accomunandole tra loro in base al modo comune di dire sì (jo). Una svista, un sentito dire non verificato, una gran sparata, chissà. Senza che il fascino del suo trattato ne abbia risentito di una iota, tra l'altro.


Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Jacopo Corbinelli, Parigi, 1577

La copia da cui sono tratte le immagini è la copia del De vulgari eloquentia e reca delle note manoscritte gustosissime. Ne riporto solo due, per lasciare a quelli che si perdono in cose così il piacere di trovare le altre. 

J'ai acheté ce livre le 26. Novemb. 1754. Fr. Jos. Des Billons. Soc. J.
Ho acquistato questo libro il 26 novembre 1754. Fr. Jos. Des Billons. Soc. J.



Aggiornamento: se leggete i commenti, vi troverete un bellissimo errata corrige.

10 commenti:

  1. E Dante aveva ragione. Tanto che anche l’accento era a posto, benché gli ignoranti tipografi l’abbiano cambiato da acuto in grave.

    Perché Dante sapeva benissimo l’ungherese. Lo prova il verso 31.67 dell’Inferno, dove Nimrod – il quale, secondo la leggenda d’origine ungherese, registrata dal cronista Simon Kézai appunto quando Dante ha scritto il De vulgari eloquentia, era il proavo degli ungheresi – dice questo: Raphèl mai amècche zabì almi. Questo, come lo prova in un Festschrift del 2009 [pdf] il professore László Szörényi, direttore dell’Istituto di Letteratura Ungherese ed ex ambasciatore italiano, un grande polistore di cui non si sa mai quando scherza e quando parla sul serio, significa nell’ungherese dell’epoca: “Questo carcere [mi] costringe di stare qui.”

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  2. Di fretta, una prima osservazione, ma di cuore proprio: !
    Seconda: lo sapeva benissimo?
    Terza: grazie, non sai quanto.
    Quarta: clicco tutto stasera.
    Quinta: è la ragione numero 102.
    Sesta: grazie.

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  3. Cliccato. Secondo me Szörényi scherza come probabilmente ha scherzato Dante. Il verso si potrebbe naturalmente interpretare - come si fa da secoli - come un tentativo di trascrizione di una lingua anche appena appena nota a Dante. A me, però, riesce difficile per un solo motivo, estremamente semplice, che sta tutto nelle parole successive di Virgilio: il linguaggio "ch'a nullo è noto", dice Virgilio. Dante, con le parole, può permettersi tutto, può plasmarle a suo piacimento, usare metafore ardite, proporre visioni immaginifiche, e può anche camuffare, mascherare, persino mentire (salvo dove la poesia è cristallina - là non mente), per il gusto di farlo o per inviare messaggi ai suoi avversari politici, ma come pensare che Dante possa attribuire a Virgilio delle parole false?

    P.S. Ho conosciuto dei Sereni a Trieste. Come molti cognomi di quelle parti, potrebbero essere stati italianizzati. Forse proprio da Szörényi.

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  4. Sì. Non volevo essere io a rompere il gioco, ma Szörényi veramente scherza. Come è molto adatto a un essay dedicato in un Festschrift a un vecchio amico, lui presenta con tutta serietà e in una perfetta armatura filologica una cosa chiaramente impossibile, tanto da renderlo quasi credibile. Ma come si vede, in nessun modo può imbrogliare qualcuna che è fedele allo spirito di Dante.

    Però l’altra cosa, quello del è vero. in ungherese significa ‘buono’ e ‘bene’, e in questo secondo significato adverbiale si usa come un equivalente di ‘igen’. Forse Dante l’ha sentito a Roma nel 1300 dai pellegrinaggi ungheresi, e l’avrà trovato molto opportuno alla sua teoria. Almeno è così che lo dicono i dantisti ungheresi, anche quando non scherzano.

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  5. L'altra cosa l'avevo capita appena ho letto il tuo commento: jó è tra le prime parole ungheresi che ho imparato. Come ben sai, la prima in assoluto è bor. Insieme stanno pure bene e ne ho derivato la prima frase che abbia mai pensato in ungherese: bor jó.

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  6. No, no, finiamo di scherzare. A magyar bor talán különleges, de nem jó. Su questo ho già scritto la mia opinione che sicuramente farà bollire la sangue di tanti miei compatrioti, però magis amica veritas.

    C’è un famoso film del 1969, A tanú, “Il testimone” di Péter Bacsó, una caricatura fenomenale dello stalinismo ungherese degli anni 50. Uno dei suoi episodi più memorabili è quando la cooperativa riceve il comando dal centro del partito che devono produrre arancia. Come ovviamente non riescono di farlo, per non fare brutta figura alla visita del primo segretario, comprano un pezzo di limone e lo attaccano su un alberino. Il segretario – che ha già provato l’arancia nell’Unione Sovietica – l’assaggia, e con una smorfia amara chiede a loro: “Ma è arancia, questa?” “Sì che è arancia.” “Ma è aspra!” “Sì… E’ aspra… e piccola… Ma è nostra!” Così stiamo con il vino ungherese.

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  7. :-)

    Come Szörényi, non scherzavo: volevo solo provocare i francesi e far bollire il loro, di sangue.

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  8. Io voi due potrei starvi a sentire tranquillamente per una settimana filata.

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  9. Allora, visto che siete tutti e due qua, ne approfitto per dirvi che anche se commento poco o non commento (ancora) affatto da voi, vi leggo entrambi con molto piacere, che se questo blog in qualche modo prosegue è anche grazie a voi e che l'aver passato qualche giorno a Francoforte, dove ho vissuto fino all'anno scorso, mi ha fatto definitivamente capire che non è vero che non ci si possa bagnare due volte nello stesso fiume: nel Meno non ci si può bagnare proprio (dicono che Schopenhauer vi nuotasse regolarmente: questa cosa mi fa pensare molto di più allo scorrere del tempo e al divenire che Eraclito, Cratilo e i miei freschissimi 40 anni messi assieme).

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