sabato 10 novembre 2012

Frische Feigen

Der hat noch niemals eine Speise erfahren, nie eine Speise durchgemacht, der immer Maß mit ihr hielt. So lernt man allenfalls den Genuß an ihr, nie aber die Gier nach ihr kennen, den Abweg von der ebenen Straße des Appetits, der in den Urwald des Fraßes führt. Im Fraße nämlich kommen die beiden zusammen: die Maßlosigkeit des Verlangens und die Gleichförmigkeit dessen, woran es sich stillt. Fressen, das meint vor allem: Eines, mit Stumpf und Stiel. Kein Zweifel, daß es tiefer ins Vertilgte hineinlangt als der Genuß. So wenn man in die Mortadella hineinbeißt wie in ein Brot, in die Melone sich hineinwühhlt wie in ein Kissen, Kaviar aus knisterndem Papier schleckt und über einer Kugel von Edamer Käse alles, was sonst auf Erden eßbar ist, einfach vergißt. - Wie ich das zum ersten Male erfuhr? Es war vor einer der schwersten Entscheidungen. Ein Brief war einzuwerfen oder zu zerreißen. Seit zwei Tagen trug ich ihn bei mir, seit einigen Stunden aber, ohne daran zu denken. Denn mit der lärmenden Kleinbahn war ich durch die sonnenzerfressene Landschaft nach Secondigliano hinauf gefahren. Feierlich lag das Dorf in der Alltagsstille. Einzige Spur vom verrauschten Sonntag die Stangen, an denen leuchtende Räder geschwungen, Raketenkreuze sich entzündet hatten. Nun standen sie nackt da. Einige trugen auf halber Höhe ein Schild mit der Figur eines Heiligen aus Neapel oder der eines Tiers. Weiber saßen in den geöffneten Scheuern und klaubten Mais. Ich schlenderte betäubt meines Weges, da sah ich im Schatten einen Karren mit Feigen stehen. Es war Müßiggang, daß ich drauf zuging, Verschwendung, daß ich für wenige Soldi mir ein halbes Pfund geben ließ. Die Frau wog reichlich. Als aber die schwarzen, blauen, hellgrünen, violetten und braunen Früchte auf der Schale der Handwaage lagen, zeigte es sich, daß sie kein Papier zum Einschlagen hatte. Die Hausfrauen von Secondigliano bringen ihre Gefäße mit und auf Globetrotter war sie nicht eingerichtet. Ich aber schämte mich, die Früchte im Stich zu lassen. Und so ging ich, Feigen in den Hosentaschen und im Jackett, Feigen in beiden vor mich hingestreckten Händen, Feigen im Munde, von dannen. Ich konnte jetzt mit Essen nicht aufhören, mußte versuchen, so schnell wie möglich der Masse von drallen Früchten, die mich befallen hatten, mich zu erwehren. Aber das war kein Essen mehr, eher ein Bad, so drang das harzige Aroma durch meine Sachen, so haftete es an meinen Händen, so schwangerte es die Luft, durch die ich meine Last vor mich hintrug. Und dann kam die Paßhöhe des Geschmacks, auf der, wenn Überdruß und Ekel, die letzten Kehren, bezwungen sind, der Ausblick in eine ungeahnte Gaumenlandschaft sich öffnet: eine fade, schwellenlose, grünliche Flut der Gier, die von nichts mehr weiß als vom strähnigen, faserigen Wogen des offenen Fruchtfleisches, die restlose Verwandlung von Genuß in Gewohnheit, von Gewohnheit in Laster. Haß gegen diese Feigen stieg in mir auf, ich hatte es eilig aufzuräumen, frei zu werden, all dies Strotzende, Platzende von mir abzutun, ich aß, um es zu vernichten. Der Biß hatte seinen ältesten Willen wiedergefunden. Als ich die letzte Feige vom Grund meiner Tasche losriß, klebte an ihr der Brief. Sein Schicksal war besiegelt, auch er mußte der großen Reinigung zum Opfer fallen; ich nahm ihn und zerriß ihn in tausend Stücke.

Walter Benjamin
Gesammelte Schriften, IV 


Fichi freschi

Non ha mai conosciuto un cibo, né lo ha mai gustato fino in fondo, chi si sia sempre attenuto a moderazione. Così se ne può conoscere tutt'al più il sapore, ma mai il provarne avidità, il discostarsi dalla strada piatta dell'appetito, che conduce alla foresta primordiale del pasto degli animali. Quando gli animali mangiano, infatti, le due cose si combinano: la dismisura della voglia e l'uniformità di quello di cui si placa. Divorare vuol dire, prima di tutto, spazzolare tutto, senza lasciare alcun resto. Non c'è dubbio che si tratta di eliminare, più che di assaporare. Come quando si addenta la mortadella come se fosse pane, si affonda in un melone come se fosse un cuscino, si lecca il caviale dalla carta crepitante, si dimentica semplicemente, dinanzi ad una forma di Edamer, tutto quello che altrimenti c'è di commestibile sulla terra. Come l'ho avvertito la prima volta? Mi capitò prima di una delle decisioni più difficili. C'era una lettera da imbucare o da strappare. Era due giorni che la portavo con me, da alcune ore, però, senza pensarci. Perché, con il chiassoso treno su binari a scartamento ridotto, attraverso un paesaggio divorato dal sole, avevo raggiunto Secondigliano. Nonostante il giorno festivo, il paese era sprofondato nella calma di un qualsiasi giorno infrasettimanale. Unica traccia della caciara della domenica, i pali ai quali avevano oscillato delle ruote luminose, erano state accese delle croci fatte di razzi. Ora erano lì, nudi. Alcuni sostenevano a metà altezza un cartello raffigurante un santo napoletano o un animale. Donne sedute nei fienili aperti, sgranando mais. Stavo gironzolando inebetito per la mia strada quando vidi stagliarsi, all'ombra, un carretto con dei fichi. Fu l'ozio, ad attrarmi, e la tendenza allo sperpero, a farmene dare un quarto di chilo per pochi soldi. La donna ne pesò ben di più. Dopo però che ebbe posato i frutti - neri, blu, verde chiaro, violetti e bruni - sul piatto della bilancia a mano, saltò fuori che non aveva carta per avvolgerli. Le casalinghe di Secondigliano portano con sé i loro recipienti e lei non era preparata ad un globetrotter. Io però mi vergognai di lasciare i frutti in asso. E così me ne andai via da lì con fichi nelle tasche dei pantaloni e nella giacca, fichi in tutte e due le mani protese, fichi in bocca. A quel punto non fui più in grado di smettere di mangiare, dovetti tentare di difendermi il più rapidamente possibile dalla massa dei frutti rotondeggianti che mi avevano assalito. Ma non si trattava più di un mangiare, quanto piuttosto di un bagnarsi, tanto l'aroma appiccicoso era penetrato attraverso le mie cose, aveva aderito alle mani ed ingravidato l'aria attraverso cui stavo portando il mio carico dinanzi a me. E poi arrivò il vertice del gusto, all'altezza del passo di montagna dove, superati nausea e voltastomaco, gli ultimi tornanti, la vista si spalancava in un inaspettato panorama del palato: un flusso insipido, piatto, verdastro di voracità che non avverte più altro se non il fluttuare a ciocche, a fibre, della polpa aperta del frutto, la metamorfosi completa del piacere in abitudine, dell'abitudine in vizio. Mi montò un odio nei confronti di quei fichi, dovevo improvvisamente sbarazzarmene, liberarmene, togliere di mezzo tutta quella materia debordante, in procinto di scoppiare, e la mangiai per annientarla. Il morso aveva ritrovato la sua volontà ancestrale. Quando staccai l'ultimo fico dal fondo della mia tasca, gli si appiccicò la lettera. Il suo destino era segnato, anche lei doveva cadere vittima del grande repulisti: la presi e la strappai in mille pezzi.

Scritto a Capri nell'estate del 1924, mi appare come un denso concentrato di contraddizioni, pulsioni contrastanti e scarti (tutte cose positive), nel loro stare in bilico tra voglia, desiderio, appagamento e nausea, tra creazione e annientamento, che tuttavia si risolvono in un percorso circolare perfetto: una lettera avvolta nel mistero, destinata a fissare in forma di parole scritte delle considerazioni e dei ricordi, molto probabilmente legati, direttamente o indirettamente, alla sua esperienza di quell'estate caprese, indirizzata ad un amico ignoto, lettera che viene strappata e non giungerà mai a destinazione, una memoria scritta che soccombe in favore del ricordo del vissuto di un istinto primordiale, che resta invece inciso in profondità, appiccicoso come un fico, nella memoria personale di Benjamin, e in quella dei suoi lettori, grazie ad una sua seconda scrittura su carta, per fortuna non strappata e giunta a pubblicazione, sulla Frankfurter Zeitung, nel 1930. 

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