venerdì 4 novembre 2011

Łydki

Wiersz
Horyzonty pękają jak flaszki zielona plama pęcznieje
pod chmury przenoszę się znowu do cienia pod sosny
— stąd:
dopijam chciwym haustem
moją codzienną wiosnę.

Moje tłumaczenie
Łydki, łydki, łydki, łydki, łydki, łydki, łydki
Łydki, łydki, łydki, łydki, łydki
— Łydka :
łydka, łydka, łydka
łydki, łydki, łydki.

Witold Gombrowicz, Ferdydurke


Poesia
Gli orizzonti scoppiano come bottiglie una macchia verde gonfia
sotto le nuvole ritorno all'ombra dei pini
— per cui:
aspiro con bocca avida
la mia primavera quotidiana.

Mia traduzione
Polpacci, polpacci, polpacci, polpacci, polpacci, polpacci, polpacci
Polpacci, polpacci, polpacci, polpacci, polpacci
— Polpaccio:
polpaccio, polpaccio, polpaccio
polpacci, polpacci, polpacci.

Copertina della prima edizione di Ferdydurke, illustrazioni di Bruno Schulz, Rój, Varsavia, 1938, Museo della letteratura Adam Mickiewicz
*

La conferenza di Bruno

Temo di essermi eccessivamente dilungato sul tema "Oriente-Occidente" e "polacco-europeo", ma solo perché il nostro dialogo è destinato al lettore occidentale, che si sentirà particolarmente incuriosito dal mio preteso "complesso di inferiorità" nei confronti dell'Occidente. Eh no, signori: troppo facile! Torno a ripetere che qui non si tratta di complessi, ma di qualcosa di più grave, ossia di reale inferiorità e reale superiorità.
È ora di osservare che quella specie di sfogo che fu per me Ferdydurke non si limitava soltanto a quei problemi, ma che vi si agitavano anche contenuti più ardui e confidenziali.
All'incirca nel momento in cui mi accingevo a entrare in chiesa con il cappello in testa, il mio eccellente amico Bruno Schulz (troppo poco noto in Francia) arrivava a Varsavia dalla Galizia orientale per tenere una conferenza su Ferdydurke presso la Società dei Letterati. Una conferenza che suscitò le proteste dei corifei della Letteratura Polacca Matura riuniti in sala, dimostrando che il mio pamphlet almeno una tempesta in un bicchier d'acqua era capace di suscitarla. In quella conferenza Bruno espose una delle analisi più profonde che siano mai state fatte di Ferdydurke, cosa tanto più degna di nota in quanto accadeva in tempi antidiluviani.
Tra le altre cose, Bruno sottolineò la "zona di sottocultura" in cui si svolgeva il mio romanzo e il suo "corredo di forme di categoria inferiore".

Roux: Che cosa significa?

Gombrowicz: Che in Ferdydurke si svela un mondo inferiore, vergognoso, difficile da confessare e da esprimere (che tuttavia non è il mondo dell'istinto e del subconscio in senso freudiano), e che è il risultato del seguente processo: nei nostri rapporti con gli altri desideriamo apparire il più possibile colti, superiori e maturi, per cui usiamo un linguaggio maturo, con termini quali il Bene, il Bello, il Vero. Ma poiché nel nostro intimo ci sentiamo insufficienti e immaturi, quegli altisonanti ideali crollano rovinosamente e noi li sostituiamo con una nostra mitologia privata che è, sì, cultura, ma una cultura scadente, di seconda mano, a misura della nostra insufficienza. Un mondo, a detta di Bruno, fatto con gli scarti del nostro banchetto ufficiale: come se stessimo a tavola e sotto la tavola.
Per esempio: l'ideale di bellezza femminile di Ferdydurke, la sua Venere, è una piccola liceale moderna che affascina gli uomini con i suoi polpacci; l'altro dio di questa mitologia di seconda mano è il garzone con il quale Miętus vuole "frater...nizzare" (non "fraternizzare", ma "frater...nizzare", il che è molto peggio). Ferdydurke è pieno di questi ideali immaturi, di questi miti di seconda mano, di bellezze di serie B, di grazie da quattro soldi e di dubbie seduzioni...
Schulz sottolineò il fatto che quel mondo, più che un effetto della liberazione dell'istinto, era soprattutto un effetto della degradazione della Forma. Esternamente desideriamo essere il più colti possibile... ma proprio per questo, internamente siamo al di sotto della nostra cultura... e la trasciniamo giù, fino al nostro livello.
"In questo mondo non c'è spazzatura ideologica, cascame concettuale e paccottiglia formale che non abbia il suo corso e i suoi ammiratori" disse Bruno in quella conferenza.
"Qui si svela in tutta la sua pochezza la struttura della mitologia, la tirannia nascosta nelle forme sintattiche, la violenza e la rapacità delle frasi fatte, il potere della simmetria e dell'analogia."
E ancora: "Gombrowicz ci è arrivato non per la strada piana e sicura della spassionata speculazione intellettuale, ma attraverso la patologia, la sua personale patologia."
Giusto.
In seguito avemmo una conversazione fondamentale durante la quale mi rimproverò amaramente di non essere all'altezza di quello che scrivevo. Seduto su una seggiola, replicavo qualcosa alla meglio, ma in cuor mio gli davo ragione. Non ero all'altezza. Ero lo specialista dell'inferiorità, ma in quanto persona, in quanto Witold Gombrowicz a metà tra la città e la campagna, ero anch'io al di sotto della mia opera... Come mai non potevo celebrare la mia vittoria? Eppure la mia maledetta patologia l'avevo buttata fuori, ormai stava nel libro, era solo un mio tema, non me. Allegro, autore: stavolta hai dissotterrato le tue vergogne profonde e le hai rigettate all'esterno! Allegro, inventore della sottocultura: promossa a rango di "zona di sottocultura", la tua spazzatura è diventata il tuo vanto!
Mah!
Io, seduto su una seggiola. Una mosca. Il lavoro artistico contiene in sé una profonda ingiustizia: scriviamo con il terrore di far brutta figura nel caso che l'opera non riesca (e a ragione, in quanto il fallimento di un'opera è una vergogna personale); ma quando l'opera si rivela più o meno riuscita, non ne ricaviamo nessun vantaggio personale, anzi oserei dire nessuna soddisfazione. Un'opera ben riuscita vive di vita propria, ha una sua esistenza separata ed è di ben poca utilità alla vita dell'autore.
Una mosca. Tra me e Ferdydurke accadeva esattamente quello che, nelle sue pagine, accadeva ai suoi eroi. Trasformata in cultura, l'opera planava nella stratosfera, mentre io restavo in basso; e forse mi stava anche bene così, forse mi si confaceva di più, forse mi sentivo più a mio agio nella mia tana. Una mosca. E poi? Forse (come ho già scritto nel mio Diario), forse tutto sommato preferivo tenermi la mia gioventù e la mia immaturità.

Witold Gombrowicz, Testamento, traduzione di Vera Verdiani, Feltrinelli, 2004

*


6.2.1961

Cosa strana - mi è impossibile ricordare come ho fatto la conoscenza di Bruno Schulz. È stato durante una delle riunioni che organizzava Zofia Nałkowska? No, mi aveva senz'altro telefonato dopo aver letto le mie Memorie del tempo dell'immaturità, per dirmi che voleva parlare con me.
Conservo per contro un'immagine molto nitida di lui, per come lo vidi la prima volta: un omino. Piccolo e spaurito, parlante a bassa voce, modesto, tranquillo e dolce, ma con tracce di crudeltà, di severità nascosta nel fondo dei suoi occhi quasi infantili.
Questo omino fu il migliore artista tra tutti quelli di cui feci la conoscenza a Varsavia - incomparabilmente migliore di Kaden, Nalkowska, Goetel e tanti altri accademici delle lettere, aureolati dalle onoreficenze e regnanti come gran signori nella stampa e nei salotti della capitale. La prosa che nasceva sotto la sua penna era creatice e immacolata, era l'artista più europeo tra di noi, il più degno di siedere nel cerchio della più alta aristocrazia intellettuale e artistica dell'Europa. Eppure, quando feci la sua conoscenza - fu dopo la pubblicazione del suo primo libro, Le botteghe color cannella - Bruno era un modesto maestro di scuola di Drohobycz venuto per qualche mese nella capitale, una creatura senza difesa a cui si picchiettava sulla spalla. E, fino alla sua morte tragica in un campo tedesco(*), rimase un piccolo pedagogo stupefatto e provinciale. E temo che sia troppo tardi oggi (per delle ragioni che evocherò tra breve) perché la sua arte si possa imporre in Occidente. E persino in Polonia, chi lo conosce oggi? Qualche centinaio di poeti? Qualche scrittore? È rimasto quello che è stato, un principe viaggiatore in incognito.
A quell'epoca, quando venne a trovarmi a casa, in via Sluzewska, la sua situazione letteraria era malgrado tutto molto più solida della mia. Non era riuscito a raggiungere un vasto pubblico, ma era noto e apprezzato dall'élite. Tuttavia, c'era nella natura masochista di Bruno un bisogno di ritirarsi in secondo piano.... preferiva ammirare che essere ammirato. A bassa voce, su un tono di confidenza e con bontà, ma una bontà strana, improntata ad una "durezza segreta", si mise a prodigarmi lodi starordinarie.
"Che opera! Sono abbagliato dai suoi racconti... Non sarei mai capace di produrre qualcosa di simile..."
Scoprii più tardi, non senza delusione, che Bruno non era avaro di complimenti entusiasti per qualche altro scrittore - e non solamente perché amava fare piacere: nel cuore di questo provinciale si nascondeva un gusto per il lusso, per i più alti gradi gerarchici, per la gloria, per l'orgoglio. Tuttavia, questa severità quasi dolorosa di cui si avvertiva la presenza non tanto in lui quanto attorno a lui - come se questa spiasse da dietro un angolo - mi costringeva a prendere molto sul serio la sua opinine sulla mia scrittura. E potei rendermi conto molto presto che non si trattava di luoghi comuni - nessuno mi ha dimostrato altrettanta amicizia generosa e mi ha sostenuto con altrettanto fervore.
Questo fu il preambolo a numerose conversazioni che avemmo su temi che non erano quasi mai personali  - Bruno riportava da Drohobycz un desiderio insaziabile di comunicazione spirituale e intellettuale, che lo rendeva a volte febbrile e stancante. Faceva domande ed ascoltava - io mi sfogavo e discorrevo - e commentava, precisava, penetrava fino al fondo delle cose ponendo senza posa nuove domande. Fin dal primo momento aveva assunto nei miei confronti un atteggiamento piuttosto passivo, quello di un uomo che si rassegna, che pone domande... si sarebbe potuto credere che era destinato al ruolo di secondo violino... eppure la sua concentrazione, la sua tensione, il suo modo insolito di collocarsi nel proprio destino, la forza demoniaca di questa passione, in lui, che si sentiva emanare dalla sfera sessuale - il che la rendeva talmente tragica e ardente - conferivano un'ampia portata alle sue modeste affermazioni. Ma bastava mettere il naso nel suo libro perché si rivelasse un altro Schulz, completamente diverso, maestoso, dalle frasi pesanti e sontuose che si spiegavano lentamente come la coda affascinante di un pavone, un instancabile creatore di metafore, un poeta estremamemte sensibile alla forma, alla sfumatura, che svolgeva la propria prosa ironicamente barocca come un canto. Tra i compiti artistici che si proponeva, più di uno era nettamente del genere rischioso, ma non finiva mai male. Continuando a frequentarlo, ne individuai due difetti che indebolivano la sua portata: in primo luogo, era troppo poeta ed unicamente poeta, nonostante la sua prosa, gravida di metafore, desse un po' l'impressione di una deviazione di percorso, si sarebbe voluto riindirizzarlo verso la poesia, che era il suo elemento naturale. In secondo luogo, egli era, come tutti i poeti polacchi, impotente - fatto salvo il suo talento per le metafore - era incapace di averla vinta sul mondo, di assimilarlo - aveva elaborato una forma, abissale ma molto stretta, e non sapeva scrivere altro né uscire dalla sua problematica molto limitata.
Gli esseri di questo genere arrivano a grandi realizzazioni quando sono originali. Ma Bruno seguiva le tracce di Kafka, al quale lo univano le sue origini semite e, nonostante si sia mostrato inventivo in più di un punto, è difficile non vedere che il suo universo era stato fecondato anche dalla visione del suo fratello maggiore. È per questa ragione che faccio fatica ad immaginare che le sue opere possano incontrare un successo mondiale, per quanto siano oggi tradotte in lingue straniere e ammirate da più di un lettore eminente in Francia e in Inghilterra.
La differenza essenziale tra lui e me è che, benché altrettanto penetrato dalla forma, aspiravo tuttavia a farla scoppiare, volevo allargare il campo d'azione della mia letteratura per farle abbracciare un numero sempre più grande di fenomeni - mentre lui si chiudeva nella sua forma come in una fortezza o in una prigione.
Non ho mai incontrato nessuno di meno invidioso e di una generosità più magnanima. È evidente che l'invidia è spesso il tratto caratteristico degli scrittori - ma essi sono intelligenti, il che sovrappone una buona dose di di civiltà a queste eventuali selvaticherie, al punto che il più delle volte non si fanno del male ma non alzerebbero nemmeno il mignolo per aiutare un rivale a scalare il Parnaso.
Il superbo disinteresse di Bruno si rivelò in tutto il suo splendore quando fu pubblicata la mia terza opera, Ferdydurke. Il suo primo contatto con il mio nuovo romanzo non fu molto felice.
Gli avevo dato il manoscritto, ancora lontano dall'essere ultimato, durante uno dei suoi passaggi a Varsavia. Qualche giorno dopo, mi dichiarò con dolcezza, ma anche con quella severità o quella acutezza di fondo che non lo abbandonava mai: "Le consiglio di lasciare stare... torni al suo altro genere, quello delle Memorie del tempo dell'immaturità, di cui è brillante maestro... a mio avviso, non è da pubblicare."

Witold Gombrowicz, Souvenirs de Pologne, traduit du polonais par Christophe Jezewski et Dominique Autrand, Christian Bourgois Éditeur, 1984

(*) Informazione sbagliata. È vero che le circostanze della morte di Bruno Schulz sono rimaste a lungo oscure, ma non è mai stato in un campo. Secondo le testimonianze più verosimili, sarebbe stato ucciso da un SS quando, munito di un passaporto falso, stava per lasciare Drohobycz per andare in Austria.
"E nell'anno mille novecento e quarantuno i tedeschi sono entrati a Drohobycz e Bruno era stato costretto a lasciare la sua casa ed era andato a stare in una casa di via Stolarska. Per ordine delle autorità disegnava e dipingeva gigantesche figure sui muri della Scuola d'Equitazione, e catalogava raccolte di libri che i tedeschi confiscavano. Per guadagnarsi da vivere era costretto a fare "l'ebreo di casa" (piccoli lavori di falegnameria, pittura di insegne, ritratti della gente di casa, ecc. ecc.) presso un ufficiale delle SS chiamato Felix Landau.
E questo Felix Landau aveva un nemico - un altro ufficiale delle SS chiamato Karl Günther. E il diciannove di novembre del mille novecento e quarantadue, all'angolo di via Czacky con via Mickiewicz, Karl Günther sparò a Bruno un colpo e poi - così dicono - andò da Landau e gli disse così: "Tu hai ammazzato il mio ebreo e io ora ho ammazzato il tuo"."
David Grossman, Vedi alla voce: amore, traduzione di Gaio Sciloni, Oscar Mondadori, 1990

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