lunedì 25 aprile 2011

101 ragioni per imparare l'ungherese - 23

Ogni lingua ha una storia, una data di nascita (e talvolta di morte o di trasmigrazione in un'altra, come per una metempsicosi), un carattere, una musica, un ritmo, una propria, specifica frequenza di risonanza, un tallone di Achille, dei punti di forza, bellissime bizzarrie fuori da ogni schema o regola, etimologie dai percorsi lunghi e arzigogolati, ecc.

Un aspetto che colpisce le mie orecchie quando ascolto e i miei occhi quando leggo è la variabilità di una lingua e, quando c'è, il battito, il ritmo che essa produce, come ad esempio la variabilità del tedesco nei grandi balzi dei suoi verbi nelle frasi secondarie rispetto al loro posizionamento nelle frasi principali, nei più corti saltelli del verbo davanti al soggetto imposti dal Vorfeld, nei viaggi obbligatori dei participi passati a fine frase, nei movimenti a elastico impressi ai verbi separabili, che si possono separare anche a distanze notevoli per poi ricongiungersi e ritrovarsi. Nelle mie orecchie e nei miei occhi, è il verbo che dà il ritmo alla lingua tedesca.
Nel francese, cui il parlato sta mettendo a dura prova l'unica variabilità nella sequenza delle parole dettata dall'inversione della coppia soggetto-verbo nelle interrogative, è tutta questione di suono: di liaisons che appaiono e scompaiono a seconda della testa e della coda delle parole che si incontrano, di vocali o di gruppi di vocali identici la cui fonetica cambia a seconda della sillaba che li segue, e anche di ambiguità di senso legate alla pronuncia identica di segni diversi.
Percepisco la variabilità dell'inglese, più che nei suoni, nell'incredibile ricchezza dei suoi sostantivi: procedendo di sinonimo in sinonimo, si potrebbe coprire tutto il suo amplio vocabolario senza dover compiere alcun salto, sfumatura per sfumatura, passando da un senso al senso opposto in un lunghissimo flusso ininterrotto di parole.
Nell'ungherese, pur considerando che non l'ho ancora abitato neanche per un giorno (ma non dispero di poterlo fare, in futuro), e che quindi non posso al momento che basarmi su sensazioni ancora più superficiali di quelle fin qui elencate, la variabilità è almeno doppia: da una parte, quella delle note che escono dalla sua armonia vocalica, per la quale solo certi accostamenti di vocali sono consentiti mentre altri sono vietati, dall'altra, quella della flessibilità del posizionamento delle parole, che varia con un ampio margine di manovra in base alla parola su cui si desidera attirare l'attenzione.
Forse perché ci sono nata, nell'italiano, ma non mi pare di essere ancora riuscita a coglierne una specifica variabilità: che sia, anche se mi costa ammetterlo, solo geografica, che la sua variabilità stia tutta solo nelle sue diverse cadenze e nelle mille sfumature che coprono i punti estremi del suo stile, da quello asciutto e paratattico di un colonnato neoclassico a quello più elaborato, ipotattico di un'architettura barocca, anch'essi soggiacenti ad un criterio di tipo tendenzialmente geografico?

(poi succede che leggo in giro cose serie scritte da gente seria e mi vergogno un po'. non tanto, solo un po'.)

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