martedì 19 agosto 2014

Karo Antonio

Karo Antonio,

Kyero eskrivirte en djudyo antes ke no keda nada del avlar de mis padres. No saves, Antonio, lo ke es morirse en su lingua. Es komo kedarse soliko en el silensyo kada dya ke Dyo da, komo ser sikileoso sin saver porke.

Lo ke aki te eskrivo, Antonio, es el poko de ke me akodro despues de estos cinkos syekolos en Turkya. Yo naci en Asnières, ke es una sivdeka cerka de Paris, ama mi padre y mi madre eran cerka de los treynta kuando vinieron a morar en Francia. Dainda avlavan en franses ke era la lingua de todos los djudyos de Turkya en akel tyempo porke l'Alliance israëlite universelle asi les embezo. Despues de este se foueron al Lycée français de Galata Sarail en Stambol y es por esto ke tanto les plazya la Francia, ma en kaza nunka decharon de avlar djudyo y ansina es ke yine yo me embezi.

Antes de eskrivirte, Antonio, devo serar los ojos para akodrarme del avlar de mis padres. La difikoldad es ke muchos biervos me vyenen al tino i ke no se kualo dizirte kon eyos. Ke dizirte kon la “yaka” ? ( “Este no me pasa por la yaka” dizya mi nona) kon la ekspresyon “el kulo de pipino” ke mos saltava la riza, el “ijo de Mamzer”, kon todas las kozas ke son “kozas de tresalirse”...? 
Los biervos stan lokos, Antonio. Atornan y se fuyen. No ay mas ke asperar de eyos. No dizen mas ke la rolor, la dulsura lejana de la dondurma, de las keftikas, de los platikos ke se gizava en kaza. No dizen mas ke el gusto y el tormento del pasado, la lokura del tyempo. Se van los biervos y, lechos de mi, se mueren komo las nuves del cyelo.

La lingua maternal: asi se dize de lo ke se entendya en kaza, ma, en este kavzo, Antonio, la madre no se muere nunka. Siempre se keda fuerte. Puedes azer el mas gran viage; kuando retornas la topas bien en pies. En eya vive tu pasado, en eya te sientes presente a ti mismo.  Las palavras son tu verdadero lougar y tu esperanza. Kale ser loko para pensar ke, en eyas, podryas ser un dya el mousafir de ti mizmo. En el mas profondo de ti saves ke las kozas, o al meno el sentido ke tienes de las kozas, no se mueren nunka.
Ma, kuando se bozea tu lingua, kuando se deskae, desaziendo en el mabul, kuando deves serar los ojos, soliko en tu kamaretika y pensar por oras antes ke trucher dos biervizikos en la luz, kuando no ay nada ke meldar en tu lingua, ninguno dentro tus amigos por avlarla kon ti, kuando el poko ke te keda no lo vaz a dechar a ninguno despues de ti, kuando la mujer de tu alma te mira komo a un razino ke pok a poko se le fuye el meoyo y ke, kada dya te deves olvidar mas de ti para ser bien al lado de eya, kuando mirando a su kerida facha te vez, algunos dias ke te akodras del pasado, komo a un zingano ke no ubyera nunka dourmido kon eya y ke nunka lo podrya por ke saves ke, en akeyos momentos, la distansya entre vozotros es tan grande ke parece a la mar, eya veyendo solamente una partizika de ti, alora, Antonio, saves ke la muerte avla por tu boka.

Marcel Cohen, Lettre à Antonio Saura, traduit du judéo-espagnol par l'auteur, édition bilingue, L'Échoppe, 1997  



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Fermatevi qui e rileggete questo incipit di un breve, intenso testo, se ci tenete a cogliere Cohen nel suo tornare bambino, figlio e nipote, ma non padre, e a non spezzarne la magia e se, per una volta, accettate di lasciare la materia narrativa nella sua forma originale: un grumo di vite. Mai una traduzione dello stesso autore mi è stata d'impaccio più che d'aiuto come questa volta: Cohen si è sdoppiato, traducendosi in francese, modificando e, soprattutto, omettendo. Autore e traduttore sono due persone diverse riunite nella stessa persona. Quel che segue sono solo io.
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Caro Antonio,

Desidero scriverti in djudyo prima che non resti più nulla della lingua dei miei antenati. Non puoi immaginare, Antonio, cosa significhi estinguersi nella propria lingua. È come trovarsi da soli nel silenzio ogni giorno che Dio manda in terra, come essere sikileoso [in ansia, oppresso, in turco], senza sapere perché.

Quello che ti scrivo, Antonio, è il poco di quel che mi riesco a ricordare di questi cinque secoli in Turchia. Nacqui ad Asnières, che è un sobborgo di Parigi, e i miei genitori erano sulla trentina quando vennero a vivere in Francia. Allora parlavano in francese, in quanto lingua, all'epoca, di tutti gli ebrei della Turchia. Lo avevano imparato all'Alliance israëlite universelle. Frequentarono poi il liceo francese di Galata Sarail, ad Istanbul, ed è per questo che la Francia piaceva loro così tanto, senza peraltro rinunciare a parlare il djudyo a casa, che così imparai anch'io.

Prima di scriverti, Antonio, devo chiudere gli occhi per ricordarmi della lingua dei miei antentati. La cosa difficile è che molte parole mi vengono in mente senza potermici esprimere. Che dirti con  “yaka” ? (“Questo non mi passa per la yaka[collo, in turco], diceva mia nonna), con l'espressione “il culo del cetriolo” che ci faceva scoppiare a ridere, con “figlio di Mamzer” [bastardo, in ebraico], con tutte le cose che sono “cose da trasalire”...? 
Le parole sono folli, Antonio. Vanno e vengono. Non c'è altro da aspettarsi da loro. Non esprimono che l'odore, la dolcezza lontana del dondurma [gelato, in turco], delle keftikas [polpette turche], dei piccoli piatti che si cucinavano a casa. Non rendono che il gusto ed il tormento del passato, la follia del tempo. Se ne vanno, le parole, e mi sfuggono, muoiono come le nuvole del cielo.

La lingua materna: così si chiama quello che si sente a casa, ma, in questo caso, Antonio, è una madre che non muore mai. Resta sempre forte. Può intraprendere il viaggio più lungo; quando ritorna, la trovi ancora ben salda sulle gambe. In lei vive il tuo passato, in lei ti senti presente a te stesso. Le parole sono il tuo vero paese e la tua speranza. Bisogna essere folli per pensare che, in esse, potresti diventare, un giorno, straniero a te stesso. In fondo a te stesso sai che le cose, o almeno la loro percezione, non muoiono mai.
Ma quando la tua lingua si sgretola, quando si disfa, diluendosi nel mabul [diluvio, in ebraico], quando devi chiudere gli occhi, solo nella tua cameretta, e pensare per ore prima di portarne qualche brandello alla luce, quando non c'è niente da leggere nella tua lingua, nessuno dei tuoi amici con cui poterla parlare, quando il poco che te ne resta non lo trasmetterai a nessuno dopo di te, quando la donna della tua vita ti guarda come un malato che a poco a poco perde il senno e ogni giorno ti senti in dovere di dimenticare te stesso per poter stare bene al suo fianco, quando guardando il suo caro volto ti vedi, i giorni in cui ti ricordi del passato, come uno zingaro che non abbia mai dormito con lei e che mai potrebbe perché sa che, in quei momenti, la distanza tra di voi è tanto grande da sembrare il mare, lei riuscendo a vedere solamente una particella di te, allora, Antonio, sai che la morte parla attraverso la tua bocca.

2 commenti:

  1. Niente, sei proprio specializzata in perle, rubini, diamanti... Sei una cassaforte senza fondo [brividi]

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