venerdì 1 novembre 2013

Picio muleto biondo ovvero l'europeo


dice un verso di Giotti. Piccolo bambino biondo, sarebbe, chiaro. Ma piccolo bambino biondo puzza di Gozzano. Giotti scomparirebbe, in una trasposizione in italiano. Per capire il senso della versione originale in dialetto non ci vuole molto, per chi non sia triestino, basta aver sentito dire almeno una volta che a Trieste le ragazze ed i ragazzi sono mule e muli, per quanto strano possa sembrare, immagino, almeno la prima volta e forse anche la seconda e la terza. Immagino, perché io picia sono nata e picia muleta sono diventata nel giro di qualche anno e altri muleti ne ho visti per un bel po' di tempo, nella prima parte della mia vita. Quello che non si recupera, credo, è l'effetto del verso in un orecchio madrelingua, per così dire, che lo percepisce senza filtri, ausilii o trasposizioni, in modo immediato, per quello che è, l'esemplare più classico ed indifeso del mondo dell'infanzia, solo, isolato da tutto il resto, che è a misura di adulto:

picio muleto biondo.

Ogni alterazione del verso lo avvicinerebbe, forse, alle orecchie del lettore di altri luoghi, ma lo allontanerebbe da Giotti e dalla normalità delle sue parole, che non conoscono alcuna sdolcinatura o il minimo vezzeggiamento.
Considerando il procedimento inverso, di una parola nata all'estero e trasposta in dialetto, Zanzotto avverte la necessità di tradurre Knabe in nevodet o per farlo proprio, per sentirlo meglio, con tutte le sue corde, e non solo con quelle di Hölderlin, o per un desiderio di dimostrare che lui lo sente davvero, il verso tedesco, oltre che per evitare, con un eventuale ricorso a nipotino, ancora una volta, quel povero paria della lingua italiana che è diventato, anzi, che è sempre stato, Gozzano.
Non è la solita, trita questione della possibilità o meno di tradurre, o dei limiti delle traduzioni, su cui sto cercando di ragionare, tuttavia. Sto cercando, piuttosto, di pensare al potere della parola, ed in particolare al modo in cui si considera l'altro, al modo in cui lo si fa a seconda della familiarità o della estraneità del linguaggio usato per definirlo, l'altro, e alle conseguenze dell'uso di un linguaggio familiare o estraneo. Mi sembra che un 

picio muleto biondo,

lasciato nel suo verso originale, possa suscitare umana attenzione, sensibilità ed anche immediato affetto, solo in chi percepisce il picio muleto biondo come un picio muleto biondo. Negli altri, può e potrebbe restare sempre solo un essere esotico, con cui si ha ben poco da condividere, a parte, probabilmente, la curiosità di osservarlo da lontano, oltre il vetro di una finestra o - visti i tempi - di uno schermo. Così come resta in fondo familiare nel senso, ma estraneo nel segno, Knabe nelle orecchie di Zanzotto, pur ammiratore di Hölderlin, che invocava come fosse un santo, durante la resistenza, perché potesse ispirare versi alla sua mano tremante.
Per esempio, mi chiedo: se un italiano che conosca anche pochissimo o quasi per nulla il francese sente la parola homme, cosa avverte? Io credo che capisca senza difficoltà che homme è uomo (lo capirebbe anche mia nonna, di parlata veneta, che in effetti chiama uomo allo stesso modo, solo scritto diversamente: óm), ma credo anche che ci sia la possibilità, non remota, che possa percepire homme avvolto da un'aura laicamente sacralizzata, se gli è capitato di sentire parlare più di qualche volta della déclaration universelle des droits de l'homme. Un homme che resta astratto, idealizzato, non un uomo concreto.
E una femme? Non evoca intrecci amorosi, tradimenti e il fascino che una donna, invece, senza aggettivi o in assenza di immagini concrete non riesce necessariamente a suscitare nell'immediato? Mi sbaglio?
E un uomo su un monopattino, che reazioni o visioni genera, rispetto ad un homme sur une trottinette? Non appare una venatura inevitabilmente ridicola, nel secondo caso, in un italiano? Non ricevono forme e gradi di attenzione e considerazione diverse, queste due persone, in linea di principio identiche, ma, nella realtà della lingua e delle sue varianti, diverse? Mi sbaglio anche qui?
E un sans-papiers? Non sembra altro da un emigrante - prendiamo - uzbeko? Non sembra provenire da un mondo diverso da quello dei paesi degli emigranti che arrivano in Italia? E un emigrante non è forse diverso da un migrante o da un immigrato, anche se ogni emigrante, prima di diventare - se ha fortuna - immigrato, passa sempre per una temporanea condizione di migrante, anche se, insomma, è pur sempre la stessa persona? E non sarebbe motore di una politica dell'immigrazione diversa, in Europa, un'opinione pubblica che cominciasse a leggere e a sentire parlare quotidianamente di uomini in cerca di lavoro e non di extracomunitari o di clandestini? E perché è diventato un dogma, il fatto che in mancanza di passaporto un uomo non sia più un uomo, ma un irregolare?
Negli ultimi tempi Marine Le Pen si dedica al linguaggio apertamente e con insistenza, raccomandando ai giornalisti di non chiamare il Front National un partito di estrema destra, al punto da sottoporre coloro che non si attengano alle sue raccomandazioni alla minaccia di azioni legali. Vorrebbe veder riconosciuto anche nel linguaggio ufficiale il raggiungimento dell'obiettivo - maldestro, non riuscito, in linea di principio, ma di fatto già pagante, in termini di bacino elettorale in continua espansione - che si è data da tempo, cioè quello di dédiaboliser il partito; di sdoganarlo, direbbero gli italiani, che da buoni cattolici non credono al diavolo, ma che diabolici debbono considerare le dogane, i dazi e, in senso lato, lo stato e le imposte.
Ci tiene anche Hollande, alle parole. Quando era partito lancia in resta, nel corso di una delle fasi più acute della crisi siriana (più acute all'estero, ché in Siria va da schifo da un bel po'), prima di trovare davanti a sé il muro del Parlamento inglese e pure quello del Congresso statunitense, aveva dichiarato che la Francia si sarebbe assunta le responsabilità militari e che se le sarebbe assunte in modo semantico. Ci teneva ad esprimere, credo, il fatto che l'Eliseo non avrebbe tentennato, nella sua azione in risposta all'uso di armi chimiche in Siria. Cosa che poi, in realtà, ha fatto. Aveva inconsciamente confessato tutta la sua indecisione, con quel suo de façon sémantique.
Quando Silvio Berlusconi avverte la necessità di chiamare i suoi avversari politici o i magistrati "comunisti", ne marca la diversità da sé, cerca di identificarli come esponenti politici e funzionari ideologizzati, intrinsecamente illiberali ed antidemocratici, incapaci di dialogare e di garantire una giustizia giusta, in una parola pericolosi, perché è al pericolo rosso, che si richiama, in un paese conservatore come l'Italia. Da qui la facilità e la spavalderia - impunita, priva di conseguenze - con cui è riuscito a designare come coglioni gli elettori dei partiti di sinistra. Perché sa che il serbatoio elettorale della destra, in Italia, ha delle potenzialità enormi: dei coglioni di sinistra non ha mai avuto bisogno, come non ha mai saputo che farsene, del dialogo con l'opposizione, una volta assunto il potere. È, Berlusconi, uno che è bastato e basta a se stesso. La cultura del confronto democratico, all'interno del suo partito e nell'ambito del rapporto con gli altri partiti o le istituzioni o, più in generale, con la società, gli è estranea, ma ha pur sempre bisogno vitale di giustificare il suo rifiuto delle regole di base democratiche, interne ed esterne ai partiti e alle istituzioni, e la voglia di stravolgerle in favore dei propri interessi, addossando all'altro, e non a sé, la responsabilità intera del mancato confronto. Da qui, la necessità di trovare un nome per escludere l'altro dal proprio mondo: questa esclusione, lui, l'ha trovata nella parola comunista. Non è diverso dal modo in cui molti statunitensi considerano gli stati europei: sono tutti socialist countries, ai loro occhi, con la notevole eccezione dell'Inghilterra. E nei socialists non si può riporre alcuna fiducia, sono rappresentanti di un mondo vecchio, antimoderno, che non merita alcun rispetto o considerazione e che non suscita alcuna curiosità, salvo, al più, quella che può emanare da un luogo decadente, ma condannato a scomparire. È difficile trasmettere ad uno statunitense che mi dica che vivo in un socialist country la mia mentale risposta italiana: magari! Così come è difficile spiegare ad un francese o ad un tedesco chi siano mai i comunisti in Italia, il primo pensando all'Italia come ad un paese prima di tutto cattolico, ed in seconda battuta disonesto e furbeggiante (dicono imbroglio tale e quale, i francesi, in francese), e il secondo sentendosi orfano di quel paese, privato di un luogo bello, uno dei più belli cui abbia mai potuto pensare, uno dei luoghi della sua anima, assieme alla Grecia.
Berlusconi, tuttavia, pur con tutte le cadute di stile, volgarizzazioni e castronerie, resta ancorato al tradizionale filone di chi usa il linguaggio per affermare la propria identità, non per sopprimere l'altro, ma solo per tenerlo a bada, possibilmente in minoranza, fino a renderlo incapace di intervenire nel percorso della storia del paese. A pensarci, sarebbe persino capace di trarne qualche beneficio economico, se potesse, dai comunisti, se riuscisse ad esempio a raccoglierli in un grande parco giochi, visitabile a pagamento, ovviamente, in un posto che ribattezzerebbe Milano 4 o, meglio, Sesto 2.
Beppe Grillo è altra cosa. Il salto operato dal metodo verbale di Grillo è di gran lunga peggiore, rispetto a quello di Berlusconi e fa male chi assimila Grillo a Berlusconi e non ne vuole vedere le differenze, che pur ci sono. Chi non è con Grillo puzza automaticamente di anziano, vecchio, se non di cadavere. Sono tutti morti, quelli che non stanno con lui. È la deligittimazione dell'altro più radicale che l'Italia abbia conosciuto negli ultimi anni, anche se non è un fenomeno nuovo. Durante il fascismo, era la giovinezza, che veniva esaltata: anche il quel caso, il fascismo era il nuovo, il resto era vecchiume, putrefazione. È strano come poi i simboli di morte e l'idea stessa della bella morte abbiano finito per contraddistinguere il fascismo sempre di più, in un crescendo, fino alle sue fasi finali, quelle della repubblica di Salò, il trionfo del teschio. Una vendetta operata dalle parole offese in un ventennio di dittatura, anche di dittatura delle parole, probabilmente.
Tutto questo - e molto altro, al di là al linguaggio, che qui non sto considerando - non vuol dire affatto che Grillo sia fascista. Significa, però, che Grillo punta, come Berlusconi, ma ben peggio di Berlusconi, a non considerare come parte imprescindibile del sistema democratico chi non la pensa come lui. Fino a prova contraria, se si sommano gli anziani, i vecchi e i morti, questi formano sicuramente un gruppo molto più numeroso dei comunisti, nell'Italia di oggi. Non è detto che il linguaggio di Grillo debba essere per forza prodromico di un regime, se mai dovesse conquistare la maggioranza parlamentare, ad un certo punto - cosa di cui personalmente dubito, perché, in genere, chi si richiama alla purezza senza macchia si ritrova prima o poi a fare pulizia in casa, e a farla radicalmente, per dimostrare la serietà della dichiarata voglia di purezza, ostracizzando, espellendo, purificando tutto fino a ritrovarsi solo, ché tutti gli uomini, persino quelli del proprio partito o movimento, sono vita ma sono assieme anche portatori di morte, se ci vogliamo calare per un istante nel mondo verbale di Grillo. Però, se un regime si stabilisce, è per quell'anticamera di linguaggio di morte, che necessariamente il regime passa. Perchè il regime poi si stabilisca e si possa sviluppare, basta che il messaggio di morte, esplicito o implicito, figurato o meno, sia assimilato, integrato, si faccia linguaggio quotidiano di molte persone, come quando, a forza di insistere, strepitare e bastonare, l'invenzione della questione ebraica, la Judenfrage, è stata percepita ed accolta come una questione reale dalla popolazione tedesca e da quella austriaca, e non rigettata come il parto di un uomo disturbato.
Saprà resistere agli ennesimi affronti cui è ogni giorno sottoposta, la lingua italiana? E potrà passare, un eventuale rinnovamento democratico, per un politico come Renzi che, oltre a rottamare anche lui le persone come robe vecchie, quando si mette a scrivere, scrive così?
La riforma prioritaria di cui ha bisogno l'Italia non è la rottamazione di Renzi e tantomeno la democrazia diretta di Grillo, è quella del linguaggio. Viene prima di tutte le altre. Purtroppo, non si può attuare per decreto o per via legislativa o referendaria e non si può tentare che un po' alla volta, su tempi lunghi, investendo nella scuola, ampliando le fonti di informazione, aprendo e rendendo accessibili biblioteche, fisiche e virtuali, ascoltando i nonni, adottando, almeno nell'ambito familiare, le loro parole*, ampliando il vocabolario in qualsiasi modo, per acquisire una certa immunità o almeno resistenza a tutti i tentativi di introdurne uno scarso e monolitico, aprendo il paese al mondo e alle parole degli altri, prima di tutto al Mediterraneo, dialogando con i paesi del Maghreb, per cominciare, insegnando il numero più ampio possibile di lingue straniere ai bambini (fin da pici muleti), promuovendo, al contempo, l'adozione di una lingua unica - purchessia - in Europa, da affiancare a quella nazionale, se mai l'Europa vuole davvero avere un senso.

* Anche se l'indiscussa specialista della discliplina dell'andar a palpeta era la mia bisnonna, pare, quell'espressione è giunta, attraverso due generazioni intermedie, fino a me, che continuo a riprodurla, per quanto la eserciti con meno perizia, quando mi muovo per casa senza accendere la luce.
Una delle discipline in cui invece mia nonna è più versata è sempre stata quella di sgamare quelli della spedocina. È un'attività ancora fiorente, per chi ci si voglia cimentare, nonostante la DC sia morta da un pezzo. Alla spedocina, in passato, hanno appartenuto non pochi degli esponenti della classe politica italiana della mia generazione, come Renzi, Alfano e Francesco Russo, il relatore PD della Giunta del Regolamento del Senato.
Non ho idea, tra l'altro, dell'origine della parola spedocina. Esattamente come non ho idea da dove venga aver un fià de ere, altra espressione di mia nonna: una specie di eleganza discreta, senza fronzoli, pulita, di porsi nel mondo.

4 commenti:

  1. A Gramsci e Pasolini, così attenti alla valenza politica delle lingue, sarebbero piaciute tanto le tue considerazioni. Forse avrebbero avuto da ridire solo sulla tua finale utopia circa la possibilità di una futura unificazione linguistica europea che mi ricorda tanto un vecchio progetto che ebbe un certo seguito nei primi anni del 900.

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  2. Per molte ragioni, se sapessi che Gramsci e Pasolini leggono questo blog, inizierebbero a tremarm

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  3. Ironia a parte, aiutami a capire per favore: ha qualche rapporto la conclusione del tuo pezzo con l'antica nostalgia dell' ESPERANTO?

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  4. Non pensavo ad una lingua in particolare, pensavo ad una lingua comune e basta. Poi è ovvio che tra quelle possibili c'è sempre l'esperanto, che ha il vantaggio di essere semplice, ignota a tutti tranne agli esperantisti e non legata ad una particolare sfera di influenza politica. A me andrebbe benissimo, personalmente, ma devo dire che mi andrebbe bene anche qualsiasi altra scelta. La questione della scelta andrebbe posta, ovviamente, a tutti i cittadini europei. Si potrebbe proporre una lista di lingue ad ogni cittadino, con eccezione della lingua ufficiale del proprio paese.

    Non è utopia, promuoverne l'adozione oggi. Lo è vederla realizzata nel giro di qualche decennio.

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