martedì 4 settembre 2012

Pour ne pas oublier

Sono nata ad Istanbul, in una città tra due mondi, tra due continenti, una città in cui c'erano degli immigrati di due guerre, dei russi che erano fuggiti dalla Rivoluzione d'ottobre e dei tedeschi che erano fuggiti dal nazismo. Era una città in cui si parlavano diverse lingue. Anche nella mia famiglia parlavamo diverse lingue: il francese, il tedesco, il bulgaro, l'ebraico-spagnolo e il turco, che ho imparato all'esterno, per strada, ma che i miei genitori non parlavano. Tuttavia, non è affatto questa la ragione per cui credo di essere diventata un giorno traduttrice, piuttosto tardi nella mia vita.
Verso i diciott'anni sono venuta in Francia per studiare e, più o meno nello stesso periodo, sono andata in Israele ed è lì che ho sentito per la prima volta l'ebraico, che non riuscivo a mettere in relazione con  nessuna delle lingue che conoscevo, e che non riuscivo a leggere, ma la cui sonorità mi ha subito colpita per la sua estraneità, come qualcosa di completamente sconosciuto e al contempo di familiare, un po' onirico.
Sono andata avanti ed indietro più volte tra la Francia ed Israele, poi sono ritornata qui con poca speranza di ritornare a vivere laggiù e ho avuto all'improvviso paura di dimenticare l'ebraico ed è a quel punto che ho cominciato a tradurre letteratura israeliana dall'ebraico, per non dimenticare.
Ho tradotto molti libri, ma vorrei parlare di un libro che non ho tradotto, che ho letto di recente e che mi ha profondamente colpita. È un libro di Ronit Matalon, una scrittrice di origine egiziana. I suoi genitori sono venuti dall'Egitto. Ha già scritto altri libri, in precedenza. Il suo libro si chiama, in ebraico, קול צעדינו (Kol tse'adenu), ovvero il suono, la voce, il rumore dei nostri passi, ed è un libro - cosa che mi è piaciuta moltissimo - il cui personaggio centrale, principale, è una baracca di immigrati che si muove, che cambia nel corso dell'intera storia e che ruota attorno ad un perno centrale, in questa precarietà, una specie di madre coraggio, l'unica fonte di reddito della casa, che, a seconda dei suoi capricci e del suo umore, cambia le stanze, ne cambia la funzione e fa spostare la famiglia attorno a sé. La scrittura di Ronit Matalon crea una specie di movimento a scatti, una miscela di frasi estremamente solide che restano al contempo a scatti ed instabili, la cui forma mi ha conquistata. Il libro mi ha ricordato una traduzione fondamentale della mia vita, quella di Yaakov Shabtai, זכרון דברים (Zikhron devarim), Pour inventaire, uno dei più grandi libri scritti in ebraico moderno nel XX secolo, la cui traduzione è stata per me un'esperienza sconvolgente e fondamentale, che ha determinato il mio destino di traduttrice e di scrittrice, facendo cooperare mutuamente queste due attività, che si sono continuamente rafforzate e supportate l'un l'altra. E nel libro di Yaakov Shabtai, i cui genitori sono originari della Polonia, mentre quelli di Ronit sono originari dell'Egitto - nel libro di Ronit si sente, sullo sfondo, dell'arabo e del francese -, nel libro di Yaakov Shabtai, i cui genitori sono polacchi, si sente dello yiddish, del russo, dell'inglese, del francese, perché fa circolare questi personaggi tra l'esterno e l'interno. Vi si trova al contempo la stessa precarietà intorno ad un quartiere di baracche che lo rende praticamente mitico, Nordia, posto nel cuore di Tel Aviv, oggi il Dizengoff Center. Vi ho trovato, non nelle frasi, non nello stile - Yaakov Shabtai ha scritto questo libro trent'anni prima, si tratta di un'altra generazione, di altre origini, di due mormorii linguistici diversi - in questa specie di precarietà/solidità, di movimento, nelle lunghe frasi di Shabtai, qualcosa che fa ondeggiare le vite, le baracche, in questo capitolo di vita in questo paese, una stessa componente di questo ebraico conciso, nomade eppure solido. È forse questo che le mie orecchie bizantine, tra i miei russi dell'infanzia, tra il nord e il sud, tra l'oriente e l'occidente, è forse questo che cerco di tradurre, che le mie orecchie sentono e che cerco di riversare in questa specie di espressione cangiante, ma così sedentaria del francese. Forse è da questo scontro tra il precario ed il sedentario, tra la ricchezza del discorso delle parole del francese e la rocciosità desertica dell'ebraico, che esce qualche cosa che è in parte traduzione, in parte scrittura.

Rosie Pinhas-Delpuech
in Traduir (שפה אחת ודברים אחדים), un film di Nurith Aviv, 2011

Nel frattempo il libro di Ronit Matalon è stato tradotto in francese da Rosie Pinhas-Delpuech con il titolo Le bruit de nos pas, Stock 2012. Ne esiste anche una traduzione italiana, per una volta più recente: Il suono dei nostri passi, Atmosphere 2011, traduzione di Elena Loewenthal.

3 commenti:

  1. L'hai visto Die Frau mit den 5 Elefanten, il film su Svetlana Gaier (la traduttrice in tedesco di Dostoevskij)? E' un po' che te lo volevo consigliare.

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  2. E pensa che avevo pure fatto una ricerca. Tzk, tzk.

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