sabato 20 agosto 2016

Beatrice

Beatrice,
poco fa
mi è arrivata
una tua foto.
Che sorriso,
Beatrice:
mi hai cambiato
la serata.

Prenditi il tempo che ti serve per correre, sbucciarti le ginocchia, fare le bolle con la cannuccia, parlare le tre lingue che ti circondano, disegnare, nuotare a farfaldorso, leggere, inventare, trasformare le uova in cento modi, innamorarti e molto altro ancora, fino a quando avvertirai il bisogno di voltarti indietro. Nel frattempo, metto da parte qua un modesto segno da consegnarti, un giorno, di questo istante: hai un mese e nove giorni.

Stavo leggendo i giornali del 18 agosto, che non sembravano affatto di quest'anno, bensì di materiale elastico, un elastico tenuto dal mio indice sinistro nel 2016 e teso all'indietro da un'altra mano che si ritrae fino agli anni '30, quando mi sei balzata davanti. Nell'immediatezza di quel momento, non ho pensato che tu stessi guardando il papà, che ha scattato la foto e me l'ha mandata, perché una volta arrivata qui, hai preso a guardare solo me. Ti ho ricambiata, naturalmente, dimenticando per tutto il tempo sia l'elastico sia la stanchezza del giorno passato. Grazie.

Ora che ci sei, mentre ti guardo, a dispetto dei giornali, sembra che sia effettivamente arrivato il 2016, finalmente. Grazie anche per questo.

Sei piccola, come è giusto che sia alla tua età, ma sai farti minuscola quando ti aggrappi alla mamma, raccogliendo gli arti come i petali di un fiore che si chiude per il troppo calore. Lo so perché ti ho vista lo scorso fine settimana, quando ti abbiamo portato al mare per la prima volta - bada: lo stesso mare normanno, aperto a nord, solcato da Guglielmo quasi un millennio fa, così diverso dal mio, tristemente dannunziano, insaccato in un periferico golfo che dà le spalle ai paesi vicini, a cui si ostina a non aprirsi. Ovviamente non hai potuto vederlo, distesa com'eri nella culla, non con gli occhi, che in tre, un po' maldestri, abbiamo cercato di proteggere dal sole con un ombrellino che si piegava ai capricci del vento, ma ne hai sentito il rumore, assieme a quello dei gabbiani e del vento, e anche l'odore, due elementi che molti trascurano, privilegiandone piuttosto il solo colore. Mentre annusavi l'aria, un piccolo tratto della passeggiata di ritorno è stato marcato da un annuncio diffuso da un altoparlante (e, ora che te lo dico, mi chiedo se quando leggerai queste vecchie parole il paese che ti ha vista nascere sarà ancora così): cercavano i genitori di una bambina bionda di circa cinque anni, che non capiva il francese; li cercavano dandone contezza in francese, évidemment.

Sei piccola, dicevo. Tuttavia, se non ci fosse la mano della mamma sulla tua pancia a dare un'unità di misura, per non parlare dell'anello al dito, non molto più piccolo della tua bocca, nella foto sembreresti decisamente più grande, perché non sorridi solo con una indovinata smorfia della bocca tra gli innumerevoli movimenti che stai imparando a compiere con ciascuno dei tuoi muscoletti che hai il compito di istruire un po' alla volta, ma stai pompando di gioia anche i tuoi occhi, fino a stenderli ben bene assieme alle lunghe ciglia, e persino il naso, che si solleva un po' dal piano del viso, a mostrarne le narici. Questa tua particolare inclinazione del viso mi ricorda la prospettiva con cui il Che fu ritratto da Korda, leggermente dal basso, anche se è chiaro che a parte questo dettaglio, del guerriero e del suo orgoglio non hai nulla, per fortuna. Vedi bene ora che non è il 2016 che stentava a presentarsi, prima che arrivassi tu: dovevo essere io a sfuggirlo, un po' come sfuggono e si dissolvono i tuoi subitanei moti di rabbia o di delusione, o forse solo di frustrazione, che già conosci bene e preannunci arrossando di colpo il volto e infossando la pelle della fronte e del mento in rughe effimere, che distendi e fai sparire al primo sorso di latte, alla prima carezza, alla prima nota del fischiettare di papà.

Beatrice, cucù!
È semplicemente
questo il segno,
che ho tracciato
e ritracciato lentamente:
hai già due giorni in più.

F.

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