sabato 4 febbraio 2012

Il primo test

Mi hanno chiesto perché non scrivo qualcosa di mio. Mi hanno posto anche altre domande, ma mi pare di aver trovato risposta a quasi tutte, tranne - appunto - a questa. Non che le risposte alle altre domande siano state poi così esaurienti e precise, ma in qualche modo, non trattandosi mai di domande di fisica teorica o di teologia, vi ho saputo rispondere, magari solo per approssimazioni o con un accenno di battuta. A quella sulla scrittura proprio no. 
Se io, in via ipotetica, scrivessi qualcosa di mio, comincerei da uno dei miei primi ricordi, da un ricordo talmente precoce che mi sa che me lo ha trasmesso integralmente mia madre, anche se devo pur averlo assorbito anch'io, senza interposta persona, almeno per via transcutanea.
Uno dei miei primi ricordi è la mia testa, e precisamente la conformazione anatomica della mia scatola cranica: tra il 1971 ed il 1972, nel giro di qualche mese, due vecchie signore, entrambe triestine, tastarono in effetti con gesto sicuro e rodato la mia testa.
La prima era la nonna materna di mio padre. Slobec, faceva di cognome. Ho una vaga eco di ricordo di lei, tutto concentrato nel suo impreciso colore di capelli grigio-marròn sparsi in onde regolari, di lunghezza costante, estese parallelamente dalla fronte al collo, e nei fori sovradimensionati dei lobi delle orecchie, in cui degli orecchini di corallo, pur minuti, davano l'impressione di soffrire eccessivamente dell'effetto della gravità. La nonna materna di mio padre, la prima volta che mi vide, col ritardo dovuto ad una matriarca cui si va in visita perché lei non si sposta dal proprio regno (un'osteria, sia chiaro) se non per le visite ufficiali alle personalità di pari grado, alzò la mano e me la portò all'incavo della nuca, senza prendermi in braccio, me la tastò facendovi scorrere in su e in giù più volte le tre dita centrali della mano, a palmo aperto, fino a saggiare tutto l'occipite e, dopo breve riflessione, con amara, per quanto temuta, delusione, sentenziò: la xe tagliana.
La seconda era la nostra vicina di casa. Chittaro, faceva di cognome. Ho una vaga eco di ricordo di lei, tutto concentrato nei lineamenti sottili, nei suoi panni scuri, di lana grossa, ricoperti da uno scialle nero, e nel suo pappagallino che riusciva a distinguere con discreta sicurezza mio padre (Ocio l'omo nero! Ocio l'omo nero!) da me (Che bela picia! Che bela picia!). La signora Chittaro, appena raggiunta la soglia minima di familiarità creata dalla consuetudine di passare qualche ora da noi, sollecitata da mia madre perché potesse godere, assieme al pappagallino, di un tepore che a casa sua non aveva, un giorno alzò la mano e me la portò all'incavo della nuca, senza prendermi in braccio, me la tastò facendovi scorrere in su e in giù più volte le tre dita centrali della mano, a palmo aperto, fino a saggiare tutto l'occipite e, dopo breve riflessione, con deciso, per quanto insperato, sollievo, sentenziò:  no' la xe s'ciava.
Con un gesto della mano, la mia bisnonna, di fatto, mi disconosceva e mi ripudiava dalla sua comunità, la vicina di casa mi riconosceva e mi accoglieva nella sua comunità. Io, col senno di poi, posso dire che il mio cranio, tutto sommato, nonostante non abbia superato tutti i test di qualità, si è dimostrato abbastanza funzionale.

4 commenti:

  1. vedi che c'è qualcosa di fisico nelle categorie dello spirito

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  2. Non ne sono sicura. Partivano entrambe da un pregiudizio: l'influenza predominante dei cromosomi materni (italiani) su quelli paterni (slavi). Volevano entrambe la conferma del loro pregiudizio, negativo o positivo che fosse, ai loro occhi.

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  3. Fai bene a scrivere ogni tanto qualcosa di tuo: ne vale la pena

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  4. Mi devono ubriacare, prima, ma grazie, Mella.

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