sabato 2 aprile 2011

Dizionario di tutte 'e cose - I come Irrinunciabile

Ho imparato in questo secolo l’indicibile dell’umano, di ognuno di noi e della relazione con l’altro che non possiamo mai afferrare fino in fondo.
La mia paura è che mi venga tolto non tanto il pane e nemmeno la Costituzione, ma questa idea dell’umano.
Vi prego, non permettete che la domanda sull’essere umano venga cancellata.
Pietro Ingrao in risposta a Indignez-vous (Indignatevi) di Stéphane Hessel.
Quello che qui desta il mio interesse non è la presa di posizione di Ingrao rispetto al manifesto di Hessel, molto letto in Francia (non mi pare con effetti che vadano oltre ai "però, alla sua età") e infatti, non a caso, non intendo nemmeno delinearla al di là di questa breve menzione: è l'inafferrabile, l'indicibile e, sopra ogni cosa, l'irrinunciabilità della sua idea. Enzensberger lo chiama Lücke, lacuna, ciò che resta ogni qual volta si cerca di trovare una risposta alle domande importanti. È esattamente con questo che mi interessa confrontarmi, senza che ciò implichi una rinuncia alla ricerca, al contrario: ne è il primo stimolo, nella consapevolezza che, pur essendoci per forza un resto, una lacuna, e quindi l'indicibile, si possa e si debba provare, partendo dal dicibile, a tastarne i contorni, ad indovinarne dimensioni e forma, per riconoscerlo ed accettarlo come un dato di fatto intrinseco alla natura umana, come si accetta il cambio delle stagioni, senza cercare alcuna compensazione che, tentando di colmarlo, si ponga al di là dell'uomo, negando i suoi difetti, i suoi limiti e la sua fragilità e, con questi, la sua stessa essenza.

L'irrinunciabilità dell'idea di dover rinunciare alla comprensione totale, all'espressione totale. Un paradosso che mi richiama alla mente il modo paradossale in cui Kafka offrì all'amico Max Brod la sua visione dello scrittore ebreo e della sua marginalità (cosa esatta e al contempo, pensando al praghese stesso, non esatta).
Weg vom Judentum, meist mit unklarer Zustimmung der Väter (diese Unklarheit war das Empörende), wollten die meisten, die Deutsch zu schreiben anfingen, sie wollten es, aber mit den Hinterbeinchen klebten sie noch am Judentum des Vaters und mit den Vorderbeinchen fanden sie keinen neuen Boden. Die Verzweiflung darüber war ihre Inspiration. Eine Inspiration, ehrenwert wie irgendeine andere, aber bei näherem Zusehn doch mit einigen traurigen Besonderheiten. Zunächst konnte das, worin sich ihre Verzweiflung entlud nicht deutsche Literatur sein, die es äußerlich zu sein schien. Sie lebten zwischen drei Unmöglichkeiten (die ich nur zufällig sprachliche Unmöglichkeiten nenne, es ist das Einfachste, sie so zu nennen, sie könnten aber auch ganz anders genannt werden): der Unmöglichkeit, nicht zu schreiben, der Unmöglichkeit, Deutsch zu schreiben, anders zu schreiben, fast könnte man eine vierte Unmöglichkeit hinzufügen, die Unmöglichkeit zu schreiben (denn die Verzweiflung war ja nicht etwas durch Schreiben zu Beruhigendes, war ein Feind des Lebens und des Schreibens, das Schreiben war hier nur ein Provisorium, wie für einen, der sein Testament schreibt, knapp bevor er sich erhängt, - ein Provisorium, das ja recht gut ein Leben lang dauern kann), also war es eine von allen Seiten unmögliche Literatur, eine Zigeunerliterartur die das deutsche Kind aus der Wiege gestohlen und in großer Eile irgendwie zugerichtet hatte, weil doch irgendjemand auf dem Seil tanzen muß. (Aber es war ja nicht einmal das deutsche Kind, es war nichts, man sagte bloß, es tanze jemand)
Franz Kafka, Brief an Max Brod, Matliary, Juni 1921
Quello che voleva la maggioranza di coloro che cominciarono a scrivere in tedesco, era abbandonare l'ebraismo, generalmente con l'approvazione vaga dei padri (è questa vaghezza che era rivoltante), lo voleva la maggioranza, ma le loro zampette posteriori si incollavano ancora all'ebraismo del padre e le loro zampette anteriori non trovavano nuovo terreno. La disperazione che ne seguiva fu la loro ispirazione. Un'ispirazione, dignitosa come qualunque altra, ma che, ad osservarla da vicino, presentava tuttavia alcune tristi particolarità. Prima di tutto, quello in cui si scaricava la loro disperazione non poteva essere letteratura tedesca che sembrasse esserlo esteriormente. Vivevano tra tre impossibilità (che chiamo a caso impossibilità della lingua, è la cosa più semplice, chiamarle così, ma si potrebbe anche chiamarle in modo del tutto diverso): l'impossibilità di non scrivere, l'impossibilità di scrivere in tedesco, l'impossibilità di scrivere altrimenti, alle quali si potrebbe quasi aggiungere una quarta impossibilità, l'impossibilità di scrivere (perché questa disperazione non era qualcosa che la scrittura avrebbe potuto lenire, era un nemico della vita e della scrittura, la scrittura non era qui che un provvisorio, come per uno che scriva il proprio testamento poco prima di impiccarsi, - un provvisorio che può benissimo durare tutta la vita), era dunque da tutti i punti di vista una letteratura impossibile, una letteratura di zingari che aveva rubato il bambino tedesco dalla culla e l'aveva in gran fretta predisposto, in un modo o nell'altro, perché bisogna pure che qualcuno balli sulla fune. (Ma non era nemmeno il bambino tedesco, non era niente, si diceva semplicemente che qualcuno balla)
Franz Kafka, Lettera a Max Brod, Matliary, giugno 1921

Poesia scelta stocasticamente.


Oggi (è il 5 aprile 2011) mi è venuto in mente che ne parla anche Marías. Ne riporto qualche riga oggi (è sempre il 5 aprile 2011), a testimonianza delle mie amnesie (forse l'avevo rimosso perché sui saperi pratici la penso diversamente, e anzi mi spaventa la leggerezza con cui ci permettiamo di usare la tecnologia ignorandone completamente il funzionamento e i principi base e quasi disprezzando tutto il sapere e il contributo, tecnico e umano, che si nasconde dietro alla realizzazione di ogni oggetto o strumento - dalla forchetta al computer -; forse l'avevo rimosso perché anche sui primitivi la penso diversamente: che dipingessero le caverne, lo sappiamo, quello che probabilmente ignoriamo sono la magia e la bellezza dei racconti che si scambiavano la sera, prima di coricarsi; forse l'avevo rimosso perché mi avventuro con circospezione nella letteratura presente):
Hay una enorme zona de sombra en la que sólo la literatura y las artes en general penetran; seguramente, como dijo mi maestro Juan Benet, no para iluminarla y esclarecerla, sino para percibir su inmensidad y su complejidad al encender una pobre cerilla que al menos nos permite ver que está ahí, esa zona, y no olvidarla. La literatura nos permite entendernos un poco mejor a nosotros mismos y también al mundo, ambas cosas vienen a ser idénticas. Y de eso, sin duda, y por muchas renuncias idiotas que estén haciendo deliberadamente los hombres y las mujeres contemporáneos, es imposible prescindir del todo si no queremos convertirnos en primitivos llenos de saberes prácticos.
Así, quizá seguimos escribiendo literatura, y leyendo la que se escribe hoy día, porque cada época necesita esa clase de pensamiento aplicado a sí misma, porque precisamos la indagación de nuestra propia zona de sombra, que no coincide en todo con la de nuestros antepasados.
Da El País
Esiste un’enorme zona d’ombra in cui solo la letteratura e le arti in genere possono penetrare; di certo, come disse il mio maestro Juan Benet, non per illuminarla o rischiararla, ma per percepirne l’immensità e la complessità: è come accendere una debole fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì, e di non dimenticarlo. La letteratura ci permette di comprendere un po’ meglio noi stessi e il mondo, che finiscono comunque per coincidere. E da ciò, senza dubbio, è impossibile prescindere del tutto – per quanto deliberatamente gli uomini e le donne d’oggi tendano a farlo – se non vogliamo trasformarci in primitivi capaci solo di conoscenze pratiche.
È per questo forse che continuiamo a scrivere letteratura e a leggere quella che si scrive oggi, perché ogni epoca ha bisogno di una corrente di pensiero in cui potersi riflettere, perché sentiamo l’esigenza di indagare sulla nostra personale zona d’ombra, che non coincide in tutto con quella dei nostri predecessori.
Traduzione di Paola Tomasinelli, in appendice a Un cuore così bianco, Einaudi, 1999

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