Prima o dopo doveva capitare, che finissi sul giornale locale della mia città natale. Soddisfo in effetti pienamente l'unica condizione necessaria per comparirvi: essere nata nel posto dove è edito e distribuito, Trieste.
Poniamo che abbiate scoperto il vaccino per una malattia incurabile fino al momento della vostra scoperta o una nuova particella subatomica o, piuttosto, che abbiate scritto il romanzo del secolo o abbiate salvato migliaia di profughi in fuga da una guerra civile o posto fine al conflitto israelo-palestinese: dimenticatevi di finire tra le sue pagine, a meno che non abbiate almeno un parente di primo grado nato a Trieste (nei periodi di magra di notizie, un parente di secondo grado o un fugace soggiorno in città possono eventualmente bastare).
Pensando solo ed esclusivamente al giorno in cui i miei, suoi fedelissimi lettori, si fossero trovati tra le mani un'intervista alla loro figlia, non ho saputo dire di no, quando una giornalista mi ha contattata e mi ha chiesto se fossi disponibile a rispondere ad una serie di domande volte a definire il percorso che mi ha condotta a lavorare all'estero e a confezionare una piccola intervista nel quadro di una rubrica dedicata ai triestini che lavorano all'estero. Sempre e solo col pensiero rivolto ai miei, mi sono piegata a tutto, anche alla richiesta di farmi fare delle foto "nel contesto della città", io che non mi faccio mai fotografare volentieri, e men che mai in una città come Parigi, che è presente negli album fotografici di milioni di turisti di tutto il mondo.
Il risultato è stato una selezione di quello che la giornalista ha ritenuto potesse stare nello spazio assegnato alla rubrica e al contempo potesse interessare il lettore del quotidiano: omesse la difficoltà dei miei inizi e la chiusura dell'ambiente triestino, omesso ogni riferimento al deficit italiano in materia di parità tra i sessi, omesso l'entusiasmo con cui ho vissuto la mia esperienza francofortese, omessa la mia passione per le lingue, omesso il riferimento a Meneghello e alla questione dell'abitarle, le lingue, omesso il nome del relatore della mia tesi, di cui ho molta stima, omesse le critiche rivolte ad alcuni dei soggetti e delle pratiche che fanno parte del mondo della mia professione, l'enfasi è finita tutta - condita nella consueta salsa di refusi, vera cifra del giornale - sulla mia laurea e sulla mia specializzazione, su Parigi e, in definitiva, sul migliore dei mondi possibili.
Tutto questo sfondo di omissioni e di enfasi, di cui ho informato i miei, chiaramente non è riuscito a smorzare per nulla il loro entusiasmo e la loro emozione nel leggermi: del resto, niente avrebbe potuto farlo ed è giusto così.
L'unica cosa che mi è riuscita di fare, credo, è riportare l'epos con cui hanno vissuto la giornata sui binari della realtà:
Vardè che tuti* finissi sul Piccolo, prima o dopo: meio prima, comunque.
*L'unica pagina essenziale del giornale, seguitissima, giorno dopo giorno, scoppiasse la terza guerra mondiale o cascasse il mondo, è quella dei necrologi.
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