domenica 3 ottobre 2010

"Puoi essere felice ovunque, se sei felice" (italiano emigrato in Irlanda)

Per semplice curiosità e per un naturale bisogno di confrontarmi con gli altri, ho letto molte delle testimonianze che migliaia di italiani residenti all'estero hanno lasciato su Repubblica sulla loro scelta di vivere altrove. Un po' anche per caso, perché lascio passare lunghissimi periodi senza cliccare sul sito di Repubblica, un giornale che si ritiene difensore di prima linea dell'Italia democratica, che protesta vivacemente contro le leggi che lo priverebbero della libertà di pubblicare la fuffa di cui in una non trascurabile parte dei casi si occupa e che non riesce a concludere un articolo senza adottare il linguaggio stesso della parte alla quale vorrebbe contrapporsi. "Libertà": una parola di cui in generale fa gran uso, una parola che sembra quasi tracimare, anche da lì così come da molti siti italiani di informazione di ogni colore, seconda solo all'inarrestabile ricorso gratuito alle parole inglesi, di cui pochi paiono in grado di sapere o volere fare a meno, quando ciò di cui mi sembra ci sia in assoluto maggiore mancanza in Italia, almeno per quello che si riesce a distinguere da fuori, è "giustizia".

Come si sa, come si dovrebbe sapere e come qualcuno degli italiani residenti all'estero esplicitamente ricorda, non si tratta di emigrati speciali ed anzi, rispetto a quelli dei Paesi economicamente poveri e dell'Italia del passato e anche di non poca emigrazione interna, passata e recente, si tratta in tutta evidenza di emigrati privilegiati. Non sono nemmeno italiani speciali - avrei dovuto e dovrei dire siamo, ma preferisco pormi nella posizione che mi è più consona, quella di chi sta alla finestra e guarda fuori a lungo, prima di scendere in strada, se proprio proprio deve - : sono solo italiani che hanno preso o un biglietto di sola andata o con un ritorno aperto, con data da stabilirsi.

Le ragioni per cui l'hanno fatto sono ovviamente molteplici e molto diverse tra loro, complesse o estremamente semplici, più o meno casuali ed alimentate principalmente dalla voglia/necessità di andare in un altro Paese o piuttosto da quelle di andare via dal Paese o, ancora, da una miscela di entrambe. Le ragioni legate al desiderio di guadagnare di più, pur legittime come tutte le ragioni, mi mettono molta tristezza (ne riporto solo una di un residente in Svezia: "adesso villa, cane, Volvo") se non fastidio ("sono un cervello in fuga", dicono quelli, non pochi, che, nella fretta, devono aver dimenticato il culo in patria), ed i rimpianti di alcuni di loro per il clima o il cibo lasciato alle spalle me ne provocano almeno altrettanta, di tristezza, mentre alcune ragioni mi sono più affini, ed alcune davvero meravigliose nella loro essenzialità e nella loro mancanza di pretese, anche se coloro che sono probabilmente più vicini a me finiscono per essere quelli che non le forniscono affatto o, di più ancora, quelli che sul sito di Repubblica non si registrano proprio.

Nonostante la solidarietà che suscita in me la percezione che dietro ad ognuna delle testimonianze rese ci sia tutta la densità della materia umana fatta di sforzi, sberle, abbracci, baci, sogni, delusioni, malinconie e gioie, tuttavia, la mia simpatia - e qui scendo per un attimo in strada -, oggi come in altre occasioni, va a chi continua a vivere in Italia e in qualsiasi altro Paese in cui gli sia capitato di nascere e il biglietto di sola andata l'ha preso lo stesso ed è partito o parte ogni giorno per destinazioni lontanissime senza muoversi fisicamente dal posto in cui vive, sapendo che non può che essere un viaggio senza ritorno o partendo e basta, senza parlarne troppo ed ignorandone del tutto gli sviluppi futuri. È una possibilità, questa, che non è preclusa nemmeno a chi effettivamente si muove, tra l'altro.

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