lunedì 11 ottobre 2010

1963-2010

La prima volta che l'ho visto in libreria non ci credevo, che potesse essere vero: ho pensato ad un miraggio e sono passata oltre. La seconda volta l'ho preso in mano. La terza volta l'ho sfogliato. La quarta volta l'ho sfogliato più a lungo. La quinta volta ne ho letto delle note. Ogni volta, mi sono trattenuta dall'acquistarlo: mi sarebbe parsa una cosa priva di senso, vista la forza con cui mi si era conficcata nel cervello e nel cuore la sua versione originale dopo averla letta almeno due volte, una volta integralmente ancora a Trieste, una seconda volta in loco, in provincia di Vicenza, altre, innumerevoli volte, a pezzi, sfogliandola e risfogliandola.

Ora penso che lo prenderò. Di più, penso che ne prenderò due esemplari: uno per me, uno da riporre in bella vista a fianco dei dizionari comuni dell'ufficio, a beneficio ed uso di tutti.

Certe imprese vanno ricordate come si deve.
Nonostante la notevole importanza dell'opera di Luigi Meneghello nel panorama letterario italiano, il suo romanzo più celebre e il più celebrato, Libera nos a malo, apparso per la prima volta da Feltrinelli nel 1963, non era ancora stato tradotto in francese.
Non è affatto l'effetto di una dimenticanza o di una distrazione degli editori e dei traduttori: il testo pone dei problemi di trasposizione in francese che hanno costituito più di qualche ragione per dissuadere gli uni e gli altri. In questa evocazione della sua infanzia e della sua giovinezza dagli anni '20 agli anni '60 nel paese di Malo, in provincia di Vicenza, Meneghello non si accontenta di ricorrere qua e là al(ai) dialetto(i) della sua regione, il che genera già delle grandi difficoltà, molto di più: il dialetto diventa una delle questioni decisive del racconto, in qualche modo il personaggio centrale. Non si tratta più solo di "rendere" in francese delle parole, delle espressioni e dei modi di dire insoliti per un italiano che non conosca il dialetto di Malo, bisogna anche rendere conto della tensione tra "la lingua" (l’italiano), lingua dei libri, delle idee e degli inni, e la parlata quotidiana (il dialetto), lingua delle cose, dei giochi d'infanzia e della vita, e delle implicazioni sia cognitive, sia poetiche sia politiche che questa tensione comporta.
Fin dall'inizio della traduzione, mi è parso che il ricorso all'argot, a un francese popolare o a delle semplici alterazioni fonetico-grafiche non sarebbe potuto bastare a questa impresa. «Pauv’ gars» non è accettabile per tradurre «poaretto», «mioche» non è adatto per «putèo», né «chatte» per «mona». Si è presto imposta l'idea di andare ad attingere ad un «patois» francese se non la totalità dei termini dialettali da tradurre, anteponendo in ogni caso la logica alla loro traduzione.
Si può obiettare che la realtà dei dialetti in Italia non corrisponda o non corrisponda più a quella dei patois, se non altro perché questi sono ormai quasi totalmente desueti e (quindi) incomprensibili, mentre i primi resistono. Senza dubbio. Ma, da una parte, il dialetto di Meneghello è solo in parte comprensibile al giorno d'oggi, persino ad un abitante della sua regione; d'altra parte, è in gran parte oscuro per un italiano «normale» (che non conosca i dialetti del Vicentino); infine, all'epoca in cui si svolge il racconto, in Francia, i patois avevano ancora, almeno in certe regioni, una certa vivacità e, ancor oggi, certe incrostazioni che persistono nelle parlate locali.
La mia scelta è caduta su un patois francese appartenente ad una zona geografica abbastanza precisamente circoscritta. Lascio al lettore, se lo desidera, il piacere di indovinare quale. In caso di necessità, quando un termine mancava nel mio patois d'elezione, ho "pescato" dai patois vicini, limitrofi geograficamente e/o linguisticamente. In qualche caso, ho dovuto optare per l'invenzione. L'ho fatto sforzandomi sempre di rispettare il "genio della lingua" di Meneghello, cercando al contempo di concepire delle invenzioni verosimili nell'ambito del "patois" di destinazione scelto.
Una volta adottato questo metodo di traduzione, le difficoltà si presentano sotto una nuova luce. Meneghello pone il lettore italiano "normale" davanti a quattro tipi di situazioni:
– un termine (parola, espressione, modo di dire) in dialetto perfettamente comprensibile in tutta Italia perché si è ampiamente diffuso in tutto il paese (esempio: «mona» per designare il sesso femminile), o attraverso le sue similitudini (a volte ancora accentuate nella trascrizione che ne dà Meneghello) con un termine italiano;
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile, ma molto facilmente deducibile (almeno approssimativamente) dal contesto o oggetto di una spiegazione nelle note con cui l'autore adorna il suo testo;
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile, oggetto di una spiegazione in una nota, ma attraverso una spiegazione a sua volta non immediatamente comprensibile (traduzione di un termine dialettale con ... un altro termine dialettale);
– un termine in dialetto non immediatamente comprensibile di cui non viene offerta alcuna spiegazione.
In tutti i casi, mi sono sforzato di modulare la traduzione in modo da porre il lettore francese in una situazione analoga a quella che crea il testo di Meneghello per un lettore italiano «normale».
La mia scelta è consistita insomma nel non sacrificare mai la carica di fastidio del testo originale, e nel non ripiegare l'insolito su un gergo più o meno mascherato. Si tratta, ogni volta, di misurare il "grado" di estraneità di tale o tale termine o modo di dire, e di tentare di trasporre questo fastidio in modo altrettanto fedele nella traduzione francese.
Ringrazio tutte coloro e tutti coloro che mi hanno aiutato in questo compito tanto arduo quanto appassionante: Giovanna Massignan, per le sue insostituibili spiegazioni sul dialetto; Michel Valensi, che è all'origine di questa traduzione, per le sue riletture minuziose e i suoi fini suggerimenti; gli allievi del Centre Européen de Traduction Littéraire di Bruxelles, per i loro incoraggiamenti; Dominique Vittoz, che ha aperto la via; Claudia Zudini per il suo ascolto competente e i suoi incoraggiamenti; Julien, Joachim e Marcélio, per l'entusiasmo per la vita che devo loro.
Senza il loro aiuto e la loro presenza, questa traduzione non avrebbe visto la luce.
Christophe Mileschi, autore della prima versione francese di Libera nos a malo.

*

Ça commence par un orage. Nous sommes arrivés hier soir et ils nous ont mis à dormir comme toujours dans la grande chambre, qui est du reste celle où je suis né. Avec les grondements du tonnerre et les crépitements de la pluie, je me suis senti de nouveau à la maison. C’étaient des roulements, des vagues qui s’achevaient en un ébrouement: bruits connus, choses de mon pays. Tout ce que nous avons ici est mouvementé, vif, peut-être parce que les distances sont courtes et fixes comme dans un théâtre. Les crépitements retentissaient dans les cours alentour, les grondements là-haut sur les toits; je reconnaissais à l’oreille, un peu plus haut, la position du Dieu familier qui faisait les orages quand nous étions enfants, un gars du pays lui aussi. Ici, tout est comme intensifié, question d’échelle probablement, de rapports internes. La forme des bruits et de ces pensées (mais en fait c’était la même chose) m’a semblé un moment plus vraie que le vrai, mais on ne peut plus refaire ça avec des mots.


La surface est élastique, on ne tient pas debout, on cherche l’équilibre en dansottant: on s’enfonce et on remonte les jambes bien écartées, comme c’est amusant! Ils rient et je ris moi aussi, en reprenant l’équilibre je chante: Aux armes nous sommes fassistes, à bas les coumounistes! Quel beau jeu, quelle différence infime entre tomber et rester debout: tout le matin est d’or. Et du fassio nous sommes les éléments, quelles paroles magnifiques, qui sait ce qu’elles peuvent bien vouloir dire?
Des années passèrent avant que j’apprenne à distinguer la danse le matin sur le haut lit de papa et maman du rire et des paroles. Mais en son temps, j’entendis bien le programme enivrant:


La lutte nous la soutiendrons de ch’qu’à la mort
l’ennemi nous l’empoignerons toujours très fort
tant qu’il nous restera un peu de sang au co’r.


Les poings d’empoignerons je me les représentais assénés comme des coups de poignard de haut en bas.


Il y avait des chansons pleines de concepts poignants, avec de délicieux dangers en arrière-plan.


Maman ne pleure pas si y’a une avancée
ton fils est fort et vaincre nous saurons
essuie les larmes de ma fillancée
car lassaut on l’emporte ou faut que nous mourons.

Suivaient les instructions à l’Ardito:


Il enjambe les monts – dévore la plaine
poignard aux dents – granades à main.


J’aimais la syntaxe terrifiante du dernier vers, compris avec l’élan de l’âme-enfant pour ce qu’il était en effet, une compression de avec le poignard entre les dents et les grenades à la main.
Tels étaient les Arditi, enjambeurs de monts dans le grand écart des coureurs de haie, dévorateurs de plaine, piano en italien. Le piano en question m’apparaissait noir et brillant, éclairé par deux abat-jour, muni lui aussi d’une dentition éblouissante de touches. L’Ardito en vert-de-gris avec son béret noir, tout d’abord l’enjambait dans son élan, puis il se retournait et le croquait vite fait.

Vibrelânes, mans à la poitrine!
qui veut ses tanches, deux vers tuent:
il f’rait mieux, Italie, ton oignon,
et dans ces freins, miss, mâ c’est toi!


La forme poétique mâ c’est toi pour c’est toi ne suffisait pas à nous confondre les idées, ni l’archaïsme de mans pour mains. L’ordre était de les porter à la poitrine, horizontalement, en une forme inconnue mais austère de salut: comme un signe de reconnaissance en usage chez les vibrelânes dont, de quelque façon, nous sentions, en chantant, que nous faisions partie ad honorem nous aussi.
Les freins où l’Italie se trouvait entravée étaient pour Bruno ceux de notre Fiat Type-deux, externes, sur le marchepied arrière, derrière la hampe du fanion en triangle: et c’est là que t’y avais l’Italie avec sa couronne de tours et sa robe de chambre blanche.


Ici au pays quand j’étais enfant il y avait un Dieu qui habitait à l’église, dans les espaces immenses au-dessus du maître-autel où l’on voyait en effet suspendu en hauteur un fier portrait de lui parmi les rayons de bois doré. Il était vieux mais très en forme (moins vieux que saint Joseph, bien sûr) et très sévère: il était incroyablement perspicace et c’est pourquoi nous l’appelions omniscient, et le fait est qu’il savait tout et, pire, voyait tout. Il était aussi omnipotent, mais pas de manière absolue: sinon, il se serait baladé avec une paire de ciseaux pour couper la brichotte à tous les enfants qui faisaient des cochoncetés. Les petits adeptes de la brichotte étaient ses ennemis mortels, et s’il avait pu il les aurait sans doute aucun punis comme ça, mais grâce à Dieu il ne pouvait pas.


«La Norma, c’est moi qui la prends, toi tu prends la Carla.»
Et moi je prenais la Carla, mais en secret j’admirais la Norma. La pâleur de la Norma! Ce blanchiment de la peau à l’intérieur des cuisses. La Carla était une belle gachenotte, bouclée et bien faite, à la peau sombre, cordiale; mais la Norma était un doux piège dans lequel je me languissais de tomber.
Mais je prenais la Carla: l’idée de contredire Piareto ne m’effleurait même pas. J’étais le plus jeune (et la Norma, qui avait peut-être six ans, la plus vieille) et ce n’était pas à moi de choisir. Et puis j’aurais été désolé d’offenser la Carla, si sympathique et volontaire.
Ainsi, dans le touffu des plantes grimpantes au milieu du jardin, dans une pénombre verte sous-marine, nos épées de bois déposées entre les rangées d’arbres fruitiers, nous faisions les cochoncetés avec nos femmes couchées par terre.
Mais avec la Norma j’eus une heure de ravissement sublime dans la grande pièce au-dessus de la cave, derrière un objet que je me rappelle dans ses formes essentielles, nid écran toit, probablement un moignon de carrosserie de voiture. Il y avait des surfaces garnies de cuir, des rideaux de soie avec le mécanisme à ressort et le petit bout de ruban pour les abaisser sur les fenêtres sans vitres. C’était l’un de ces nombreux tas de ferraille qu’il y avait là-dedans: nous l’avions hissé sur des bidons et des tréteaux, tout là-haut au niveau de la fenêtre qui donne sur les champs. On se sentait comme dans un salon sans le mur du fond, mais bien à l’abri du monde.
Nous grimpâmes là-haut la Norma et moi pour jouer, et sans accords préliminaires, sans le moindre mot, je fus admis pour une heure trop brève à la communion des surfaces exsangues, du doux nœud où elles pâlissaient.
Actzinpurs! Pour la première communion qu’on faisait à l’église à sept ans, on nous habillait en moussaillons; et les petites filles en blanc. Quand vint mon tour et que je dus aller me confesser pour la première fois, il était bien clair pour moi que je devais aussi confesser les cochoncetés, des années et des années, une vie entière de cochoncetés: mais comment, avec quels mots? C’est la Norma qui me l’apprit. Elle avait fait sa communion quelques années plus tôt, après quoi elle avait pendant un certain temps évité les jeux interdits, auxquels elle ne revint ensuite que rarement et en rechignant.
Un jour que je faisais pipine sur le muret du tas de fumier, passa la Norma qui allait au jardin avec son panier en fil de fer pour cueillir la salade. Je me tournai vers elle, et je me mis à l’inviter joyeusement en agitant de ce que je tenais dans ma menotte. Mais la Norma s’indigna.
«Va-t’o de d’là, cous’tchon!» me dit-elle. «Oblie pas que bientôt tu fas ta coumnïon!»
Plus tard nous nous rencontrâmes dans la cour (le soir tombait) et tandis que nous allions et venions, la Norma me confia la formule grâce à laquelle on se confesse. Je l’appris bien par cœur et le moment venu je la répétai au curé: «Actzinpurs.»
Aux adultes et aux curés le jeu que l’on croyait secret était parfaitement connu; mais ils l’appelaient comme ça.


Chaque confesseur avait son style et ses préférences; de sorte qu’on essayait de choisir celui-ci ou celui-là en fonction des péchés de la semaine. Le problème pratique principal, c’était les pénitences, qui pouvaient varier considérablement. Les plus vieux donnaient des conseils aux inexperts: «Ce coup-là t’as intérêt à voir Bocaléti, mais vers le soir.» Bocaléti, à savoir don Emanuele, vers le soir était plus généreux.
Don Antonio était maigre et doux, il avait une petite voix tremblante et il émanait de lui un air d’innocence et de correction tel que nous étions sincèrement désolés de devoir aller le troubler avec nos méchancetés. Mais quand on y allait, la confession s’avérait des plus faciles.
On parlait des désobéissances, des retards à la messe, des disputes, des gros mots; on brodait sur certains péchés génériques comme l’envie et la vanité, histoire de gagner du temps, la pensée toujours fixée sur le point crucial. À la fin don Antonio posait la Question, qu’il était le seul à Malo à poser de cette façon: «As-tu manqué – contre la Sainte Modestie?» C’était une périphrase toute personnelle pour désigner les actzinpurs; et la délicate formule permettait des réponses tout aussi délicates, un échange d’idées entre gentilshommes. Ainsi, sans user de termes impropres, bien proprement comme dans un questionnaire («Combien de fois?» «Neuf.» «Tout seul ou avec d’autres?» «Avec d’autres.» «Avec d’autres eux, ou d’autres elles?» «Elles.»), on se retrouvait à la fin de la confession, et absous, avec juste trois jevousalumarie à dire. Puis on filait en vitesse pour aller jouir de quelques heures d’innocence totale, avec la certitude délicieuse d’avoir, si elle devait survenir ce soir-là, une bonne mort, d’entrer dans le chœur des anges.


Anzelots, c’est ce nom que nous donnions aux petits êtres de notre pays, aux infants ayant vécu trop peu de temps pour ne pas devenir aussitôt des angelots au moment même de rendre leur dernier souffle sur la terre.
«Pour qui on sonne la cloche?»
«T’entends pas? c’est un anzelot.»
Tous les autres jours aussi la cloche sonnait comme ça. Ça mourait dru, et aux mois les plus cruels, par les grandes journées d’été, nous vivions dans un nuage de petits anges en chemin vers le ciel, qui nous voilait le soleil.
Roberto, le premier Roberto de ma tante Lena, dont celui de maintenant renouvelle le nom, mourut à l’âge de quatre ans d’une gastroentérite. Quand je compris qu’il était en train de mourir, je passai quelques heures d’absolu désarroi; la bonne d’enfants m’avait accompagné chez ma grand-mère et là, dans l’entrée, parmi les pots de plantes vertes près de la fenêtre, l’idée que Roberto mourait m’assaillait par intermittence. Je ressentais le déchirement et l’abîme, mais pas la terreur ni la perte. Ce qui se passait me paraissait insupportable; je sentais que d’un côté il y avait moi, que de l’autre il y aurait bientôt cette chose, et je ne pouvais pas croire qu’on pourrait coexister. J’avais sept ans, et ces tourments existentiels sont parmi les pires dont j’aie gardé souvenir.
Maintenant la chose est là, Roberto est mort, un objet couleur de cire qui ressemble à Roberto est posé sur le divan dans la salle de séjour de ma tante. Maintenant, il m’est déjà plus facile de le supporter, dans cette atmosphère ouatée de deuil qui étouffe les bruits: c’est comme si la mort des personnes chères produisait en plus de tout le reste un souffle de soulagement. Le portail du porche est fermé; chez nous et chez ma tante, au-delà et en deçà du portail, règne le silence. Même Bruno et Mamo notre cousin, qui ont l’âge de Roberto, ne font pas de chahut. Ils sont dans l’entrée, ils épient par le trou de la serrure ce qui se passe dans la salle de séjour de la tante, puis ils se prennent par la main et exécutent sur la pointe des pieds une petite danse de joie. À voix basse, les sourcils en accents circonflexes, comme incrédules d’une telle chance, ils scandent l’hilarante formule: «L’est mort ! L’est mort!»
Le jour où on l’enterra, on installa dans le potager un fauteuil à haut dossier, orné de cabochons en laiton, et les pieuses dames y accompagnèrent tante Lena. Notre potager laissait entrer les coups du clocher, au fond il y avait un grand pin, c’était le mois d’août. La tante Lena en noir s’était abandonnée dans l’absurde fauteuil parmi les plates-bandes de dahlias et de légumes; les pieuses dames marmonnaient.
C’était ce moment que les cérémonies de la mort sont faites pour isoler dans sa pureté, ce moment irrationnel du déchirement, où la douleur n’a plus de sens et l’on dirait un rêve d’été commenté par les poules et les coléoptères, dans un épanchement soudain d’espace entre l’ici et les collines, translucide, infesté par le gong de la cloche.


Pendant les épidémies, la cour était occupée par une escouade de petits bonshommes malicieux au capuchon et à la cape rouges, qui balançaient des giclées de gadoue contaminée; le mortier provoquait une gale dont on mourait en quelques instants; c’était ça, l’épidémie. La cour était tout encombrée de petites caisses de bois tendre, en construction; on amoncelait celles qui étaient pleines au fond, contre le mur de la tante Lena. Pour sauver sa vie, il fallait atteindre la pompe, qui n’était en fait qu’un robinet, devant la couchelle de la tante, et avec l’eau édieuzer immédiatement les contaminés. Et alors, pourquoi nous éloignions-nous de la pompe? Pourquoi courions-nous au beau milieu des nains, risquant sans cesse notre vie parmi les caisses entassées? Pourtant, c’était toujours ce que nous faisions, tous les deux ou trois mois, quand survenait l’épidémie. Quand elle venait, j’allais jusqu’à en rêver la nuit, ou plutôt: je ne me la rappelle même pas directement, mais seulement à travers ces rêves que je faisais tous les deux ou trois mois.
Un angelot s’envola depuis une cour juste au-dessus de chez nous à Capovilla. C’était une cour de terre battue, pas une cour pavée comme la nôtre. Il y avait la pétrisseuse à glaise : un ânon étourdi tournait, tournait autour du petit cratère sombre creusé dans le terrain, où de longues lames d’acier sabraient l’argile. Restez pas près de la machine aux couteaux, les enfants! Oui, mais si la balle en caoutchouc roule là-dedans, on va voir, on tend la main. Les petits morceaux d’ange ont tous leur propre paire d’ailes transparentes comme celles des libellules, et chacun monte au ciel sans se soucier des autres.


On imprimait dans notre esprit qu’il était bon de commencer la confession par les péchés les plus gros. C’est comme quand le paysan doit faire passer par une haie d’épines un poussin et sa mère, et le chien, et la chèvre, et le cochon, et la vache; s’il commence par le plus petit, les efforts et les éraflures recommencent à chaque passage. Mais s’il envoie la vache devant, pour qu’elle défonce la haie bien comme il faut, ensuite les autres passent plus commodément. La vache, le plus souvent, c’était toujours la même, la Guiguite des cochoncetés, mais nous ne trouvions pas à chaque fois le courage de l’envoyer la première. Quelquefois, on arrivait à l’église avec une autre vache. Celle de Mino, un certain samedi, était vraiment très grosse; il la menait derrière lui gêné, et la Noiraude rechignait, comme si elle n’avait pas la moindre intention d’entrer là-dedans; mais à force de secousses, Mino, le visage tout rouge, la traîna jusqu’au confessionnal. Mais quant à la faire passer la première, il n’y songeait même pas. Il confessa donc tous ses autres péchés, un par un; il fouilla même dans son passé le plus lointain, il s’accusa de fautes purement hypothétiques, discuta avec minutie les cas-limites. Il fut loué pour son zèle et exhorté à ne pas tomber dans l’excès de scrupule: restait maintenant à faire passer la Noiraude.
Le curé avait cessé depuis un moment de demander «Et après?» et quand Mino se tut, il commença aussitôt à prononcer les formules qui préludent à l’absolution. Pris de panique, Mino fit avancer promptement la Noiraude.
«J’ai encore un autre péché, un gros péché. J’ai dit du mal des curés.»
Le ton angoissé alarma le confesseur, qui voulut savoir exactement ce qu’il avait dit des curés; mais Mino résistait. «Ah, vous savez, un truc... Du mal, quoi.» Mais à la fin, il lui fallut rapporter les mots exacts. Il avait dit que les curés sont des baouattes à tabac.
Au lieu de s’indigner à la vue de la Noiraude, le confesseur fut pris d’une violente crise de rire, et Mino, éreinté et presque déçu, dut attendre encore plusieurs minutes son absolution.


Aucun d’entre nous ne parvint à répéter l’expérience qu’avait faite mon père, quand il avait dans les dix ou douze ans, à l’église de Sainte-Délivrance, au Castello. Il n’y avait personne dans l’église, et mon père eut envie de voir comment on se sent à l’intérieur de l’alcôve du confessionnal. On s’y sentait très bien, mais malheureusement une dévote passa par là, qui, voyant les rideaux tirés, eut l’idée de profiter de l’occasion. Épouvanté, mon père la confessa, en essayant de grossir sa voix, et à la fin il lui donna l’absolution; mais il n’a jamais voulu nous donner d’autres détails, car le secret de la confession est sacré.


La douleur imparfaite, ça n’avait pas l’air trop difficile de se la procurer: il suffisait de ressentir non pas de la «douleur» dans le sens ordinaire du mot, mais le «regret d’avoir offensé Dieu par crainte de ses châtiments, ad exemplum les peines de l’enfer».
Voyons, est-ce que j’irais en enfer pour ces péchés-là? La réponse ne faisait aucun doute. Et est-ce que je regretterais d’aller en enfer? Bien sûr que oui. Donc j’avais la douleur imparfaite, et comme c’est suffisant pour la confession, on aurait pu s’en tenir là. Mais pour mon malheur, ce raisonnement – avalisé plusieurs fois par de prudents appels à l’autorité – ne me satisfaisait pas entièrement. S’en sortir comme ça me semblait trop facile: qui donc ne regretterait pas d’aller en enfer? Pourquoi faudrait-il spécifier la nécessité de la douleur imparfaite si elle ne consistait vraiment qu’en un sous-entendu?
La solution la plus radicale aurait été de se procurer l’autre douleur, qui s’appelle parfaite justement parce qu’elle offre des garanties absolues; mais c’était une entreprise trop ardue et trop incertaine. De sorte que j’étais arrivé à un compromis: je me contenterais de la douleur imparfaite, mais en l’entendant, plutôt que comme un privilège implicite, comme un sentiment à éprouver pour de bon. Il s’agissait de se représenter les conséquences du péché le plus vivement possible, autrement dit comme si elles étaient déjà devenues effectives; de me mettre dans la peau de ce sosie à moi qui avait eu la poisse de repartir sans l’absolution. Je savais bien comment ça se passerait dès le premier quart d’heure: je me retrouverais pieds nus, en chemise de nuit, dans un endroit éclairé de reflets désagréables, en attente. Comment me sentirais-je alors, hein?
Me concentrant longuement sur les bancs de l’église, déposant longuement mon visage dans les paumes de mes mains, je guettais patiemment la proie incertaine de ma douleur imparfaite. J’étais distrait par les cloches, par les bricolages du sacristain, par les chuchotements des autres déjà prêts à partir: «Allez, viens, sinon tu vas te transformer en saint.» Mais je persévérais: et quand la Douleur battait brièvement des ailes dans la géométrie rougeâtre que mes mains imprimaient sur mes paupières, mon cœur bondissait comme celui d’un chasseur et je l’attrapais.
Je pouvais maintenant me délivrer à moi-même un certificat de douleur éprouvée. Se permettre de douter plus avant, ç’aurait été verser dans l’excès de scrupules.
La douleur parfaite, c’était une tout autre affaire. Normalement, je me contentais du succédané, mais de temps en temps survenait une crise.
En premier lieu, une considération pratique: si en se confessant régulièrement la douleur imparfaite peut suffire, il est par trop évident en revanche que sans confession elle ne vaut rien; l’avoir ou ne pas l’avoir revient exactement au même, on coule comme une pierre. Il est vrai que, semaine après semaine, on finit toujours par arriver à la confession; mais en cas de besoin, comment se bercer de l’illusion qu’on aurait justement la chance de mourir le dimanche, ou à la rigueur le lundi matin? Parce que le reste de la semaine, on tendait naturellement à le passer en état de péché mortel. Et ça serait quand même très amer de se retrouver à l’article de la mort, de se voir faire cette offre au fond très généreuse d’un pardon total en échange d’un petit acte de douleur parfaite, et de ne pas réussir à le faire, ce satané petit acte. Virge Mâmie! Te sentir mourir peu à peu, étourdi par les femmes qui pleurent autour de toi, par le miroir qu’on te met sous le nez pour voir si tu respires encore: et de douleur parfaite, point! Ne serait-il pas prudent de s’exercer, de s’entraîner ?
Mais il y avait aussi un souci plus subtil. Il me semblait que dans la confession le fait même d’accepter le pardon facile sans au moins essayer de mériter le difficile (et, en somme, sans souffrir sérieusement d’avoir offensé Dieu) constituait en tant que tel un nouveau péché, non compris dans le pacte de la confession. Il faudrait en parler au confesseur, au risque de s’entendre répondre que ce ne sont là que scrupules. Avec quelle odieuse gourmandise certains pécheurs et pécheresses ne profitaient-ils pas de telles échappatoires: «Les scrupeules, c’est le curé qui l’a dit, faut pas se faire d’scrupeules, c’est péché.» Mais moi je savais bien que ce n’étaient pas des scrupules. C’était comme dire au bon Dieu: «C’est toi qui l’as voulu. Ben alors tiens, voilà.»
Alors je me torturais pour m’infliger, ne serait-ce que l’espace d’un instant, la douleur parfaite. La technique était difficile et complexe, le temps nécessaire était long, le résultat incertain. Mais je m’obstinais, et certaines fois, mon entreprise fut couronnée de succès: je me relevais alors épuisé, heureux, avec la tête qui tournait. En ces rares occasions, et jamais plus de quelques heures durant, je fus absolument digne du ciel. Malheureusement la plupart du temps je devais renoncer et me contenter d’espérer que tout irait bien.


Qui sait si Ampelio connut la douleur parfaite, la fois où il se confessa avec don Emanuele?
On pouvait se confesser chacun pour soi, comme les adultes, en deçà du maître-autel, dans les confessionnaux réservés aux différents curés, don Tarcisio, Baéti autrement dit don Antonio, l’Archiprêtre, Battilana; il était préférable de se sentir protégé par la grille, même s’ils nous reconnaissaient aussitôt à la voix. Mais à nous, les enfants, il nous arrivait souvent de devoir nous confesser en Chœur, et par groupes.
«Eh, vous vous êtes déjà confessés, vous autres? Alors on y va.»
On allait se mettre à genoux tous en rang sur un banc derrière l’autel. À quelques mètres de là, le curé assis devant un prie-Dieu écoutait un petit pénitent à la fois. C’était au tour d’Ampelio, l’église était plongée dans le silence. Soudain, on entendit tonner la voix de don Emanuele, pris par surprise:
«Ah ça, non! Cous’tchon!»
Les oreilles d’Ampelio flamboyaient.


Les rares fois où l’on allait avec maman à l’office du soir, je disais que la plus belle des litanies, c’était celle qui suivait la Jànua-céli, parce qu’aussitôt après la série était finie, et comme ça on sortait de l’église: mais ce n’était pas la vérité. La vérité, c’est que cette litanie qui faisait suite à la Jànua me plaisait pour la beauté ailée des syllabes qui volaient haut dans la voix enchanteresse de maman.
Ma mère chantait, et moi j’attendais frémissant d’impatience la Jànua: puis voici l’image lumineuse: Étoile du matin! Et puis on sortait.


On faisait de notre mieux pour acquérir du mérite. Guido et moi, nous rivalisâmes une année durant en dévotion. On s’imposait les petites privations du mois de mai en l’honneur de la Madone, et chaque soir il y avait un court prêche de don Bernardo qui, à l’époque, était encore là. Nous établîmes que la preuve de la dévotion consistait à être près du pupitre: celui qui est le plus près est le plus dévot. Nous arrivions de bonne heure pour prendre une chaise au premier rang (pour être exact, c’était le rang qui longeait le pupitre: et en tournant les chaises au bon moment, on se retrouvait devant tout le monde); quand le prêche commençait, grâce à de rapides déplacements de chaises, un coup Guido un coup moi, nous finissions colés au pupitre. Sauf que comme ça, on finissait toujours à égalité, et nous dûmes donc chercher un autre indice de dévotion. À la fin, nous eûmes l’idée de compter les postillons de don Bernardo que nous recevions sur le visage. Nous écoutions son prêche en guettant les petites étincelles virevoltant depuis le pupitre: don Bernardo parlait avec chaleur et il crachait beaucoup, et nous nous annoncions l’un à l’autre à voix basse le décompte des cibles. «Dix-sept-dix-huit, dix-neuf...» «Dix-huit, dix-neuf-vingt...» Il était interdit de s’essuyer, afin que l’adversaire puisse contrôler. Je ne sais plus si à la fin du mois c’était Guido qui était en tête ou si c’était moi, mais la victoire a dû être très courte, nous étions l’un et l’autre très pieux à l’époque.


Luigi Meneghello, Libera nos a malo, traduit du l'italien par Christophe Mileschi, éditions de l'éclat, 2010


S'incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato. Coi tuoni e i primi scrosci della pioggia, mi sono sentito di nuovo a casa. Erano rotolii, onde che finivano in uno sbuffo: rumori noti, cose del paese. Tutto quello che abbiamo qui è movimentato, vivido, forse perché le distanze sono piccole e fisse come in un teatro. Gli scrosci erano sui cortili qua attorno, i tuoni quassù sopra i tetti; riconoscevo a orecchio, un po' più in su, la posizione del solito Dio che faceva i temporali quando noi eravamo bambini, un personaggio del paese anche lui. Qui tutto è come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole.


La superficie è elastica, non si sta in piedi, si cerca l’equilibrio ballonzolando: si affonda e si risale a gambe larghe, com’è divertente! Ridono e rido anch’io, equilibrandomi canto: Alarmi siàn fassisti, abasso i comunisti!
Che bel gioco, che piccola differenza tra cadere e star su: la mattina è tutta d’oro. E noi del fassio siàn i conponenti, che belle parole: chissà cosa vorranno dire?
Passarono anni prima che imparassi a distinguere tra il ballo alla mattina sull’alto letto del papà e della mamma, e il riso e le parole. Però a suo tempo  intesi l’inebriante programma:


La lota sosterén fina la morte
e pugneremo sempre forte forte
finché ci resti un po’ di sangue in core.


I pugni di pugneremo me li rappresentavo vibrati come pugnalate dall’alto in basso.


C’erano canzoni piene di concetti struggenti, con deliziosi pericoli sullo sfondo.


Mama non piangere se c’è l'avansata
tuo figlio è forte e vincere sapràn
assiuga il pianto dela fidansata
perché lassalto si vince o si muor.


Seguivano le istruzioni all’Ardito:


Scavalca i monti - divora il piano
pugnal frài denti - le bonbe a mano.


Mi piaceva la terrificante sintassi dell'ultimo verso, sentito con lo slancio della mente bambina per quello che forse era in effetto, una compressione di col pugnale fra i denti e con le bombe a mano in mano. Questi erano gli Arditi, scavalcatori di monti colla spaccata dell’ostacolista, divoratori del piano. Il pianoforte mi appariva nero e lucido, illuminato da due abat-jour, fornito anch’esso di una dentatura abbagliante di tasti. L’Ardito in grigioverde col berrettino nero, prima lo scavalcava sullo slancio, poi si voltava e lo sgranocchiava rapidamente.

Vibralani! Mane al petto!
Si defonda di vertù:
Freni Italia al gagliardetto
e nei freni ti sei tu.


La forma poetica ti sei tu per ci sei tu non bastava a confonderci, né l’arcaismo di mane per mani. L’ordine era di portarle al petto, orizzontalmente, in una forma sconosciuta ma austera di saluto: come un segno di riconoscimento in uso tra i vibralani a cui sentivamo in qualche modo, cantando, di appartenere ad honorem anche noi.
I freni tra cui era impigliata l’Italia erano per Bruno quelli della nostra Fiat Tipo-due, esterni, sulla pedana destra dietro l’asta del gagliardetto a triangolo: e lì ti era l’Italia con la corona turrita e la vestaglia bianca.


Qui in paese quando ero bambino c’era un Dio che abitava in chiesa, negli spazi immensi so-pra l’altar maggiore dove si vedeva infatti sospeso in alto un suo fiero ritratto tra i raggi di legno dorato. Era vecchio ma molto in gamba (certo meno vecchio di San Giuseppe) e severissimo; era incredibilmente perspicace e per questo lo chiamavano onnisciente, e infatti sapeva tutto e, peggio, vedeva tutto. Era anche onnipotente, ma non in modo assoluto: se no sarebbe andato in giro con un paio di forbici a tagliare il ciccio a tutti i bambini che facevano le brutte cose. I piccoli adopratori del ciccio erano suoi mortali nemici, e potendo li avrebbe puniti senz’altro così, ma grazie a Dio non poteva.


«La Norma la prendo io, tu prendi la Carla.»
E io prendevo la Carla, ma in segreto ammiravo la Norma. Il pallore della Norma! quello sbiancare della pelle all’interno delle cosce. La Carla era una bella tosetta, ricciuta e ben fatta, scura di pelle, cordiale; ma la Norma era un molle tranello in cui bramavo cadere.
Però prendevo la Carla: l’idea di contraddire Piareto non mi sfiorava nemmeno. Io ero il più giovane (e la Norma, che aveva forse sei anni, la più vecchia) e non toccava a me scegliere. E poi mi sarebbe dispiaciuto offendere la Carla, tanto simpatica e volenterosa.
E così, nel folto dei rampicanti a metà dell’orto, in una penombra verde subacquea, deposte tra i filari le spade di legno, facevamo le brutte cose con le nostre donne accucciate per terra.
Ma con la Norma ebbi un’ora di rapimento sublime nello stanzone sopra la cantina, dietro un oggetto che ricordo nelle sue forme essenziali, nido schermo tetto, probabilmente un moncone di carrozzeria d’auto. C’erano superfici imbottite di cuoio, tendine di seta col congegno a molla e il fiocchetto per abbassarle sui finestrini senza vetri. Era uno dei tanti bizzarri rottami che c’erano lassù: l’avevamo issato sopra bidoni e cavalletti, alto alto a livello con la finestra che dà sui campi. Ci si sentiva come in un salottino senza la parete di dietro, ma ben riparati dal mondo.
Ci arrampicammo lassù io e la Norma per giocare, e senza accordi preliminari, senza parole, fui ammesso per una breve ora alla comunione delle superfici esangui, del dolce nodo dove smorivano.
Atinpùri! Per la prima comunione che si faceva in chiesa a sette anni, ci vestivano da marinaretti; e le bambine in bianco. Quando venne il mio turno e dovetti andarmi a confessare la prima volta, mi era ben chiaro che dovevo confessarmi anche delle brutte cose: ma come, con che parole? Me lo insegnò la Norma. Lei aveva fatto la comunione qualche anno prima, e per un po' aveva poi scansato i giochi proibiti, a cui tornò in seguito solo di rado e riluttando.
Un giorno che facevo pissìn sul muretto del letamaio, passò la Norma che andava in orto col cestino di fil di ferro a raccogliere insalata. Io mi voltai verso di lei, e cominciai a invitarla festevolmente agitando quel che tenevo nella manina. Ma la Norma s’indignò.
“Va’ via, mas’cio!” mi disse. “Pensa che presto fai la comunione!”
Più tardi ci trovammo in cortile (scendeva la sera) e passeggiando su e giù la Norma mi confidò la formula con cui ci si confessa. La imparai bene a memoria e a suo tempo la ripetei al prete: “Atinpùri”.
Agli adulti e ai preti il gioco creduto segreto era notissimo; ma lo chiamavano così.


Ogni confessore aveva il suo stile e le sue preferenze; così si cercava di scegliere questo o quello a seconda dei peccati della settimana. Il principale problema pratico erano le penitenze, che potevano variare considerevolmente. I più vecchi davano consigli agli inesperti: “Stavolta ti conviene da Bocaléti, verso sera però”. Bocaléti che era don Emanuele, verso sera era più generoso.
Don Antonio era magro e mite, aveva un vocino tremulo ed emanava un’aria di tale innocenza e compostezza che sinceramente ci dispiaceva di doverlo andare a turbare con le nostre cattiverie. Però quando ci si andava la confessione riusciva delle più facili.
Si parlava delle disubbidienze, dei ritardi a messa, dei litigi, delle parolacce; si divagava su certi peccati generici come l’invidia e la vanità, tanto per guadagnar tempo, sempre col pensiero al punto cruciale. Finalmente don Antonio poneva la Domanda, che solo lui a Malo faceva a quel modo: “Hai mancato - contro la Santa Modestia?” Era una sua perifrasi personale per gli atinpùri; e la formula delicata permetteva risposte altrettanto delicate, uno scambio di idee tra gentiluomini. E così, senza usare termini impropri, pulitamente come in un questionario (“Quante volte?” “Nove.” “Da solo o con altri?” “Con altri” “Con altri o con altre?” “Con altre”) ci si trovava ad aver finita la confessione, e assolti, e solo tre salveregine da dire. Poi via di corsa a godersi qualche ora di innocenza totale, con la deliziosa certezza di fare, se capitasse stasera, una buona morte, entrare nel coro degli angeli.


Anzoléti, con questo nome chiamavano quei nostri compaesanelli infanti, vissuti troppo poco per non diventare subito angioletti nell’atto stesso di rendere l’ultimo respiro sulla terra.
“Per chi suonano?”
“Non senti? è un anzoléto.”
Ogni altro giorno la campana suonava così. Ci morivano fitti, e nei mesi più crudeli, nelle grandi giornate estive, vivevamo in una nuvola di piccoli angioli avviati al cielo, che ci offuscava il sole.
Roberto, il primo Roberto di mia zia Lena, di cui questo di adesso rinnova il nome, morì a quattro anni di gastroenterite. Quando capii che stava morendo passai qualche ora di strazio assoluto; la bambinaia mi aveva accompagnato nella casa della nonna, e lì nella sala d’entrata, tra i vasi di piante verdi vicino alla finestra, l’idea che morisse Roberto mi assaliva a intermittenze. Sentivo lacerazione e abisso, ma non terrore o perdita. Ciò che stava accadendo mi pareva insopportabile; sentivo che c’ero io, e presto ci sarebbe la cosa, e non credevo che si potrebbe coesistere. Avevo sette anni, e questi spasimi esistenziali sono tra i peggiori di cui mi è restata memoria.
Ora la cosa c’è. Roberto è morto, un oggetto color della cera che pare Roberto è restato sul sofà nel tinello della zia. Adesso mi è già più facile sopportare, in quest’aria ovattata di lutto che soffoca i rumori: è come se la morte delle persone care producesse oltre al resto una vena di sollievo. Il portone del portico è chiuso; in casa nostra e in quella della zia, di qua e di là dal portico, c’è silenzio. Anche Bruno e Mamo nostro cugino, coetanei di Roberto, non fanno chiasso. Sono nel portico, spiano pel buco della serratura dentro al tinello della zia, poi si prendono per mano ed eseguiscono in punta di piedi una piccola danza di gioia. Sottovoce, inarcando le ciglia come increduli di tanta fortuna, scandiscono la formula esilarante: “Morto! Morto!”.
Il giorno che lo seppellirono fu portata in orto una poltrona dallo schienale alto, con le borchie di ottone, e le pie donne vi accompagnarono la zia Lena. L’orto nostro è aperto ai rintocchi del campanile, c’era un gran pino in fondo, era d’agosto. La zia Lena in nero s’era abbandonata nell’assurda poltrona tra le aiuole delle dalie e degli ortaggi; le pie donne biascicavano.
Era quel momento che le cerimonie della morte sono fatte per isolare con purezza, quel momento irrazionale dello strazio, in cui esso non dà più senso e pare un sogno d’estate commentato dalle galline e dai coleotteri, in un fiotto di spazio tra qui e le colline, traslucido, infestato dal gong della campana.


Durante le epidemie il cortile era occupato da una squadra di omicini furbacchioni col cappuccio e la mantellina rossa, che tiravano zàcchere di malta infetta; la malta provocava una rogna di cui si moriva in pochi istanti; questa era l’epidemia. Il cortile era tutto ingombro di piccole casse di legno dolce, in costruzione; quelle piene venivano ammonticchiate in fondo contro il muro della zia Lena. Per salvarsi bisognava raggiungere la pompa, che poi era un rubinetto, all’esterno dello spazzacucina della zia, e coll’acqua sbianzare immediatamente gli infetti. E perché allora ci allontanavamo dalla pompa? Perché correvamo in mezzo ai nanetti rischiando continuamente la vita tra i mucchi di casse? Pure facevamo sempre così, ogni due tre mesi quando veniva l’epidemia. Quando veniva me la sognavo anche la notte, anzi non la ricordo nemmeno direttamente, ma solo attraverso questi sogni ogni due tre mesi.
Un angioletto volò via da un cortile qua sopra casa nostra in Capovilla. Questo era un cortile di terra, non come il nostro coi ciottoli. C’era l’impastatrice della creta: un asinello stordito girava, girava attorno alla buia cavernetta affondata nel terreno, in cui lunghe lame d’acciaio sciabolavano la creta. Via dalla macchina dei coltelli, bambini! Però se la palla di gomma ci ruzzola dentro, si va a vedere, si allunga la mano. I pezzettini di angelo hanno ciascuno il suo paio di ali trasparenti come quelle delle libellule, e salgono per conto loro.


Ci veniva impressa nella mente l’opportunità di cominciare la confessione dai peccati più grossi. È come il contadino che ha da far passare per una siepe spinosa un pulcino, e la chioccia, e il cane, e la capra, e il maiale, e la vacca; se comincia dai più piccoli, la fatica e le graffiature si rinnovano a ogni passaggio. Ma se manda avanti la vacca, che sfondi ben bene la siepe, gli altri passano poi comodamente.
La vacca era per lo più la stessa, la solita Binda delle brutte cose, che non sempre però trovavamo il coraggio di mandare avanti per prima. Qualche volta si arrivava in chiesa con un’altra vacca. Quella di Mino, un sabato, era grossissima; se la tirava dietro imbarazzato, e la Bisa s’impuntava, come se non volesse saperne di entrare; ma a forza di strattoni Mino, rosso in viso, la trascinò fino al confessionale. Di farla passare per prima però, non ci pensava nemmeno. Così confessò tutti gli altri suoi peccati, uno per uno; frugò anche nel passato più remoto, si accusò di colpe puramente ipotetiche, discusse puntigliosamente i casi marginali. Fu lodato del suo zelo ed esortato a non cadere negli scrupoli: adesso restava la Bisa.
Il prete aveva smesso da un pezzo di domandare “E poi?” e quando Mino tacque incominciò senz’altro a pronunziare le formule preliminari dell’assoluzione. Mino preso dal panico spinse avanti la Bisa.
“Ho anche un altro peccato, un peccato grosso. Ho detto male dei preti.”
Il tono angosciato allarmò il confessore che volle sapere esattamente cosa aveva detto dei preti; ma Mino resisteva. “Ah, sa, così ... Male insomma.” Infine dovette riferire le parole precise. Aveva detto che i preti sono bai da tabacco.
Anziché indignarsi alla vista della Bisa, il confessore fu preso da una violenta convulsione di riso, e Mino sfibrato e quasi deluso, dovette aspettare ancora qualche minuto per l’assoluzione.


Nessuno di noi riuscì a ripetere l’esperienza che aveva fatta mio padre sui dieci o dodici anni nella chiesa di Santa Libera, in Castello. Non c’era nessuno in chiesa, e mio padre volle provare come si sta dentro all’alcova del confessionale. Ci si stava benissimo, ma purtroppo sopraggiunse una devota che vedendo le tendine chiuse pensò di approfittare dell’occasione. Mio padre spaventato la confessò cercando di ingrossare la voce, e alla fine le diede l’assoluzione; ma non ha mai voluto dirci altri particolari, perché il segreto della confessione è sacro.


Il dolore imperfetto non sembrava difficile procurarselo poiché bastava sentire non “dolore” nel senso ordinario della parola, ma “dispiacere di aver offeso Dio per timore dei suoi castighi, ad esempio le pene dell’inferno.”
Beh, ci andrei all’inferno con questi peccati? La risposta non era dubbia. E mi dispiacerebbe andare all’inferno? Ovviamente sì. Dunque avevo il dolore imperfetto, e poiché questo è sufficiente per la confessione, la cosa sarebbe potuta finir lì. Ma per mia sfortuna il ragionamento - convalidato più volte da cauti appelli all’autorità - non mi convinceva pienamente. Cavarsela così mi pareva troppo facile: e a chi non dispiacerebbe di andare all’inferno? Perché sarebbe specificata la necessità del dolore imperfetto se esso consistesse davvero in una cosa sottintesa?
La soluzione più radicale sarebbe stata quella di procurarsi l'altro dolore, che si chiama perfetto proprio perché offre garanzie assolute; ma era impresa troppo ardua e incerta. Così ero arrivato a un compromesso: mi sarei accontentato del dolore imperfetto ma intendendolo non già come un privilegio implicito, bensì come un sentimento da provare in effetti. Si trattava di rappresentarsi le conseguenze del peccato il più vivamente possibile, ossia come se fossero già diventate reali; di mettermi nei panni di quel mio sosia scalognato, partito senza assoluzione. Lo sapevo bene come sarebbero andate le cose in quel primo quarto d’ora: mi sarei trovato, scalzo, in camicia da notte, in un luogo illuminato da sgradevoli riflessi, in attesa. Come mi sarei sentito allora, eh?
Con lunga concentrazione in ginocchio sui banchi, con lunga deposizione del viso nelle palme delle mani, facevo pazientemente la posta al mio volatile dolore imperfetto. Mi distraevano le campane, gli armeggi del sagrestano, i bisbigli degli altri già pronti: “Andiamo, dài, se no diventi santo”. Ma
perseveravo: e quando il Dolore batteva brevemente le ali tra la geometria rossastra che le mani mi stampavano sulle palpebre, il cuore mi dava un balzo come a un cacciatore, e lo pigliavo.
Ora potevo consegnare a me stesso quasi un attestato di provato dolore. Consentirsi di dubitare oltre sarebbe stato abbandonarsi agli scrupoli.


Ben altra cosa era il dolore perfetto. Normalmente mi accontentavo del surrogato, ma ogni tanto sopravveniva una crisi.
In primo luogo una considerazione pratica: se confessandosi regolarmente il dolore imperfetto può bastare, è troppo certo però che senza confessione non vale nulla; averlo o non averlo è esattamente lo stesso, si va a fondo come una pietra. È vero che di settimana in settimana alla confessione ci si arrivava: ma in caso di bisogno, come illudersi che ci capitasse la fortuna di morire proprio di domenica, o al massimo il lunedì mattina?
Perché, il resto della settimana naturalmente si tendeva a passarlo in peccato mortale. E sarebbe stata amara di trovarsi in punto di morte, con quell’offerta in fondo molto generosa di un perdono totale in cambio di un piccolo atto di dolore perfetto, e non riuscire a farlo questo dannato piccolo atto: Madosca Viola! Sentirsi morire a mano a mano, frastornato dalle donne che ci piangono attorno, dallo specchio che ci hanno messo davanti per vedere se si appanna ancora: e dolore perfetto niente! Non sarebbe prudente esercitarsi, allenarsi.
Ma inoltre c’era anche una preoccupazione più sottile. Mi pareva che nella confessione il fatto stesso di accettare il perdono facile senza almeno tentare di meritarsi quello difficile (insomma senza dolersi sul serio di aver offeso Dio) costituisse di per sé un nuovo peccato, non compreso nel patto della confessione. Bisognerebbe parlarne al confessore, a rischio di farsi dire che questi sono soltanto scrupoli. Con che odiosa golosità approfittavano di queste scappatoie certi peccatori e peccatrici: “Scrùpuli, lo ha detto anche il prete, non bisogna avere i scrùpuli, è peccato”. Ma invece io sapevo che non erano scrupoli. Mi pareva come dire a Dio: “L’hai voluto tu. To' allora”.
Così mi torturavo per infliggermi, magari per un attimo, il dolore perfetto. La tecnica era difficile e complessa, il tempo lungo, il risultato incerto. Ma io mi ostinavo, e alcune volte l’impresa mi riuscì: allora mi rialzavo sfinito, felice, con la testa che mi girava. In quelle poche occasioni, e sempre per poche ore, fui assolutamente degno del cielo. Purtroppo però il più delle volte dovevo rinunciare, e accontentarmi di sperar bene.


Chissà se ebbe il dolore perfetto Ampelio, quella volta che si confessò da don Emanuele?
Si poteva confessarsi per conto proprio, come gli adulti, al di qua dell’altar maggiore, nei confessionali riservati ai vari preti, don Tarcisio, Baéti ossia don Antonio, l’Arciprete, Battilana; era preferibile anzi sentirsi protetti dalla grata, benché ci riconoscessero subito alla voce. Ma a noi bambini capitava spesso di doverci confessare in Coro, e a gruppi.
“Ehi, vi siete già confessati voialtri? Avanti allora.”
Si andava a mettersi in ginocchio tutti in fila su un banco dietro l'altare. A pochi metri di distanza il prete seduto davanti a un inginocchiatoio ascoltava un penitentino alla volta. Era sotto Ampelio, in chiesa c’era silenzio. A un tratto si sentì rimbombare la voce di don Emanuele colto di sorpresa:
“Eh, no! Mas'cio!”
Le orecchie di Ampelio fìammeggiavano.


Le rare volte che si andava con la mamma alle funzioni della sera, dicevo che la più bella delle litanie era quella che seguiva la Jànua cèli, perché subito dopo la serie era finita e così si usciva di chiesa: ma non era la verità. Quella litania seguace della Jànua mi piaceva invece per la bellezza alata delle sue sillabe che volavano alte nella voce incantevole della mamma. Mia madre cantava, e io aspettavo trepidando la Jànua: poi ecco l’immagine luminosa: Stella matutina! Poi s’andava fuori.


Si faceva del nostro meglio per acquistar merito. Io e Guido gareggiammo un anno in devozione. Si andava ai fioretti di maggio e c’era ogni sera una breve predica di don Bernardo che allora era ancora qui. Stabilimmo che la prova della devozione fosse la vicinanza al pulpito: chi è più vicino è il più devoto. Andavamo di buonora per prenderci una sedia in prima fila (veramente era la fila di fianco, dalla parte del pulpito: poi voltando le sedie al momento giusto ci si trovava davanti a tutti); quando cominciava la predica noi con rapidi spostamenti della sedia, uno io uno Guido uno io uno Guido, andavamo a finire a ridosso del pulpito. Così però si terminava sempre alla pari, e dovemmo perciò cercare un altro indice di devozione; infine pensammo di contare gli sputi di don Bernardo che ricevevamo sul viso. Ascoltavamo la predica attenti alle piccole faville che volteggiavano dal pulpito: don Bernardo parlava con calore e sputava molto, e noi ci annunciavamo sottovoce i bersagli. “Diciassette-diciotto, diciannove …” “diciotto, diciannove-venti …”. Era proibito asciugarsi, perché l’avversario potesse controllare. Non so se alla fine del mese fossi in testa io o Guido, ma dev’essere stata una vittoria di misura, eravamo entrambi molto devoti in quel periodo.


Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Feltrinelli, 1963

Ritratti - Luigi Meneghello di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini

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