mercoledì 30 giugno 2010

Come nacque la poesia ecc. ecc.

Sa come prese avvio la poesia? Penso sempre che abbia avuto inizio quando un ragazzo delle caverne ritornò di corsa alla caverna, attraversando l'erba alta, gridando, mentre correva: "Al lupo, al lupo," e non c'era nessun lupo. I suoi genitori babbuineschi, grandi maniaci della verità, gli offrirono sicuramente riparo, ma la poesia era nata - il racconto alto era nato nell'erba alta.
Intervista a Nabokov registrata a Zermatt nel luglio del 1962, trasmessa dalla BBC e pubblicata nel Listener del 22 novembre 1962.


Visto che ci sono, lascio un estratto di un'intervista rilasciata il 30 maggio del 1975 a Bernard Pivot e a Gilles Lapouge per la trasmissione Apostrophes. Prima guardatela - se credete; serve dirlo? -, vi dico poi. Niente di che, ma vi dico poi.


Quello che volevo dirvi è che nelle note biografiche poste in premessa a Nabokov, Nouvelles complètes, Gallimard 2010, si legge che le condizioni imposte da Nabokov all'intervistatore, oltre a quella di conoscere in anticipo le domande e di arrivare in trasmissione con le risposte pronte (Ho orrore dell'improvvisazione), prevedevano che gli si mettesse a disposizione una scrivania coperta di una muraglia di libri destinata a nascondere al pubblico il testo da leggere (Sono molto abile nell'arte di far credere che non leggo veramente e persino che gli occhi, all'occasione, vadano a cercare ispirazione sul soffitto) e che gli fosse servito del whisky in una teiera (Pivot si sentì chiedere: -Vuole un po' di tè? e rispondere -Sì, un po' di tè, è un po' forte, sa?).

Ecco, tutto qua. Se avete cliccato tutto, quello che vi manca, a questo punto, oltre al contenimento del vostro zelo, è solo la quarta parte dell'intervista.

In omaggio alle maschere, tema caro a Nabokov: Io non so se son Valacchi o se Turchi son costor.

martedì 29 giugno 2010

NË STUDION DIMËRORE

1.
Dritaret u trandën, jashtë po ndodhte diçka.
U afrova të shoh, gjëmimet vallë ç'qenë.
Gjethe të rrëzuara, si krahë zogjsh, në një hata.
Dhe një breshër si shtresa perlash mbulonte dhenë.

Ç'janë ato zonja, vallë, që shkundin qafat, atje lart,
Që si breshër shkundin perlat, stolitë?
Diçka ka ndodhur, pa dyshim diçka
Në tokë, në qiell, në shpirtëra.

Diçka ka ndodhur ?
Veç te ti përherë
Në trurin tënd e jashtëzakonshme ngjan gjithçka.
Kurse në të vërtetë
Dimri erdh në derë
Kjo veç ka ndodhur e gjë tjetër s'ka.

2.

Flokët gjysmë të ngrirë,
Të ftohur krejt
Si nga qëndra e dimrit
Ti erdhe drejt.

Ca kokrriza breshëri
Solle me vete që jashtë.
Që kishe diçka nga qielli
Kjo dukej haptas.

Diçka nga dritë të tij
Opake, enigmatike.
Kokrrizat e breshërit
Shkrinin pikë-pikë.

Kështu fjalët e tua
Shndërroheshin në dënesë
Për të ngrirë sërish
Në frizerin e kujtesës.

3.

Përskaj raftesh të bibliotekës së bardhë
Pasi ike, unë qëndrova në qoshe
Hija e mbretit Hamlet u shfaq
Dhe u zhduk ngaqë s'ishte e nevojshme.

Deliri shumëgjuhësh i Xhojsit
Më ofron shërbimin e tij.
E gjatë është pasditja, më thotë,
Në punë mund të të hyj.

Ç'dialogë të dashuruarish, të ndarësh
Ç'letra, ç'memuare të hap?
Ja gjysmëpërçart murmurisin në qoshe
Zelda dhe Skot Fitzxherald.

Por unë largohem më tutje
Në rafte të tjerë ik
Më fal, Volodja Majakovski,
Më fal, dhe ti, Lili Brik.

Kaloj ngadalshëm bri raftesh
Ke do doja të ngjallej sërish?
Të pyesja për ferrin Danten?
Gjithçka e ka thënë imtësisht.

T'i bëja ndoshta Eskilit,
Një naive, vulgare, pyetje:
Më të mira ishin dramat që humbën,
Nga. ato që kanë mbetur?

Iki më tutje, e pafundme
Prej tyre më ngjan kjo dhomë.
Ja Pushkini, hapat i ndal:
Për Ana Kernën tregomë.

Ndonjë ditë pa dyshim ka ardhur
Në flokë me kokrriza breshëri ?
Më trego shkrirjen, dënesën
E kthimin pastaj në perla.

Me trego atje thellë nën tokë
Poeti ditët si i ngrys,
Atje ku nuk mbërrin lavdia
E as turpi, natyrisht, nuk mbërrin.

4.

Porsi çifuti i kthyer në fe tjetër
Ia behu shiu i konvertuar në breshër.

Sa herë shiu në qelqe do trokasë
Ti do të vish këtu dhe në mos ardhsh.

Qofshë si muzikë, si pikiëllim apo si kryq
Unë do të njoh e do të çohem vrik.

Dhe si ai që guackës perlën ia merr
Nga muzika, kryqi a vdekja do të të nxjerr.

Ismail Kadaré, 1985


STUDIO IN INVERNO

I vetri tremarono all'improvviso, fuori accadde qualcosa.
Mi avvicinai alla finestra. Che fragore era?
Fogli strappati come un turbinio di uccelli nella tempesta.
Una grandinata coprì la terra di perle.

Mi chiesi: quali donne mai sono lassù, che scuotono
I gioielli dai loro colli da far grandinare perle?
Qualcosa è accaduto, senza dubbio,
Sulla terra, nel cielo, nelle anime.

Che cosa può essere accaduto?
Tutto è straordinariamente
Semplice nella tua mente.
In verità
L'inverno è alle porte,
Tutto qua.

2.

Con i capelli mezzi ritti,
Freddissimi,
Venisti direttamente
Dal cuore dell'inverno.

Portasti con te
Chicchi di grandine da fuori,
Qualcosa dal cielo,
Lo si vedeva subito.

Qualcosa della sua luce,
Enigmatico, opaco.
Chicco dopo chicco
La grandine si sciolse.

Le tue parole
Soffocarono in singhiozzi
Irrigidite
Nel frigorifero dei ricordi.

3.

Mentre eri via, sono rimasto nell'angolo,
Di fronte alla libreria bianca.
Lo spirito di Amleto è apparso e scomparso,
Era inutile.

Il delirio babelico di Joyce
Mi offre i suoi servigi.
I pomeriggi sono lunghi, dice,
Potrei esserti utile.

Dialoghi di amanti separati
Lettere, memorie. Quale dovrei sfogliare?
Zelda e Scott Fitzgerald, in un angolo,
Sussurrano, mezzi smarriti.

Ma devo proseguire,
Lo scaffale successivo aspetta.
Perdonami, Volodja Majakovskij,
Perdonami anche tu, Lili Brik.

Passo lentamente in rassegna ogni scaffale.
Quali di voi potrei resuscitare?
C'è ancora qualcosa da chiedere sull'inferno,
O Dante ha già detto tutto?

Forse al vecchio Eschilo è meglio porre
Una domanda banale, del tutto ingenua:
Le tragedie perdute erano meglio
Di quelle sopravvissute?

Continuo ad esplorare, lentamente,
Più lontano ancora.
Ah, ecco Puškin, mi fermo:
Raccontami di Anna Kern.

Raccontami di come è venuta anche lei un giorno
Con i capelli imperlati di chicchi di grandine.
Raccontami di come il loro sciogliersi in lacrime
Abbia potuto tramutarli in perle.

Dimmi come un poeta passa
Le sue giornate là sotto terra,
Dove la fama non può raggiungerlo
E naturalmente neanche la vergogna.

4.

Come un convertito ad un'altra fede
La pioggia si è trasformata all'improvviso in grandine.

Ogni volta che la pioggia batterà sui vetri
Sarai qui, verrai

Come musica, come preoccupazione o come croce,
Ed io ti riconoscerò e verrò in volo da te.

Come colui che sa estrarre le perle dalle ostriche,
Ti strapperò alla musica o alla croce o alla morte.

(Liberissima interpretazione ispirata da una versione francese e da una tedesca tra loro diversissime, in una ridda di tempi rimbalzati tra passato e presente. Ah, e poi faccio rispettosamente notare quella delizia di Fitzxherald che, da una parte, si libra quasi all'altezza di Gamburg e Luftgansa in russo e, dall'altra, potrebbe farci da stampella per pronunciare meglio Hoxha)

Rien! En vain j'interroge

domenica 27 giugno 2010

Trieste delenda est

Trieste…
io ti vorrei vedere
distrutta
casa per casa
al suolo
vorrei
che un nuovo Scipio ti mettesse
a ferro e fuoco
come Cartago
vorrei
che vere orde di barbari
ti mettessero a sacco
vorrei vederti
squassata dal mare
come Messina
vorrei
che sulla tua austroungarica rovina
fosse cosparso
il sale

Paolo Universo


Paolo Universo, nato a Pola nel 1934 e morto a Trieste nel 2002, in vita ha pubblicato pochissimo. Ha snobbato Milano, che ha lasciato presto nonostante l'accoglienza positiva della sua opera in ambiente letterario e ha snobbato Trieste (o almeno mal sopportato la sua parte mitizzata, quella adorata da chi brinda al "peto asburgico di Magris"), dove ha passato gran parte della sua vita, in particolare all'Ospedale Psichiatrico di San Giovanni, uno dei luoghi più importanti tra quelli in cui ha operato Franco Basaglia. È stato tradotto in francese ed è per questo che l'ho ritrovato, dopo un brevissimo, fortuito incontro in una poesia di Grisancich.


Di lui, Giampiero Neri ha scritto:
Alcune poesie di Paolo Universo erano apparse nel 1972, sul primo numero dell’Almanacco dello Specchio. A pubblicarlo, su un giudizio favorevole ma alquanto oscillante di Sereni (passavano i mesi – scriveva Universo in una sua poesia – ma tu, Sereni, col cavolo che mi rispondevi) aveva contribuito anche il parere positivo di mio fratello, lo scrittore Giuseppe Pontiggia, che allora faceva parte della redazione dell’Almanacco mondadoriano.
Le poesie di Paolo Universo potevano piacere o non piacere, ma era difficile ignorarle. Molto della sua personalità, scontrosa e anticonformista, era presente nei suoi scritti, come le sue graffianti e irridenti invettive, più di superficie peraltro e prive di rancori.
Ad opera di un gruppo di amici triestini, queste poesie tornano adesso a formare un nuovo libro con un gruppo di inediti che ha per titolo Delenda Trieste. Trieste, come si sa, è una delle più belle città del mondo ma i suoi abitanti amano lapidarla.

Cadrà fra poco in cenere

die veteranengarten

„Again he fighting with his foe, counts o’er his scars,
Tho‘ Chelsea’s now the seat of all his wars,
And fondly hanging on the lengthening tale,
Reslays his thousands o’er a mug of ale.“
Sir John Soane,
Inschrift im Summerhouse des Royal Hospital, London
die veteranen wachsen aus dem gras
empor in ihren ehrenuniformen;
die schweren messingknöpfe blinzeln matt
ins späte licht des nachmittags zurück.
sie wachsen aus dem gras wie in den mythen
das heer der ausgesäten drachenzähne.

die veteranen zeigen ihre zähne
auf fotos, die so braun wie altes gras
geworden sind – vergilbter noch als mythen.
der kampf, sagt jener grieche, ist der formen
beginn, und alles führt zu ihm zurück.
die veteranen steigen auf das matt-

erhorn ihrer erinnerung, das matt
im gegenlicht erstrahlt. die falschen zähne,
die längst schon in der ebene zurück-
geblieben sind. fast unbemerkt im gras
die enkel, glücklich mit geringsten formen
des spiels - ein gegensatz zum kaum bemühten

versuch der veteranen, sich beim mythen-
umrankten spiel der könige ins matt
zu setzen. (die die weißen steine formen
benutzen elfenbein und walroßzähne.)
im veteranengarten wächst das gras.
die schnecke gleitet in ihr haus zurück.

die veteranen denken oft zurück
und kaum nach vorne. so entstehen mythen.
die enkelkinder spielen auf dem gras
in das die kameraden bissen, matt
vom kampf. zu leben heißt: man muß die zähne
zusammenbeißen. und das schicksal formen.

die schwestern tragen weiße uniformen
und sind doch warm. sie rollen sie zurück
ins haus wenn erste sterne ihre zähne
entblößen, und ein ganzes heer von mythen
folgt ihnen auf die zimmer. wo es matt
war vom gewicht erhebt sich nun das gras.

die dunklen formen wandern übers gras -
man mag an zähne denken. oder mythen.
der könig bleibt zurück in seinem matt.

Jan Wagner
Guerickes Sperling, Berlin Verlag, Berlin 2004


i giardini dei veterani
„Lottando ancora col suo nemico, enumera le sue ferite,
Benché Chelsea sia ora il luogo di tutte le sue guerre,
E teneramente dipendendo dal racconto che continua,
Ne trucida migliaia davanti a un boccale di birra.“
Sir John Soane,
Iscrizione nella Summerhouse del Royal Hospital, Londra

i veterani crescono dall'erba
all'insù nelle loro uniformi da parata;
i pesanti bottoni di ottone emettono riflessi opachi
nella tarda luce del pomeriggio.
crescono dall'erba come nei miti
l'esercito dei denti di drago seminati.

i veterani mostrano i loro denti
in foto diventate così marroni
come erba vecchia – più ingiallite ancora dei miti.
la battaglia, dice quel greco, è l'inizio
delle forme, e tutto vi si riconduce.
i veterani si arrampicano sul matt-

erhorn del loro ricordo, sul riflesso opaco
in controluce. i denti finti,
da tempo rimasti
in pianura. quasi inosservati nell'erba
i nipoti, felici per le minime forme
del gioco - a differenza del tentativo 

appena forzato dei veterani di farsi matto
nel gioco avvolto di miti
dei re. (quelli che tagliano pedine bianche 
usano l'avorio e denti di tricheco.)
nel giardino dei veterani cresce l'erba.
la lumaca riscivola nella sua conchiglia.

i veterani pensano spesso al passato
e a stento al futuro. così nascono i miti.
i nipoti giocano sull'erba
in cui i compagni mordono, spossati 
dalla lotta. vivere significa: bisogna serrare
i denti. e modellare il destino.

le sorelle indossano uniformi bianche
e almeno sono calorose. li fanno rotolare
in casa quando le prime stelle scoprono
i loro denti, e un intero esercito di miti
li segue in camera. dov'era appiattita
dal peso si rialza ora l'erba.

le forme scure vagano sull'erba -
si può pensare a denti. o a miti.
il re si ritira nel suo scacco matto.


Dormo ancora o son desto

sabato 26 giugno 2010

27 giugno 1980 - 27 giugno 2010

La ricerca di un senso

I Medi decisero liberamente di eleggere Deioce, il re che poi trincerò se stesso e la verità dietro le mura del proprio palazzo. 

ταῦτα μὲν δὴ ὁ Δηιόκης ἑωυτῷ τε ἐτείχεε καὶ περὶ τὰ ἑωυτοῦ οἰκία, τὸν δὲ ἄλλον δῆμον πέριξ ἐκέλευε τὸ τεῖχος οἰκέειν. οἰκοδομηθέντων δὲ πάντων κόσμον τόνδε Δηιόκης πρῶτος ἐστὶ ὁ καταστησάμενος, μήτε ἐσιέναι παρὰ βασιλέα μηδένα, δι᾽ ἀγγέλων δὲ πάντα χρᾶσθαι, ὁρᾶσθαι τε βασιλέα ὑπὸ μηδενός, πρός τε τούτοισι ἔτι γελᾶν τε καὶ ἀντίον πτύειν καὶ ἅπασι εἶναι τοῦτό γε αἰσχρόν. ταῦτα δὲ περὶ ἑωυτὸν ἐσέμνυνε τῶνδε εἵνεκεν, ὅκως ἂν μὴ ὁρῶντες οἱ ὁμήλικες, ἐόντες σύντροφοί τε ἐκείνῳ καὶ οἰκίης οὐ φλαυροτέρης οὐδὲ ἐς ἀνδραγαθίην λειπόμενοι, λυπεοίατο καὶ ἐπιβουλεύοιεν, ἀλλ᾽ ἑτεροῖός σφι δοκέοι εἶναι μὴ ὁρῶσι.
Ἡρόδοτος, Ἱστοριῶν, Α, XCIX

Queste opere murarie Deioce le faceva costruire per sé e intorno alla propria reggia; al resto del popolo ordinò di abitare all'esterno delle mura. Ultimati i lavori, Deioce stabilì, e fu il primo a farlo, il seguente regolamento: a nessuno era consentito presentarsi direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire tramite araldi, il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato a tutti, come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza. Cercava di rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i suoi antichi compagni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per capacità personali o per nobiltà di nascita, non finissero, vedendolo, per irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro; anzi non vedendolo lo avrebbero sempre considerato diverso da loro.
Erodoto, Storie, Libro I, 99

*
Alcuni siti che commemorano la strage

Associazione dei parenti delle vittime della strage di Ustica
Lo speciale di Repubblica
Ustica 30 anni dopo: chi sa parli
Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino, Strage di Ustica: documenti USA
Stefan Troendle, ARD-Hörfunkstudio Rom, Was geschah mit Flug 870?
Di siti francesi che abbiano speso negli ultimi giorni una parola sull'anniversario, non ne ho trovati. E li ho cercati bene.

*
Una poesia

Anniversario

"Il poeta racconta perché i versi sono diventati brutti"
Bertolt Brecht, Brutti tempi

Loro ci fanno il ponte, sopra i morti
mi veniva un po' con il vino
o in un sogno inacidito

ecco, lo vedi quando dico
che in questi anni duemila
ci siamo finiti per sbaglio

Roberto (mi ricordo) aveva detto
la gioia è nella rivoluzione
non nello stato socialista

io credo che forse tentennavo un po'
la testa, ma avevi ragione

perché il senso
è nel cercare il senso
non nell'averlo trovato

(trovato cosa, poi?)

e ne ho lette tante di poesie
mai che ci fosse
quella che cercavo

Walter Cremonte

In un angolo

Accasciato in un angolo di stanza
penso a vacanze
negli altri tre angoli
mai a un trono nel mezzo della stanza.

Bartolo Cattafi

Biancheggia in mar lo scoglio

Sconosciuti

Non avete nome
non voglio darvene alcuno
pezzi intercambiabili inseribili
in piccole caselle
sconosciuti che mi venite intorno
a giri stretti e larghi
piastrelle combustibili
nei deliziosi fuochi d'un minuto.

Bartolo Cattafi

Sur la place chacun passe, chacun vient, chacun va ; drôles de gens que ces gens-là!

giovedì 24 giugno 2010

E ora creiamo, sulla base di un breve soggetto assegnatoci or ora, una poesia, in una data forma metrica e rispettando il prescritto schema di rime, in una ventina di secondi, e in ogni caso in meno di un minuto. E poi passiamo subito a recitarla. Davanti a migliaia di persone. Cantandola.

Se fossimo bertsolari ce la potremmo fare.



BERTSOLARI PILOTO english sub. from txintxua on Vimeo.

(ma non è la melodia di Redemption song, quella finale?)

Center study for oral tradition, Basque oral poetry championship
Diversi altri articoli su Oral Tradition

Tento muž ešte trvá na nádeji

Tento muž ešte trvá na nádeji,
pije vodu z dlaní, padá do trávy,
učí sa abecedu, odznova počíta
na prstoch, usmieva sa
do slnka, prechádza dažďom
s nepokrytou hlavou, dýcha
súhlasne so spiacim synom,
zasadil strom, ešte trvá na nádeji,
rukou sa dotýka brezovej kôry, horúcej
pokožky svojej ženy, šálky s čajom,
čierneho klavírneho krídla, na ktorého
vyleštenom dreve vidno odraz
sústredenej tváre
neznámeho strelca.

Karol Chmel


Quest'uomo persiste nella speranza,
beve acqua dai palmi, si lascia cadere nell'erba,
impara l'alfabeto, conta di nuovo
sulle dita, sorride
di fronte al sole, attraversa la pioggia
con la testa scoperta, respira
all'unisono con suo figlio che dorme,
ha piantato un albero, persistendo sempre nella speranza,
tocca con la mano la corteccia di una betulla, la pelle
ardente di sua moglie, la tazza di tè,
il coperchio di un pianoforte a coda
il cui legno lucido riflette
il viso concentrato
di un ignoto cecchino.



Intanto, però, persistiamo.

Puškin, il nostro tutto



Ora è ormai definitivamente chiaro che A. Puškin è il nostro tutto, Tsereteli il nostro dappertutto e V. Putin il nostro per sempre.

mercoledì 23 giugno 2010

marsyas




Apollo u Marsyas

właściwy pojedynek Apollona
z Marsjaszem
(słuch absolutny
kontra ogromna skala)
odbywa się pod wieczór
gdy jak już wiemy
sędziowie
przyznali zwycięstwo bogu
mocno przywiązany do drzewa
dokładnie odarty ze skóry
Marsjasz
krzyczy
zanim krzyk jego dojdzie
do jego wysokich uszu
wypoczywa w cieniu tego krzyku
wstrząsany dreszczem obrzydzenia
Apollo czyści swój instrument
tylko z pozoru
głos Marsjasza
jest monotonny
i składa się z jednej samogłoski
A
w istocie
opowiada
Marsjasz
nieprzebrane bogactwo
swego ciała
łyse góry wątroby
pokarmów białe wąwozy
szumiące lasy płuc
słodkie pagórki mięśni
stawy żółć krew i dreszcze
zimowy wiatr kości
nad solą pamięci
wstrząsany dreszczem obrzydzenia
Apollo czyści swój instrument
teraz do chóru
przyłącza się stos pacierzowy Marsjasza
w zasadzie to samo A
tylko głębsze z dodatkiem rdzy
to już jest ponad wytrzymałość
boga o nerwach z tworzyw sztucznych
żwirową aleją
wysadzaną bukszpanem
odchodzi zwycięzca
zastanawiając się
czy z wycia Marsjasza
nie powstanie z czasem
nowa gałąź
sztuki - powiedzmy - konkretnej
nagle
pod nogi upada mu
skamieniały słowik
odwraca głowę
i widzi
że drzewo do którego przywiązany był Marsjasz
jest siwe
zupełnie

Zbigniew Herbert


Il vero duello fra Apollo
e Marsia
(orecchio assoluto
contro enorme gamma)
avviene verso sera
quando come già sappiamo
i giudici
avevano assegnato la vittoria al dio
saldamente legato all'albero
meticolosamente scorticato
Marsia
grida
prima che il grido giunga
alle sue alte orecchie
egli riposa all'ombra di quel grido
scosso da un fremito di disgusto
Apollo pulisce il suo strumento
solo in apparenza
la voce di Marsia
è monotona
ed è formata da una sola vocale
A
in realtà Marsia
narra
l'inesauribile ricchezza
del suo corpo
i monti calvi del fegato
le bianche forre dei cibi
le selve fruscianti dei polmoni
le dolci alture dei muscoli
le giunture la bile il sangue e i fremiti
il vento invernale delle ossa
sul sale della memoria
scosso da un fremito di disgusto
Apollo pulisce il suo strumento
adesso al coro
si unisce la colonna vertebrale di Marsia
in sostanza quella stessa A
solo più profonda con l'aggiunta di ruggine
questo supera ormai la resistenza
del dio dai nervi di fibre artificiali
per il viale ghiaioso
fiancheggiato da bosso
il vincitore si allontana
chiedendosi se
dall'ululo di Marsia
non sorgerà col tempo
un nuovo ramo
di arte – diciamo – concreta
d'improvviso
cade ai suoi piedi
un usignolo pietrificato
volta la testa
e vede
che l'albero al quale era legato Marsia
è canuto
completamente

(Ne ignoro il traduttore)


marsyas

der kälte des himmels und dem gesang
der vögel schutzlos ausgeliefert.
von generation zu generation
reichen wir uns weiter seine haut
wie ein familienerbstück, einen frack.

Jan Wagner


marsia

consegnato inerme al freddo del cielo
e al canto degli uccelli.
di generazione in generazione
ci trasmettiamo la sua pelle
come un antico oggetto di famiglia, un frac.

(lo conosco abbastanza)


Der schöne 38. September

In dieser Starkstromnacht, in dieser
vom Anfang bis zum offenen Ende
durchdachten Großtraumanlage
baldowert der Mond, der Mürbeteigkeks
über den von Wolkenfäden zersägten Himmel
und die Hände, was sollen diese Hände
heute wurden 1000 Senegalesen
als Botenstoffe Europas zurückgeschickt
das Wetter, so bei AOL, wird geladen
und du, du hörst das Zusammenwachsen
der Fontanellen aller Säuglinge
dieser Stadt, du Pathos-Arsch

Björn Kuhligk


Il bel 38 settembre

In questa notte di corrente ad alta tensione, in questo
impianto di grande sogno, sofisticato
dall'inizio sino all'aperto finale,
sonda la luna, il biscotto di pasta frolla
sopra il cielo tagliato da fili di nuvole
e le mani, che senso hanno queste mani
oggi 1000 senegalesi sono stati
respinti come semiochimici dell'Europa
il tempo, così in AOL, viene caricato
e tu, tu ascolti la coalescenza
delle fontanelle di tutti i neonati
di questa città, tu coglione di pathos


Un passo indietro, il 33 agosto.

lunedì 21 giugno 2010

Il segreto e potente vincolo tra pasticceria e poesia

En percebre de lluny el meu rival que m’esperava, immòbil, a la platja, he dubtat si era ell o el meu cavall o Gertrudis. En acostar-m’hi, m’he adonat que era un fallus de pedra, gegantí, erigit en edats pretèrites. Cobria amb la seva ombra mitja mar i duia gravada al sòcol una llegenda indesxifrable. M’he acostat per copiar-la, però al meu davant, hi havia únicament el meu paraigua. Damunt la mar, sense ombra de vaixell ni de núvol, suraven els guants enormes que calça el monstre misteriós que et persegueix cap al tard sota els plàtans de la Ribera.

Josep Vicenç Foix i Mas, Gertrudis, 1927

Quando percepii da lontano il mio rivale che mi aspettava, immobile, sulla spiaggia, non ero sicuro se fosse lui o il mio cavallo o Gertrude. Avvicinandomici, mi resi conto che era un fallo di pietra, gigante, eretto in epoche remote. Copriva con la sua ombra mezzo mare e sullo zoccolo recava incisa una legenda indecifrabile. Mi avvicinai per copiarla, ma di fronte a me c'era solo il mio ombrello. Sul mare, senza ombra di barca o di nuvola, galleggiavano i guanti enormi calzati dal mostro misterioso che ti perseguita la sera sotto i platani della Ribera.

Gertrudis è il titolo del primo libro di J.V. Foix ed il nome di una donna dalla silhouette confondibile.



A Joana Givanel

És quan plou que ballo sol
Vestit d'algues, or i escata,
Hi ha un pany de mar al revolt
I un tros de cel escarlata,
Un ocell fa un giravolt
I treu branques una mata,
El casalot del pirata
És un ample gira-sol.
Es quan plou que ballo sol
Vestit d'algues, or i escata.

És quan ric que em veig gepic
Al bassal de sota l'era,
Em vesteixo d'home antic
I empaito la masovera,
I entre pineda i garric
Planto la meva bandera;
Amb una agulla saquera
Mato el monstre que no dic.
És quan ric que em veig gepic
Al bassal de sota l'era.

És quan dormo que hi veig clar
Foll d'una dolça metzina,
Amb perles a cada mà
Visc al cor d'una petxina,
Só la font del comellar
I el jaç de la salvatgina,
-O la lluna que s'afina
En morir carena enllà.
És quan dormo que hi veig clar
Foll d'una dolça metzina.

Josep Vicenç Foix i Mas, 1945

*


Debemos a Gabriel Ferrater la certeza de que existe un secreto y poderoso vínculo entre pastelería y poesía. En una entrevista de los finales de los sesenta, al tiempo que arremetía contra el tópico romántico del artista atormentado ante el abismo, se reía de todos a quellos que atribuyen a los artistas unas funciones distintas de las que se atribuyen a personas normales.

Por ejemplo - decía - hay una persona que es escritor y pastelero, el poeta catalán Foix. Alguien puede preguntarse si lo importante es el Foix persona o el Foix poeta. Pero a nadie se lo ocurrirá preguntarse si lo importante es el Foix persona o el Foix pastelero. (...) Pero nosotros los escritores somos comerciantes, aunque quasi no ganamo dinero. Hacemos un cierto oficio y ese oficio da unos productos. Que importa mas? Las personas o los productos? Importan los productos. Los clientes de la pastelería non admitirían que Foix les diera una semana pasteles malos y como excusa les dijera que ha pasado una semana de neurosis.

Enrique Vila-Matas, El traje de los domingos, 1995

domenica 20 giugno 2010

Il poeta venuto da un'altra galassia

Quan va esclatar la guerra, jo tenia
catorze anys i dos mesos. De moment
no em va fer gaire efecte. El cap m'anava
tot ple d'una altra cosa, que ara encara
jutjo més important. Vaig descobrir
Les Fleurs du Mal, i això volia dir
la poesia, certament, però
hi ha una altra cosa, que no sé com dir-ne
i és la que compta. La revolta? No.
Així en deia aleshores. Ajagut
dins d'un avellaner, al cor d'una rosa
de fulles moixes i molt verdes, com
pell d'eruga escorxada, allí, ajaçat
a l'entrecuix del món, m'espesseïa
de revolta feliç, mentre el país
espetegava de revolta i contra-
revolta, no sé si feliç, però
més revoltat que no pas jo. La vida
moral? S'hi acosta, però és massa ambigu.
Potser el terme millor és l'egoisme,
i és millor recordar que als catorze anys
hem de mudar de primera persona:
ja ens estreny el plural, i l'exercici
de l'estilita singular, la nàusea
de l'enfilat a dalt de si mateix,
ens sembla un bon programa pel futur.

Gabriel Ferrater, versi iniziali di In memoriam

Quando scoppiò la guerra, avevo
quattordici anni e due mesi. Al momento
non mi fece troppo effetto. La mia testa
era tutta piena di qualcos'altro, che tuttora
considero più importante. Scoprii
Les Fleurs du Mal, e questo significava
la poesia, certamente, ma
c'è dell'altro, che non so come esprimere
ed è ciò che conta. La rivolta? No.
Anche se è come la chiamavo allora. Disteso
dentro un nocciòlo, nel cuore di una rosa
di foglie molli e molto verdi, come
pelle di bruco scorticata, lì,
al cavallo del mondo, mi ispessivo
di rivolta felice, mentre il paese
echeggiava degli spari di rivolta e contro-
rivolta, non so se felice o no, ma
più ribelle di quanto non lo fossi io. La vita
morale? Vi si avvicina, ma è troppo ambiguo.
Forse il termine migliore è l'egoismo,
ed è meglio ricordare che a quattordici anni
dobbiamo cambiare in prima persona:
perché il plurale ci sta stretto, e l'esercizio
dello stilita singolare, la nausea
di puntare al proprio massimo
ci sembra un buon programma per il futuro.


Metrònom (La noia non è "noia", ma "ragazza")
Pensiero

sabato 19 giugno 2010

Come sarebbe se si cancellasse la memoria ad un uomo

Поезда в этих краях шли с востока на запад и с запада на восток... А по сторонам от железной дороги в этих краях лежали великие пустынные пространства - Сары-Озеки, Серединные земли желтых степей. В этих краях любые расстояния измерялись применительно к железной
дороге, как от Гринвичского меридиана... А поезда шли с востока на запад и с запада на восток...
(...)
У кладбища Ана-Бейит была своя история. Предание начиналось с того, что жуаньжуаны, захватив-шие сарозеки в прошлые века, исключительно жестоко обращались с пленными воинами. При случае они продавали их в рабство в соседние края, и это считалось счастливым исходом для пленного, ибо проданный раб рано или поздно мог бежать на родину. Чудовищная участь ждала тех, кого жуаньжуа-ны оставляли у себя в рабстве. Они уничтожали память раба страшной пыткой - надеванием на голову жертвы шири. Обычно эта участь постигала молодых парней, захваченных в боях. Сначала им начисто обривали головы, тщательно выскабливали каждую волосинку под корень. К тому времени, когда заканчивалось бритье головы, опытные убойщики-жуаньжуаны забивали поблизости матерого верблюда. Освежевывая верблюжью шкуру, первым долгом отделяли ее наиболее тяжелую, плотную выйную часть. Поделив выю на куски, ее тут же в парном виде напяливали на обритые головы пленных вмиг прилипающими пластырями - наподобие современ-ных плавательных шапочек. Это и означало надеть шири. Тот, кто подвергался такой процедуре, либо умирал, не выдержав пытки, либо лишался на всю жизнь памяти, превращался в манкурта - раба, не помнящего своего прошлого. Выйной шкуры одного верблюда хватало на пять-шесть шири. После надевания шири каждого обреченного заковывали деревянной шейной колодой, чтобы испытуемый не мог прикоснуться головой к земле. В этом виде их отвозили подальше от людных мест, чтобы не доносились понапрасну их душераздирающие крики, и бросали там в открытом поле, со связанными руками и ногами, на солнцепеке, без воды и без пищи. Пытка длилась несколько суток. Лишь усиленные дозоры стерегли в определенных местах подходы на тот случай, если соплеменники плененных попытались бы выручить их, пока они живы. Но такие попытки предпринимались крайне редко, ибо в открытой степи всегда заметны любые передвижения. И если впоследствии доходил слух, что такой-то превращен жуаньжуанами в манкурта, то даже самые близкие люди не стремились спасти или выкупить его, ибо это значило вернуть себе чучело прежнего человека. И лишь одна мать найманская, оставшаяся в предании под именем Найман-Ана, не примирилась с подобной участью сына. Об этом рассказывает сарозекская легенда. И отсюда название кладбища Ана-Бейит- Материнский упокой.

Чингиз Торекулович Айтматов, И дольше века длится день

Da quelle parti correvano i treni diretti da Oriente a Occidente e da Occidente a Oriente...
Da una parte e dall'altra della ferrovia si stendevano immensi spazi deserti, i
Sarozeki, le Terre Centrali delle steppe gialle.
In quelle zone le distanze si misuravano facendo riferimento alla ferrovia, come dal meridiano di Greenwich...
E i treni correvano da Oriente a Occidente e da Occidente a Oriente...

(...)
Il cimitero di Ana Bejit aveva la sua storia. La leggenda ebbe inizio ai tempi degli Žuany-žuany che nei secoli passati avevano conquistato i Sarozeki e che trattavano con inaudita crudeltà i prigionieri di guerra. Capitava che li vendessero come schiavi nei Paesi confinanti e questa era considerata una fortuna per il prigioniero, giacché lo schiavo venduto prima o poi scappava e tornava in patria. Una sorte mostruosa attendeva invece quelli che gli Žuany-žuany decidevano di tenere schiavi presso di sé. Cancellavano loro la memoria con una tortura terribile: il supplizio dello širi, per cui appiccicavano alla testa della vittima strisce di pelle di cammello. Lo scuoiavano e per prima cosa separavano la parte più dura e compatta della pelle, quella del collo. Dopo averla fatta a strisce la appiccicavano alla testa rasata dei prigionieri per mezzo di mastici; le strisce aderivano all'istante come cerotti, qualcosa di simile, d'aspetto alle cuffie da bagno dei nostri moderni nuotatori. Questo - si diceva appunto - significava "mettere gli širi". Chi veniva sottoposto a questa procedura o moriva non reggendo alla tortura, o perdeva la memoria per tutta la vita, trasformandosi in mankurt cioè in uno schiavo che non ricordava il proprio passato. La pelle di un cammello bastava per 5-6 operazioni. Dopo che la testa gli era stata avvolta con le strisce di pelle, ogni condannato veniva incatenato a un ceppo in modo che non potesse toccare terra con la testa. Veniva quindi trasportato lontano dai luoghi abitati perché non si sentissero le grida laceranti e lo si lasciava nella steppa aperta con le mani e i piedi legati, sotto il sole cocente, senz'acqua e senza cibo. La tortura durava alcuni giorni. Solo alcune sentinelle di rinforzo facevano la guardia in punti strategici nel caso che compagno della trbù del prigioniero tentassero di aiutarlo finché era ancora vivo. Ma queste iniziative avvenivano assai raramente giacché nella steppa aperta ogni movimento è subito notato. E se anche giungeva poi la notizia che il tale era stato trasformato in mankurt, neppure i suoi familiari cercavano di salvarlo o di riscattarlo, poiché ciò significava riprendersi solo un fantoccio di quello che prima era un uomo. Soltanto una madre najmana rimasta nella leggenda con il nome di Najman-Ana non si rassegnò a questa sorte del figlio. La leggenda sarozeka parla di questo. E di qui prese il nome il cimitero di Ana-Bejit, il riposo della madre.

Čingiz Torekulovič Ajtmatov, Il giorno che durò più di un secolo, traduzione dal russo di Erica Klein, Mursia, 1982


Non mi viene in mente nessuno scrittore italiano da cui ci si senta di congedarsi così (link a youtube).

venerdì 18 giugno 2010

Come sarebbe se curassimo il mal di stomaco con un poema epico

Avevo dei problemi allo stomaco, così andai da un guaritore. Il guaritore mi disse che dovevo cominciare a recitare il Manas. Era come se avessi qualcuno dietro di me, come un grande uccello. Mi disse che dovevo andare in un mazar (luogo santo), venerare il mazar e recitare il Manas, così la mia strada si sarebbe aperta. Allora venni qui e venerai quest'albero. Recitai il Manas e mi ristabilii. Era il 1993.

Rysbek Yumabaev, cantore dell'epos Manas


Manas and the joys of Kyrgyz
Selezioni del Manas tradotte in inglese
R.Z. Kydyrbaeva, The Kyrgyz epic Manas (pagg. 403-410)

giovedì 17 giugno 2010

Come sarebbe se l'Italia a nord-est confinasse con incroci tra coccodrilli e leoni

Neznana vrsta

Vse je povzročil strah pred
"č", "ž", "š" in "nj",
saj marsikdo, ki jih rabi, je od daleč,
je sumljivo rejen, v tem mestu pa so se izogibali celo Stendhalu,
iz bogvekatere gline, iz bogvekaterega padlega angela.
Zdaj mi je žal, da nisem iz gobca kakega bika
in mi je žal, da nisem križanec
med krokodilom in levom.
Koliko lažje bi bilo.

Irena Žerjal
Miran Košuta, Slovenica. Peripli letterari italo-sloveni, Diabasis, 2005


Specie ignota

La causa di tutto è la paura della
"č", della "ž", della "š" e della "nj",
perché molti di quelli che le usano vengono da lontano,
nascono sospetti, nella città dove schivavano persino Stendhal,
da chissà quale creta, da chissà quale angelo caduto.
Ora mi dispiace di non provenire dal muso di qualche toro
e mi dispiace di non essere un incrocio
tra coccodrillo e leone.
Quanto sarebbe più facile.


Irena Žerjal è nata a Ricmanje (San Giuseppe della Chiusa), una frazione del comune di San Dorligo della Valle (Dolina), in provincia di Trieste (Trst), nel 1940. Ha scritto diverse raccolte di poesie e un romanzo.

Se si riesce a pronunciare joie de vivre, si riesce anche a pronunciare Žerjal.

martedì 15 giugno 2010

Solo

Aveva visto, definitivamente, il socialismo. Era un bel cielo azzurro, un po' umido, che si nutriva del respiro delle erbe da foraggio. Solidale, il vento muoveva appena i laghi opulenti delle parcelle coltivate, la vita era così felice che non faceva rumore. Restava solo da stabilire il senso sovietico dell'esistenza.

Andreï Platonov, Tchevengour, traduit du russe par Louis Martinez, Robert Laffont, 1996

*

Napoli, 28 dicembre 1972

Andrej Platonov scrisse Čevengur (traduzione italiana: Da un villaggio in memoria del futuro) alla fine degli anni venti. A più di quarant'anni dalla nascita del romanzo e a venti dalla morte del suo autore, Čevengur viene ora pubblicato a Parigi con un'introduzione di Michail Heller. Gor'kij, che in queste cose si era formato un fiuto infallibile e un udito finissimo, oggi può essere citato come un buon profeta: il romanzo "lirico-satirico" Čevengur, con i suoi sottintesi "anarchici", non aveva la minima possibilità di passare attraverso la cruna della censura fin dal primo momento. Stalin aveva stroncato il racconto di Platonov Vprok (A buon pro) con una parola a margine: podonok (feccia). Quella "feccia" è oggi considerato come uno dei più interessanti scrittori russi del periodo dopo la rivoluzione. Heller definisce Čevengur un "romanzo filosofico" e i suoi protagonisti "cavalieri erranti delle idee". Giustissimo, tuttavia, in certi punti, mi verrebbe voglia di presentare diversamente l'eccezionale impresa di Platonov. Il suo è un dramma allegorico sulla rivoluzione, meravigliosamente incastonato in una narrazione severamente realista, a volte addirittura brutale. La Russia ai tempi di Kronštadt, lorda di sangue, sempre più sprofondata nella sofferenza: nel cuore di questa Russia c'è il capoluogo di provincia Čevengur, la "città del sole", la capitale del "puro comunismo", innestata sui cadaveri, sede della pazzia astratta, che mobilita gli uomini ormai stremati per inseguire la "fine della storia e di tutto". Come nel dramma allegorico medievale, l'azione sembra svolgersi su due piani: in basso si agita l'infelicità umana, in alto arranca brancolando nella nebbia il sogno della felicità umana. In Platonov i due piani sono perfettamente accordati, combaciano con una precisione tale che il tutto assume spesso una tonalità di un poema drammatico. Che cosa li salda? Il sorriso mestamente ironico dell'autore. "La fine della storia e di tutto" non ci sarà, il sogno popolare della palingenesi non si realizzerà: le riflessioni sulla vita hanno insegnato a Platonov ad apprezzare più "l'amore per ciò che è vicino" che non "l'amore per ciò che è lontano"; nel '28 o nel '29 comprende già, senz'ombra di illusioni, che "i cavalieri erranti delle idee" si sarebbero sviluppati in burocrati ottusi e crudeli, specialisti nell'applicare il pugno di ferro all'ebbrezza della follia. E tuttavia il sorriso, per quanto sempre più mesto, rimane fino all'ultima pagina del romanzo.
Vedo quel sorriso anche nella fotografia di Platonov, che si trova all'inizio dell'edizione parigina di Čevengur. È un sorriso dolce, benevolo, appena appena un po' insicuro su una faccia addolorata da plebeo. Più tardi sarebbe scomparso completamente. Nel 1938 fu arrestato l'unico figlio di Platonov, quindicenne, per aver preso parte a una "congiura antisovietica". Due anni dopo il padre riuscì a elemosinare a Stalin la liberazione del ragazzo deportato nel lager di Norylsk, ma soltanto per poter assistere alla sua morte per tubercolosi fulminante. Platonov si mise a bere, gli amici gli procurarono un posto di custode all'istituto letterario "Gor'kij": sotto il regime sovietico era un buon posto per uno scrittore serio, che nei momenti in cui non era ubriaco e in cui non doveva fare il guardiano, poteva utilizzare la ricca biblioteca dell'istituto. Contagiato dal figlio, morì di tubercolosi nel 1951.

Napoli, 29 dicembre 1972

Il sorriso di Platonov non mi ha dato pace per tutto il giorno, frugavo nella mia memoria alla ricerca di un sorriso corrispondente. E alla fine... Fra le quaranta persone rinchiuse nella cella della prigione di Vitebsk sorrideva nello stesso modo Marcin C., un giovane operaio di una vecchia famiglia di Łódź, comunista e autodidatta dotato di una grande intelligenza, arrivato poco dopo la disfatta del settembre 1939 nella "patria del proletariato mondiale". Andò a finire nel mio stesso campo di prigionia, a Kargopol, ma fu assegnato alla sezione peggiore, alla Seconda Alekseevka. Dopo che i polacchi furono amnistiati, passò per la centrale di Ercevo: lo accompagnai dalla peresylka (prigione di transito) al posto di guardia. Del suo sorriso non restava che un crampo dei suoi lineamenti affilati e deperiti, come lo sfregio di una ferita cicatrizzata male. Non ho più avuto notizie di Marcin dopo il bacio che ci scambiammo in silenzio davanti alla garitta. Si arruolò nell'esercito di Anders? Fu reclutato nell'esercito di Berling? Si stabilì in una Čevengur russa che aveva riacquistato il senno? Non so perché, la terza possibilità mi sembra la più probabile. A quei tempi, in Russia, tra i comunisti distrutti c'erano anche dei casi di irrevocabile disprezzo autopunitivo per il vecchio sogno.

Gustaw Herling, Diario scritto di notte, traduzione di Donatella Tozzetti, Feltrinelli, 1992

ma che mi interessa ormai degli idiomi?/не ваш - sere sforbiciate via verso il niente/поздно ночью, в уснувшей долине - aldilà/ниоткуда

Alto, altro linguaggio, fuori idioma?

Lingue fioriscono, affascinano
inselvano e tradiscono in mille
        aghi di mutismi e sordità
sprofondano e aguzzano in tanti e tantissimi idioti
Lingue tra i cui baratri invano
si crede passare-fioriti, fioriti, in altissimi
        sapori e odori, ma sono idiozia
Idioma, non altro, è ciò che mi attraversa
in persecuzioni e aneliti di h j k ch ch ch
        idioma
        è quel gesto ingessato
        che accumula sere sforbiciate via verso il niente. Ma
pare che da rocks crudelmente franti tra
i denti diamantiferi, in
ebbri liquori vengano gl'idiomi!
Pare, ognuno, residuo di sé, di
io-lingua, ridotto a seduzione!
Ma vedi come - in idioma - corra i più orribili rischi
la stessa nebbia fatata del mondo, stock
di ogni estatico scegliere, di ogni devozione
        E là mi trascino all'intraducibile perché
        fuori-idioma, al qui, al sùbito,
        al circuito chiuso che pulsa
        al grumo, al giro di guizzi in un monitor
Non vi siano idiomi, né traduzioni, ora
        entro il disperso
        il multivirato sperperarsi in sé
        di questo ritornante attacco dell'autunno.
"Attacco", "traduzioni", che dissi? O
altri sinonimi h j k ch ch ch
sempre più nervosamente adatti, in altri idiomi?
Ma che mi interessa ormai degli idiomi?
Ma sì, invece, di qualche
piccola poesia, che non vorrebbe saperne
ma pur vive e muore in essi - di ciò mi interessa
e del foglio di carta
per sempre rapinato dall'oscurità
ventosa di una ValPiave
davvero definitivamente
canadese o australiana
                        o aldilà(1).

Andrea Zanzotto, Idioma, 1986


Часть речи

Ниоткуда с любовью, надцатого мартобря,
дорогой, уважаемый, милая, но неважно
даже кто, ибо черт лица, говоря
откровенно, не вспомнить, уже не ваш, но
и ничей верный друг вас приветствует с одного
из пяти континентов, держащегося на ковбоях;
я любил тебя больше, чем ангелов и самого,
и поэтому дальше теперь от тебя, чем от них обоих;
поздно ночью, в уснувшей долине, на самом дне,
в городке, занесенном снегом по ручку двери,
извиваясь ночью на простыне --
как не сказано ниже по крайней мере --
я взбиваю подушку мычащим "ты"
за морями, которым конца и края,
в темноте всем телом твои черты,
как безумное зеркало повторяя.

Иосиф Бродский


Parte del discorso

Da nessun luogo con affetto, addì
martembre(2), caro egregio diletta, ma non importa chi,
perché i tratti del volto, a dire il vero,
non li ricordo più, il non vostro
certo, ma neanche di nessuno
fedele amico vi saluta da uno
dei cinque continenti, fondato sui cow-boys; io
ti ho amato più degli angeli e di Lui
e perció ora sono lontano da te più che da loro;
ad ora tarda, in fondo a una valle che dorme,
in un paese con la neve a mezza porta,
torcendomi di notte sul lenzuolo,
(così come in ogni caso qui sotto non è detto)
sprimaccio il mio cuscino, "tu" mugghiando,
oltre mari finiti, con tutto il corpo i tuoi tratti
nel buio, come uno specchio folle, ripetendo.

Josif Brodskij
(1976)
Poesie 1972-1985, a cura di Giovanni Buttafava, Adelphi, 1986

(1) in un'altra versione, ho trovato "chi sa".
(2) nelle traduzioni italiane delle Memorie di un pazzo di Gogol', cui la data rimanda, generalmente si trova marzobre, l'86 marzobre, il giorno in cui, dopo oltre tre settimane di assenza dal lavoro, il pazzo decide di andarci per scherzo.

lunedì 14 giugno 2010

Parigi, architettonicamente parlando - 2

Le raccolte di poesie Alcools (1913) e Calligrammes (1918) sono considerate i capolavori di Apollinaire, uno dei massimi poeti di lingua francese di inizio '900.

Si dice che la raccolta Alcools contenga le sue poesie più belle composte fino a quel momento: tra queste, una delle più note è Le pont Mirabeau.

Non conosco bene Apollinaire, però rivolgo il mio pensiero a lui quasi ogni giorno, anche se non a lungo, diciamo qualche minuto, il tempo di attraversare il ponte Mirabeau, appunto, rivolgere lo sguardo alla targa, presente anche lì come su moltissimi pezzi di architettura della città, pensare agli infiniti modi possibili in cui un poeta del primo Novecento, abitante in una città europea tra le più intellettualmente stimolanti ed effervescenti, in continuo, stretto contatto con i movimenti artistici più all'avanguardia dell'epoca, avrebbe potuto avviare una poesia dedicata a quel ponte e leggerne il primo verso:

"Sotto il ponte Mirabeau scorre la Senna"

per poi fermarmi nella lettura, proseguire il cammino e dedicarmi ad altre riflessioni.

Non è un pensiero positivissimo, se posso dire.







Parigi, architettonicamente parlando - 1

Saint-Sulpice, 1900

Je hais les tours de Saint-Sulpice
Quand par hasard je les rencontre
Je pisse
Contre

Raoul Ponchon, 1848-1937
Poèmes de Paris, Parigramme, 2009


Odio le torri di Saint-Sulpice
Quando per caso le incontro
Ci piscio
Contro

(Certo che la reazione alla vista delle torri ha il suo peso, in questi quattro versi, ma l'accento, a me, cade piuttosto su quel "per caso". Vi leggo in controluce tutta una storia di girovagare su passi malfermi, dettati più dall'alcool che dalla volontà. Anche nel mio girovagare, normalmente sobrio, ci sono dei luoghi della città che, pur ovviamente immobili e teoricamente prevedibili, si presentano all'improvviso dietro l'angolo di una casa, in fondo ad una lunga via che taglia interi quartieri, all'aprirsi di un varco tra gli edifici in mezzo ad un incrocio, ecc.)

domenica 13 giugno 2010

I colori e i suoni delle parole


Questa immagine è tratta da Il colore del melograno, film di Sergej Iosifovič Paradžanov, grande amico di Tarkovskij. Il film, censurato, poi portato a termine e montato nella forma in cui lo conosciamo da Sergej Jutkevič, è dedicato al trovatore armeno Sayat-Nova, le cui poesie vanno cantate (Sette giorni sette nottiSayat-NovaOusdi goukas (Da dove vieni?).

Sayat-Nova scrisse non solo nell'armeno di Tbilisi arricchito di persiano, ma anche in georgiano e in dialetto turco di Transcaucasia. Un incontro quasi inevitabile, verrebbe da dire, per il regista armeno dalle tre "matrie" (motherlands), la Georgia che l'ha visto nascere, l'Ucraina che l'ha visto lavorare e l'Armenia che l'ha visto morire.

Grazie ad un'anima generosa, che contribuisce ad evitare che, oltre al prezzo pagato in vita con il carcere per le sue "tendenze surrealiste", Paradžanov paghi ora con l'oblio, il film si trova su google videos. E ora anche in questo post, che non ha altro scopo se non quello di sostenere un contributo di questo tipo.




Mentivo. Il post mi serve anche per prendere nota del nome di Serge Venturini, un poeta che in difesa della cultura e della memoria, rivolgendosi a Sollers, riesce a firmarsi, in una lingua che normalmente vaga impersonalmente tra le salutations distinguées e i cordialement, "con ferocità" (e che - ne sono certa - solo per passione e sdegno scrive Ulisse al posto di Giasone). E che si fa fotografare così, poi.

sabato 12 giugno 2010

Puškin e il mantra della cultura russa

Bene, basta tergiversare: è arrivato il momento di affrontare Evgenij Onegin, il mantra della cultura russa.

Dopo averne cercate diverse interpretazioni, ne propongo la più sensata di tutte, quella del poeta Dimitrij Aleksandrovič Prigov, che ne ha declamato i primi versi alla maniera buddista, musulmana e, naturalmente, ortodossa.

"Мой дядя самых честных правил,
Когда не в шутку занемог,
Он уважать себя заставил
И лучше выдумать не мог.
Его пример другим наука;
Но, боже мой, какая скука
С больным сидеть и день и ночь,
Не отходя ни шагу прочь!
Какое низкое коварство
Полуживого забавлять,
Ему подушки поправлять,
Печально подносить лекарство,
Вздыхать и думать про себя:
Когда же черт возьмет тебя!"


Di principi onestissimi, mio zio,
or che giace ammalato per davvero,
fa sì che lo rispetti infine anch’io;
e non poteva aver miglior pensiero;
esempio agli altri ed ammaestramento;
ma quale noia, o Dio, quale tormento
ad un infermo muoversi d’intorno,
senza mai allontanarsi, e notte e giorno!
Oh, quale ipocrisia, quale meschina
perfidia divertire un moribondo,
aggiustare i guanciali a un gemebondo,
con faccia triste dar la medicina,
sospirare e pensar fra sé: che guai!
quando all’inferno dunque te n’andrai?

Traduzione di Ettore Lo Gatto


Un accenno ad una versione indù e un'ulteriore versione buddista si possono trovare in questo video, a beneficio dei cultori di Prigov.

venerdì 11 giugno 2010

Come sarebbe se continuassi ancora, inesorabilmente, con Puškin

заумь

дыр бул щыл
убешщур
скум
вы со бу
р л эз

в этом пятистишии больше русского национального, чем во всей поэзии Пушкина.

Алексей Елисеевич Кручёных


zaum' (*)

dyr bul ščyl
ubešščur
skum
vy so bu
r l ez

In questi cinque versi c'è più carattere nazionale russo che in tutta la poesia di Puškin.

Aleksej Eliseevič Kručenych, 1913

(*) transmente, transragione. Il resto è quello che vi suggerisce la vostra anima russa.


mercoledì 9 giugno 2010

Come sarebbe se continuassi ancora con Puškin

Ne Lo Specchio di Tarkovskij, una signora (la Achmatova?) chiede a Ignat di leggere da un libro le parti di una lettera di Puškin sottolineate con una matita rossa. Queste.

Non c'è dubbio che lo scisma delle chiese ci ha separati dall’Europa e che non abbiamo partecipato a nessuno dei grandi eventi che l’hanno scossa, ma noi avevamo la nostra propria missione. È la Russia, sono i suoi spazi sconfinati ad aver assorbito l’invasione mongola. I tartari non hanno osato superare le nostre frontiere occidentali. Si sono ritirati nelle loro steppe e la civiltà cristiana è stata salvata. A questo scopo, abbiamo dovuto condurre un’esistenza assolutamente particolare che, pur lasciandoci cristiani, ci ha tuttavia resi profondamente estranei al mondo cristiano.

Per quanto riguarda la nostra insignificanza dal punto di vista storico, non posso decisamente essere d’accordo con voi.

E non trovate qualcosa di importante nell’attuale situazione della Russia, qualcosa che colpirà gli storici futuri? Anche se sono sinceramente devoto al nostro sovrano, non posso proprio entusiasmarmi vedendo quello che mi circonda; come letterato ne sono irritato, come uomo afflitto da pregiudizi ne sono offeso, ma vi giuro sul mio onore che per nulla al mondo vorrei cambiare patria, o avere un’altra storia, diversa da quella dei nostri padri, esattamente come Dio ce l’ha data.

Dalla Lettera di Puškin a Čaadaev, 19 ottobre 1836


Andrej Tarkovskij, Lo specchio, 1974
Pergolesi, Stabat Mater, Quando corpus morietur/ fac ut animae donetur/ paradisi gloria, 1736

Come sarebbe se continuassi con Puškin

Как известно, у Пушкина никогда не росла борода. Пушкин очень этим мучился и всегда завидовал Захарьину, у которого, наоборот, борода росла вполне прилично. «У него — ростет, а у меня — не ростет», — частенько говаривал Пушкин, показывая ногтями на Захарьина. И всегда был прав.

Даниил Хармс, Анекдоты из жизни Пушкина, 2

Come noto, a Puškin non cresceva mai la barba. Puškin ne era tormentato ed invidiava sempre Zachar'in cui, al contrario, cresceva una barba del tutto rispettabile. "A lui cresce, a me no", ripeteva spesso Puškin, puntando il dito verso Zachar'in. E aveva sempre ragione.

Daniil Charms, Aneddoti dalla vita di Puškin, 2

Come sarebbe se un russo non capisse Puškin

Не понимать русскому Пушкина значит не иметь права называться русским.

Достоевский, Дневник писателя, 1877 год, Декабрь, Глава вторая, Пушкин, Лермонтов и Некрасов.


Per un russo non capire Puškin significa non avere il diritto di chiamarsi russo.

Dostoevskij, Diario di uno scrittore, 1877, dicembre, Capitolo secondo, Puškin, Lermontov e Nekrasov

martedì 8 giugno 2010

Come sarebbe se sentissimo uno di quei classici

Einen jener klassischen

schwarzen Tangos in Köln, Ende des
Monats August, da der Sommer schon

ganz verstaubt ist, kurz nach Laden
Schluß aus der offenen Tür einer

dunklen Wirtschaft, die einem
Griechen gehört, hören, ist beinahe

ein Wunder: für einen Moment eine
Überraschung, für einen Moment

Aufatmen, für einen Moment
eine Pause in dieser Straße,

die niemand liebt und atemlos
macht, beim Hindurchgehen. Ich

schrieb das schnell auf, bevor
der Moment in der verfluchten

dunstigen Abgestorbenheit Kölns
wieder erlosch.

Rolf Dieter Brinkmann
Westwärts 1&2, 1975


Sentire uno di quei classici

tanghi neri a Colonia, alla fine del
mese di agosto, quando l'estate è già

tutta polverosa, poco dopo la chiusura
dei negozi dalla porta aperta di un

ristorante buio di proprietà
di un greco, è quasi

un prodigio: per un istante una
sorpresa, per un istante

un profondo respiro, per un istante
una pausa in questa via

che nessuno ama e toglie
il fiato, quando ci si passa. Ne ho

buttato giù una nota, prima
che l'istante svanisse di nuovo

nel dannato umido torpore mortale
di Colonia.



Köln, Kaufhof-Garage, 17 agosto 1976
Foto di Engelbert Reineke, Bundesarchiv


"Überall triffst du hier auf diesen Muff, du kämpfst gleichzeitig an 9 Fronten, und dabei geht alle Freude futsch. Manchmal, beobachte ich, möchten sich Leute, die miteinander reden, nur noch in die Fresse schlagen. So grau wars nicht mal in Chicago. Ich meine verglichen zu Köln" (Dappertutto si sbatte contro questa muffa, si combatte contemporaneamente su 9 fronti, così tutta la gioia va a remengo. Qualche volta le persone, quando parlano tra loro, vogliono solo prendersi a schiaffi. Non era così grigio a Chicago. Voglio dire, in confronto a Colonia).

Rolf Dieter Brinkmann: Briefe an Hartmut (Lettere all'amico Harmut Schnell, cui scriveva da qui). 1974-1975


8 funt

Один человек лег спать верующим, а проснулся неверующим.
По счастию, в комнате этого человека стояли десятичные медицинские весы, и человек имел обыкновение каждый день утром и вечером взвешивать себя. И вот, ложась накануне спать, человек взвесил себя и узнал, что весит 4 пуда 21 фунт. А на другой день, встав неверующим, человек взвесил себя и узнал, что весит уже всего только 4 пуда 13 фунтов. «Следовательно,— решил этот человек,— моя вера весила приблизительно восемь фунтов.«

Даниил Хармс


Un uomo andò a dormire credente e si svegliò non credente.
Fortunatamente, nella stanza di quest'uomo c'era una bilancia decimale da farmacista e l'uomo aveva l'abitudine di pesarsi ogni giorno, mattina e sera. E così la sera prima, andando a dormire, l'uomo si era pesato e aveva scoperto che pesava 4 pud e 21 funt. L'indomani, dopo essersi alzato non credente, l'uomo si pesò di nuovo e scoprì che pesava solo 4 pud e 13 funt. "Di conseguenza", concluse l'uomo, "la mia fede pesava circa 8 funt".

Daniil Charms

La surpròisa

La matòina a stagh sò
e a tróv e’ mònd in pì,
e’ mònd che pò s-ciupè
cmè una bòlla ad savòun.

Sante Pedrelli, E’ nòud me fazulètt, Rimini, 2003


La surprise

Le matin, je me lève
et je trouve le monde debout,
le monde qui peut éclater
comme une bulle de savon.

lunedì 7 giugno 2010

Saada eurooplaseks?

Saada eurooplaseks - ihkasid eestlased ammu.
Kuidas küll püüdsid nad selle jääks lihvida sammu,
ikka ei tulnud see samm nendel välja, ei nüüd ega ammu,
ehkki neil südikust jätkub, ja nutti, ja kehalist rammu, -
ikka ei saa ega saa nemad selgeks eurooplase sammu.

Samm on vist õige, kuid miski ei laabu vist taktis.
Jalad on kammitsas tuhandes väikeses faktis,
millest Euroopa saab üle kui lennul, just tantsivas taktis, -
ei olda kinni seal päriselt üheski punktis ei paktis.
Eestlane olla eurooplane tahtis just toonis ja taktis.

Kust saada seda, mis puudub Euroopaski endas.
Vabadus, võrdsus, ja vendlus - just seal vastu taevast kõik lendas.
Kas söandad kuulata häält, mis kui loodus veel kõneleb endas:
karda ja valva ka kurja, mis pesitseb hääduses endas,
mis kaugeist ilmust kui vaablaste vägi su juustesse lendas?

Hando Runnel, 1997


Essere europei?

Gli estoni, una volta, desideravano essere europei. Lavoravano con zelo per affinare il proprio passo.
Oggi, come allora, tutti i loro sforzi sono rimasti vani. Benché non manchino affatto di spirito, di forza o di cuore, questo passo europeo no, non l'impareranno mai. Il passo senza dubbio è buono, il difetto è nella cadenza. I loro piedi sono bloccati sempre da mille piccoli niente che l'Europa supera con un balzo ad un ritmo di danza, perché niente laggiù vincola veramente, nessun patto, nessun punto. L'estone, giustamente, voleva la cadenza e il tono. Dove trovare quindi quello che l'Europa non possiede?

(Disponendo come appiglio solo di una sua traduzione in francese di Antoine Chalvin, nell'incapacità di rispettarne le rime e non provando interesse che per una sua parte, non mi restava che prendermi la libertà di provarci in prosa, lasciandola pure monca della parte finale. Me ne scuso con l'autore (andke andeks), che è nato qua nel 1938, e punto tutto sul fatto che non googli il proprio nome o un verso della sua poesia e, se lo fa, che non capisca l'italiano.)

E questo è tutto

Nel dolore

Non t’aspettare
medaglie al valore
sei solo e sei brutto
e questo è tutto.

Walter Cremonte
Uscir di pena, 1993


domenica 6 giugno 2010

Orfeo, Orfeo, perché sei tu Orfeo? - Ah no, scusate, non era proprio così / Orfeo, perché ti sei voltato?

In fila indiana
- perché ti sei voltato?
appena il tempo
di rivedere tutto da capo
tutta la chance
tutto l’inganno

perché ti sei voltato, Orfeo?

Walter Cremonte,
Perché ti sei voltato, 2007



Gluck, Orfeo ed Euridice, Atto III, Scena I, "Che fiero momento", 1762


Gluck, Orfeo ed Euridice, Atto III, Scena I, "Che farò senza Euridice?", 1762
Libretto di Ranieri de' Calzabigi


Jean Cocteau, Orphée, 1950

Ripensò al suo uomo, al loro ultimo incontro. Ci ripensò con fierezza. Poiché il poeta era venuto qui per lei, e aveva sforzato le porte con passo conquistatore, e aveva piegato tutti alla fatalità del suo canto. Perfino Menippo, quel buffone, quel fool, aveva smesso di sogghignare, s'era preso il calvo capo fra le mani e piangeva, fra le sue bisacce di fave e di lupini. E Tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche, Sisifo di spingere il macigno per forza di poppa... E la ventosa ruota d'Issione, eccola inerte in aria, come un cerchio d'inutile piombo. Un eroe, un eroe padrone era parso. E Cerbero gli s'era accucciato ai piedi, a leccargli con tre lingue i sandali stanchi... Ade dalla sua nube aveva detto di sì.
Rivide il sèguito: la corsa in salita dietro di lui, per un tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del veleno viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di riabbracciarlo fra poco...
Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché s'era irriflessivamente voltato?
"Addio!" aveva dovuto gridargli dietro, "Addio!", sentendosi la verga d'oro di Ermete picchiare piano sopra la spalla. E così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la finestra del giorno, svanire in un pulviscolo biondo... Ma non sì da non sorprenderlo, in quell'istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale... L'aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava "Che farò senza Euridice?", e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a uno specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell'e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta...
La barca era tornata ad andare, già l'attracco s'intravedeva fra fiocchi laschi e sporchi di bruma. Le anime stavano zitte, appiccicate fra loro come nottole di caverna. Non s'udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell'acqua. Allora Euridice si sentì d'un tratto sciogliere quell'ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s'era voltato apposta.

Gesualdo Bufalino, da Il ritorno di Euridice in L'uomo invaso, Bompiani, 2001 (prima ed. 1986)