martedì 15 giugno 2010

Solo

Aveva visto, definitivamente, il socialismo. Era un bel cielo azzurro, un po' umido, che si nutriva del respiro delle erbe da foraggio. Solidale, il vento muoveva appena i laghi opulenti delle parcelle coltivate, la vita era così felice che non faceva rumore. Restava solo da stabilire il senso sovietico dell'esistenza.

Andreï Platonov, Tchevengour, traduit du russe par Louis Martinez, Robert Laffont, 1996

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Napoli, 28 dicembre 1972

Andrej Platonov scrisse Čevengur (traduzione italiana: Da un villaggio in memoria del futuro) alla fine degli anni venti. A più di quarant'anni dalla nascita del romanzo e a venti dalla morte del suo autore, Čevengur viene ora pubblicato a Parigi con un'introduzione di Michail Heller. Gor'kij, che in queste cose si era formato un fiuto infallibile e un udito finissimo, oggi può essere citato come un buon profeta: il romanzo "lirico-satirico" Čevengur, con i suoi sottintesi "anarchici", non aveva la minima possibilità di passare attraverso la cruna della censura fin dal primo momento. Stalin aveva stroncato il racconto di Platonov Vprok (A buon pro) con una parola a margine: podonok (feccia). Quella "feccia" è oggi considerato come uno dei più interessanti scrittori russi del periodo dopo la rivoluzione. Heller definisce Čevengur un "romanzo filosofico" e i suoi protagonisti "cavalieri erranti delle idee". Giustissimo, tuttavia, in certi punti, mi verrebbe voglia di presentare diversamente l'eccezionale impresa di Platonov. Il suo è un dramma allegorico sulla rivoluzione, meravigliosamente incastonato in una narrazione severamente realista, a volte addirittura brutale. La Russia ai tempi di Kronštadt, lorda di sangue, sempre più sprofondata nella sofferenza: nel cuore di questa Russia c'è il capoluogo di provincia Čevengur, la "città del sole", la capitale del "puro comunismo", innestata sui cadaveri, sede della pazzia astratta, che mobilita gli uomini ormai stremati per inseguire la "fine della storia e di tutto". Come nel dramma allegorico medievale, l'azione sembra svolgersi su due piani: in basso si agita l'infelicità umana, in alto arranca brancolando nella nebbia il sogno della felicità umana. In Platonov i due piani sono perfettamente accordati, combaciano con una precisione tale che il tutto assume spesso una tonalità di un poema drammatico. Che cosa li salda? Il sorriso mestamente ironico dell'autore. "La fine della storia e di tutto" non ci sarà, il sogno popolare della palingenesi non si realizzerà: le riflessioni sulla vita hanno insegnato a Platonov ad apprezzare più "l'amore per ciò che è vicino" che non "l'amore per ciò che è lontano"; nel '28 o nel '29 comprende già, senz'ombra di illusioni, che "i cavalieri erranti delle idee" si sarebbero sviluppati in burocrati ottusi e crudeli, specialisti nell'applicare il pugno di ferro all'ebbrezza della follia. E tuttavia il sorriso, per quanto sempre più mesto, rimane fino all'ultima pagina del romanzo.
Vedo quel sorriso anche nella fotografia di Platonov, che si trova all'inizio dell'edizione parigina di Čevengur. È un sorriso dolce, benevolo, appena appena un po' insicuro su una faccia addolorata da plebeo. Più tardi sarebbe scomparso completamente. Nel 1938 fu arrestato l'unico figlio di Platonov, quindicenne, per aver preso parte a una "congiura antisovietica". Due anni dopo il padre riuscì a elemosinare a Stalin la liberazione del ragazzo deportato nel lager di Norylsk, ma soltanto per poter assistere alla sua morte per tubercolosi fulminante. Platonov si mise a bere, gli amici gli procurarono un posto di custode all'istituto letterario "Gor'kij": sotto il regime sovietico era un buon posto per uno scrittore serio, che nei momenti in cui non era ubriaco e in cui non doveva fare il guardiano, poteva utilizzare la ricca biblioteca dell'istituto. Contagiato dal figlio, morì di tubercolosi nel 1951.

Napoli, 29 dicembre 1972

Il sorriso di Platonov non mi ha dato pace per tutto il giorno, frugavo nella mia memoria alla ricerca di un sorriso corrispondente. E alla fine... Fra le quaranta persone rinchiuse nella cella della prigione di Vitebsk sorrideva nello stesso modo Marcin C., un giovane operaio di una vecchia famiglia di Łódź, comunista e autodidatta dotato di una grande intelligenza, arrivato poco dopo la disfatta del settembre 1939 nella "patria del proletariato mondiale". Andò a finire nel mio stesso campo di prigionia, a Kargopol, ma fu assegnato alla sezione peggiore, alla Seconda Alekseevka. Dopo che i polacchi furono amnistiati, passò per la centrale di Ercevo: lo accompagnai dalla peresylka (prigione di transito) al posto di guardia. Del suo sorriso non restava che un crampo dei suoi lineamenti affilati e deperiti, come lo sfregio di una ferita cicatrizzata male. Non ho più avuto notizie di Marcin dopo il bacio che ci scambiammo in silenzio davanti alla garitta. Si arruolò nell'esercito di Anders? Fu reclutato nell'esercito di Berling? Si stabilì in una Čevengur russa che aveva riacquistato il senno? Non so perché, la terza possibilità mi sembra la più probabile. A quei tempi, in Russia, tra i comunisti distrutti c'erano anche dei casi di irrevocabile disprezzo autopunitivo per il vecchio sogno.

Gustaw Herling, Diario scritto di notte, traduzione di Donatella Tozzetti, Feltrinelli, 1992

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