martedì 1 giugno 2010

Dopo Auschwitz

Quante volte ho pensato di riportare Todesfuge (Fuga di mortequi dalla voce dell'autore) di Celan, quante volte ci ho rinunciato. La varietà delle versioni italiane che mi è capitato di leggere, l'uso che se ne fa in occasione di anniversari, ma, soprattutto - direi - l'uso, da parte del poeta, della lingua del Paese da cui proviene la morte (der Tod ist ein Meister aus Deutschland - la morte è un maestro che viene dalla Germania), mi hanno sempre impedito di provare a pubblicarne una versione mia. Celan avrebbe potuto scriverla in francese, in inglese, in yiddish, in rumeno o anche in russo, tutte lingue che conosceva. Non lo fece. Nonostante avesse la medesima provenienza della morte, scelse la lingua materna: “Muttersprache, Mördersprache" (lingua materna, lingua assassina), forse perché riconobbe che la morte, persino la morte tragica provocata da mani assassine, persino quella portata su scala dei milioni, non ci è estranea, forse, invece, fu semplicemente una scelta obbligata: anche quando si può scrivere in una lingua straniera, come disse Hannah Arendt, che scrisse abbondantemente in inglese, non esistono alternative alla lingua materna.

Günter Gaus - Vorrei chiederle ora se le manca l'Europa del periodo prehitleriano, che non ci sarà più, quando è in America o quando viene in Europa. Che cosa è rimasto e che cosa è irrimediabilmente perduto?

Hannah Arendt - Non ho alcuna nostalgia dell'Europa del periodo prehitleriano, questo non posso dirlo. Che cosa è rimasto? È rimasta la lingua.

G.G. - Questo significa molto per lei.

H.A. - Moltissimo. E mi sono sempre consapevolmente rifiutata di perdere la lingua materna. Ho sempre mantenuto una certa distanza sia rispetto al francese, che allora parlavo molto bene, sia rispetto all'inglese, in cui oggi scrivo.

G.G. - Volevo chiederglielo. Oggi scrive in inglese.

H.A. - Scrivo in inglese, ma non ho mai perso la distanza. Vede, c'è una differenza enorme tra la lingua materna e tutte le altre lingue. Posso dirlo in tutta semplicità: in tedesco conosco a memoria una parte considerevole di poesie tedesche, in qualche modo si muovono sempre qua dietro, in the back of my mind, e questo è irraggiungibile.



Adorno, come noto, salvo i suoi successivi ripensamenti, che generalmente si omette di ricordare, decretò la fine di tutta la poesia dopo Auschwitz.

Kulturkritik findet sich der letzten Stufe der Dialektik von Kultur und Barbarei gegenüber: nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben, ist barbarisch, und das frisst auch die Erkenntnis an, die ausspricht, warum es unmöglich wird, heute Gedichte zu schreiben (La critica della cultura si trova di fronte all'ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie: scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto barbaro e questo erode anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere poesie oggi).

Theodor W. Adorno, Kulturkritik und Gesellschaft, 1951, pubblicato in volume nel 1963

Das perennierende Leiden hat soviel Recht auf Ausdruck wie der Gemarterte zu brüllen; darum mag falsch gewesen sein, nach Auschwitz ließe sich kein Gedicht mehr schreiben (La sofferenza perenne ha tanto diritto di espressione quanto il martirizzato di urlare; perció può essere stato sbagliato affermare che dopo Auschwitz non sia più possibile scrivere poesia).

Theodor W. Adorno, Dialektik. Jargon der Eigentlichkeit, 1973


L'esperienza di Primo Levi fu opposta a quella di Adorno. Non mi sentirei di escludere, pur senza avere la benché minima intenzione di giudicare ed essendo anzi nell'impossibilità stessa di farlo - lo dico con tutta l'umiltà, la cautela ed il rispetto possibili -, che nel caso di Levi un ruolo l'abbia anche svolto proprio il fatto che la sua lingua materna non fosse quella tedesca.


La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. In quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz.

Intervista di Giulio Nascimbeni a Primo Levi, Corriere della Sera, 1976


L’effabile è preferibile all’ineffabile, la parola umana al mugolio animale. Non è un caso che i due poeti tedeschi meno decifrabili, Trakl e Celan, siano entrambi morti suicidi, a distanza di due generazioni. Il loro comune destino fa pensare all’oscurità della loro poetica come ad un pre-uccidersi, a un non-voler-essere, ad una fuga dal mondo, a cui la morte voluta è stata coronamento. Sono da rispettarsi, perché il loro « mugolio animale » era terribilmente motivato: per Trakl, dal naufragio dell’Impero Asburgico, in cui egli credeva, nel vortice della Grande Guerra; per Celan, ebreo tedesco scampato per miracolo alla strage tedesca, dallo sradicamento, e dall’angoscia senza rimedio davanti alla morte trionfatrice. Per Celan soprattutto, perché è un nostro contemporaneo (1920-70), il discorso deve farsi più serio e responsabile. Si percepisce che il suo canto è tragico e nobile, ma confusamente: penetrarlo è impresa disperata, non solo per il lettore generico, ma anche per il critico. L’oscurità di Celan non è disprezzo del lettore né insufficienza espressiva né pigro abbandono ai flussi dell’inconscio: è veramente un riflesso dell’oscurità del destino suo e della sua generazione, e si va addensando sempre più intorno al lettore, stringendolo come in una morsa di ferro e di gelo, dalla cruda lucidità di Fuga di morte (1945) al truce caos senza spiragli delle ultime composizioni. Questa tenebra che cresce di pagina in pagina, fino all’ultimo disarticolato balbettio, costerna come il rantolo di un moribondo, ed infatti altro non è. Ci avvince come avvincono le voragini, ma insieme ci defrauda di qualcosa che doveva essere detto e non lo è stato, e perciò ci frustra e ci allontana. Io penso che Celan poeta debba essere piuttosto meditato e compianto che imitato. Se il suo è un messaggio, esso va perduto nel «rumore di fondo»: non è una comunicazione, non è un linguaggio, o al più è un linguaggio buio e monco, qual è appunto quello di colui che sta per morire, ed è solo, come tutti lo saremo in punto di morte. Ma poiché noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se fossimo soli. Abbiamo una responsabilità, finché viviamo: dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola, e far sì che ogni parola vada a segno.

Primo Levi, L'altrui mestiere, Dello scrivere oscuro, 1985


Parole, queste, - e anche qui lo dico con il massimo rispetto possibile - che indurrebbero a pensare che con il proprio suicidio Levi abbia forse voluto porre il punto al termine del suo racconto, che ha offerto con generosità a tutti senza risparmiarsi e che certo oscuro non è mai stato.

Sul tema della poesia Levi è necessariamente tornato più volte.


Primo Levi - Io sono ritornato con l'impressione di essere sopravvissuto con lo scopo di scrivere, cioè che in qualche modo il bisogno di raccontare queste cose mi avesse aiutato a tener duro e ho cominciato a scrivere appena ho avuto modo, cioè appena ho avuto un tavolo, una penna, un pezzo di carta. Addirittura avevo cominciato in lager stesso. Nei pochi giorni in cui ho lavorato in un laboratorio chimico, io scrivevo, sapendo benissimo che rischiavo perché era considerato uno spionaggio, scrivere, e che non avrei potuto comunque salvare questi appunti.

Lucia Borgia - Le poesie sono venute prima o dopo di Se questo è un uomo o La tregua, che sono i libri che lo hanno fatto conoscere in tutto il mondo?

P.L. - Prima, anzi contengono molti dei temi svolti poi in questi due libri.

L.B. - Eppure Adorno aveva scritto che dopo Auschwitz non si può fare più poesia.

P.L. - Ecco, io correggerei questo enunciato di Adorno. Direi che dopo Auschwitz non si può fare più poesia se non su Auschwitz, o per lo meno tenendo conto di Auschwitz. Qualcosa, con Auschwitz, di irreversibile è successo nel mondo.

L.B. - La guerra è la morte dell'arte?

P.L. - Purtroppo no, purtroppo no. Quantunque la guerra sia la morte e l'arte sia la vita, fin dall'Iliade, fin dall'Antico Testamento - dico, ripeto - purtroppo convivono. Pare che esista un bisogno umano di esprimere in poesia anche le cose atroci, anche la guerra.

Intervista di Lucia Borgia a Primo Levi, 1984


Il dopo Auschwitz in poesia di Heiner Müller, che non aveva né scelta della lingua né una responsabilità dell'evento né ne era stato vittima, ma che tuttavia avvertì, da tedesco, il bisogno di scriverne, così come ricordato a memoria nella Germania riunificata del 1993, è questo.

Seife in Bayreuth

für Daniel Barenboim

Als Kind hörte ich die Erwachsenen sagen:
In den Konzentrationslagern wird aus den Juden
Seife gemacht. Seitdem konnte ich mich mit Seife
Nicht mehr anfreunden und verabscheure Seifengeruch.
Jetzt wohne ich, weil ich den TRISTAN inszeniere
In einer Neubauwohnung in der Stadt Bayreuth.
Die Wohnung ist sauber wie ich noch keine gesehen habe
Alles ist am seinem Platz: Die Töpfe Die Pfannen
Die Teller Die Tassen Die Gläser Das Doppelbett.
Die Dusche, MADE IN GERMANY, kann Tote aufwecken.
An den Wänden Blumen- und Alpenkitsch.
Hier herrscht Ordnung, auch das Grün hinter dem Haus
In Ordnung, die Straße still, gegenüber die HYPOBANK.
Als ich das Fenster aufmache zum erstenmal: Seifengeruch.
Das Haus die Wohnung der Garten die Stadt Bayreuth riechen nach Seife.
Jetzt weiß ich, sage ich gegen die Stille
Was es heißt in der Hölle zu wohnen und
Nicht tot zu sein oder ein Mörder. Hier
wurde AUSCHWITZ geboren im Seifengeruch.

Heiner Müller, 1993


Sapone a Bayreuth

per Daniel Barenboim
Da bambino sentivo dire gli adulti:
Nei campi di concentramento con gli ebrei
si fa il sapone. Da allora non ho più potuto
Avvicinarmi al sapone e detesto l’odore di sapone.
Ora abito, poiché metto in scena il TRISTANO
In un appartamento di nuova costruzione nella città di Bayreuth.
L’appartamento è pulito come non ne ho mai visti
Tutto è al suo posto: Le pentole Le padelle
I piatti Le Tazze I bicchieri Il letto matrimoniale.
La doccia, MADE IN GERMANY, può risvegliare i morti.
Alle pareti kitsch di fiori e di Alpi.
Qui l'ordine è supremo, anche il verde dietro la casa
È in ordine, la via silenziosa, l’HYPOBANK di fronte.
Quando per la prima volta apro la finestra: odore di sapone.
La casa l'appartamento il giardino la città di Bayreuth sanno di sapone.
Ora lo so, lo dico contro il silenzio
Cosa significa abitare all’inferno e
Non essere morti o assassini. Qui
È nata AUSCHWITZ nell’odore di sapone.


Heiner Müller cerca di ricordarsi Seife in Bayreuth al cimitero ebraico di Weissensee, un mese dopo le prime prove a Bayreuth del 1993 per la messa in scena del Tristano del 1994 (link diretto)

Der Tod ist ein Meister aus Deutschland. Dalla Germania.

Viene da lì, nessuno ne dubita. Auschwitz, però, come diceva ancora Primo Levi, lo abbiamo cominciato noi italiani. Avrebbe voluto che lo sapessimo e ce lo ricordassimo tutti. L'abbiamo poi fatto fino in fondo?
Intervista a Primo Levi degli anni '70, direi, dopo il golpe in Cile del '73 e con la memoria ancora fresca della dittatura dei colonnelli in Grecia.

Del resto, perfino in Israele, Levi ha fatto molta fatica a farsi sentire. Probabilmente non è casuale. E probabilmente anche per questo ho finito per ricordarlo, pur in modo parziale e disarticolato, proprio oggi.

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