giovedì 27 ottobre 2011

Dizionario di tutte 'e cose - O come Orologi

Per non cominciare con la parola io, ho cominciato con la parola per (omaggio a E. Jandl). Ogni tanto mi intrometto tra le righe dell'algoritmo spara-poesie che governa questo minimondo. In realtà, in alcune versioni sono già fin troppo presente e rari sono i momenti di grazia in cui il tocco riesce lieve lieve come la neve (omaggio a E. Ragazzoni). Oggi mi intrometto o, meglio, mi sono già intromessa, tenendo presente che lo sto facendo già da qualche riga, vale a dire tenendo conto di quello cui tendo monotonamente a girare intorno: il tempo. Si fa trovare ovunque, tal quale, come Chronos l'ha fatto, nelle parole, nei suoi effetti, nascosto tra i meccanismi degli orologi più semplici, come le candele, i mazzi di fiori, la luna e le maree, le stalattiti, o le vetrate antiche delle chiese (il vetro fluisce, anche se non con la fretta dell'acqua, per cui lo spessore alla loro base tende ad ingrossarsi, quello alla loro sommità ad assottigliarsi - fine del momento Discovery Channel). A girare attorno a certe parole base come la parola "tempo" non mi fermerei mai, se credessi che mai, così come sempre, abbia per il genere umano il significato che pretende di avere, incapace com'è di raggiungere la radicalità della parola "niente" che, a pensarci, è parola alquanto bistrattata e volgarizzata, almeno in italiano. Si cominciano persino le conversazioni, in italiano, con la parola "niente" (ne ha scritto la Spinelli non so più dove). Non conosco altre lingue in cui una conversazione possa prendere avvio così:

- Niente, volevo dirti che...

Un francese che si immergesse nella lingua italiana parlata senza l'ausilio di dizionari o di corsi propedeutici sarebbe indotto a dedurre, con tutta probabilità, che niente sia l'equivalente di donc. Un tedesco, di also. Non sto divagando, sto prendendo tempo o creando tempo o forse solo misurandolo per un breve tratto, visto che sono un orologio anch'io, in fondo. Ecco perché, anche se idealmente mi piacerebbe lasciare, tra queste righe destinate a fissarsi qua per un po' di tempo, un segno di gioia, un momento in cui ci si dimentica dell'orologio, finisco invece ancora una volta con l'incastrarmi proprio in mezzo a due lancette.

zerfallen

nach meinem Tod die Seele
von der ich nicht weiß
wo sie sich augenblicklich befindet
(ich habe sie noch nie gesehen)
wohin sollte sie sich wenden wohin
wenn ich sterbe wenn ich umfalle
dass mein Herz aufhört zu schlagen
ist gewiss auch dass es zu Erde wird
wieviel Herzen habe ich pochen hören
Seelen keine und ich wünsche niemand
erlitte die Qual eine Art Herberge
meiner Seele später zu werden solche
Strafe hat wirklich keiner verdient
mein Herz aber wird zerfallen schade

Helga M. Novak
Wo ich jetzt bin. Gedichte, Schöffling & Co., 2005


decomporsi

dopo la mia morte l'anima
di cui ignoro
l'attuale collocazione
(non l'ho ancora mai vista)
dove dovrebbe dirigersi dove
quando morirò quando cadrò
che il mio cuore smetterà di battere
è pacifico anche che tornerà polvere
quanti cuori ho sentito battere
anime nessuna e non auguro a nessuno
di soffrire la pena di diventare più tardi
una specie di ostello della mia anima una tale
punizione non se la merita proprio nessuno
il mio cuore però si decomporrà peccato

mercoledì 26 ottobre 2011

Brief an Medea

Medea du Schöne dreh dich nicht um
vierzig Talente hat er dafür erhalten
von der Stadt Korinth
der Lohnschreiber der
daß er dir den Kindermord unterjubelt
ich rede von Euripides verstehst du
seitdem jagen sie dich durch unsere Literaturen
als Mörderin Furie Ungeheuer
dabei hätte ich dich gut verstanden
wer nichts am Bein hat
kann besser laufen
aber ich sehe einfach nicht ein
daß eine schuldbeladene Gemeinde
ihre blutigen Hände an deinen Röcken abwischt
keine Angst wir machen das noch publik
daß die Korinther selber deine zehn Gören gesteinigt haben
(wie sie schon immer mit Zahlen umgegangen sind)
und das mitten in Heras Tempel
Gewalt von oben hat keine Scham
na ja die Männer die Stadträte
machen hier so lustig weiter
wie früher und zu hellenischen Zeiten
(Sklaven haben wir übrigens auch)
bloß die Frauen kriegen neuerdings
Kinder auf Teufel komm raus
Anstatt bei Verstand zu bleiben
(darin sind sie dir ähnlich)
andererseits haben wir
uns schon einigermaßen aufgerappelt
was ich dir noch erzählen wollte: die Callas ist tot

Helga M. Novak, 1977
Solange noch Liebesbriefe eintreffen. Gesammelte Gedichte, Schöffling & Co., 1999


Lettera a Medea

Medea, bella, non voltarti
ne ha rimediato quaranta danari
dalla città di Corinto
lo scribacchino
per far passare per tuo l'infanticidio
parlo di Euripide capisci
da allora ti danno la caccia per le nostre letterature
come assassina furia mostro
ma io ti avrei capita
chi ha le gambe libere
può correre meglio
quello che non capisco
è perché una comunità gravata da colpe
si asciughi le mani insanguinate con le tue gonne 
non preoccuparti lo rendiamo pubblico
che sono stati i corinzi a lapidare i tuoi dieci marmocchi
(come trattano sempre le cifre)
e proprio nel tempio di Hera
la violenza dall'alto non conosce vergogna
eh gli uomini i consigli comunali
continuano ancora allegramente
come prima e ai tempi ellenici
(di schiavi ne abbiamo anche noi, a proposito)
solo le donne di recente hanno
figli da un minuto all'altro
al posto di rimanere ragionevoli
(in questo ti sono simili)
d'altra parte ci siamo
in qualche modo rimesse in piedi
ah, volevo dirti ancora una cosa: la Callas è morta

martedì 25 ottobre 2011

Nell'attesa

Continuo a leggere robe vecchie ed inutili (parecchio Le Goff, che - scopro ora - è l'equivalente bretone di Lefèvre, Smith, Schmitt, Schmidt, Fabbri, ecc., qualche classico cinese, le impressioni di Petrarca sui suoi soggiorni a Parigi e il 17 ottobre 1961 di Jean-Luc Einaudi) e, con particolare attenzione, i quotidiani di questo mese di ottobre, ma del 1914, specialmente di Trieste, ma non solo. I bollettini di guerra, pur stiracchiati tra le azioni della censura e della propaganda, mi aggiornano, proprio giorno per giorno, sui movimenti del fronte, sulle morti di re e ministri, su affondamenti di navi, su conquiste di città, sulla caparbietà con cui gli stati neutrali vogliono mostrarsi ancora neutrali, salvo ripensamenti dell'ultima ora. Dopo Anversa e la Galizia, ora si combatte ad Ostenda. Mussolini, in questo mese, sta vigorosamente scalpitando all'interno del Partito Socialista Italiano: ne avversa ormai senza alcuna remora la posizione di neutralità nei confronti della guerra, avvia la sua lunga marcia, cerca sempre di più spazio e visibilità. Ne trova e, come sappiamo, ne troverà ancora, almeno per un po'.
La cronaca locale sembra nettamente più libera dalla censura e da certe malizie che, nel tempo, hanno sempre di più cercato di imbrigliare la realtà quotidiana tra le maglie del dicibile o di relegarla nella posizione più defilata possibile, in fondo in fondo al giornale: nel 1914 non si contano i suicidi, che si effettuano di preferenza con l'acido fenico. Se ne parla apertamente, non temendo affatto, almeno in apparenza, il rischio dell'effetto emulativo. Non si contano nemmeno gli incidenti domestici che occorrono ai bambini, probabilmente lasciati molto tempo da soli, abbandonati da padri mandati al fronte e da madri costantemente occupate a trovare il denaro necessario per comprare roba da mangiare, di qualità sempre più scadente, fin dal primo anno di guerra, e sempre più cara. Sono bambini che si fanno male ogni giorno fino a rischiare la vita, precipitando da finestre o ustionandosi con l'acqua delle pentole in cui bollono dei fagioli o delle patate, spesso lavorando in fabbrica prematuramente. Ci sono poi le tracce di innumerevoli piccoli furti, molti dei quali destinati a restare dei goffi colpi andati a vuoto per rimediare qualche soldo o, letteralmente, qualche gallina. Questo, per quel che riguarda il pane.
Per quel che riguarda le rose, queste sembrano trovarsi solo al cinema, dove si danno spettacoli di varietà, o di piccoli funamboli, maghi ed illusionisti, e si ascoltano arie d'opera o operetta.
Quello che manca, almeno a leggere i giornali, è il dissenso. Quanto meno, non sembra emergere nessuna notizia di vero dissenso, non troppo diversamente da oggi: sono anni che aspetto che si scenda in strada non per la propria pancia, ma per dimostrare, almeno per qualche ora, almeno un po' di solidarietà agli immigrati che cercano di approdare in Europa, alla gente del Sudan o della Somalia o del Kurdistan o dell'Afghanistan o dell'Iraq o della Siria o della Cecenia o della Grecia, tempo fa a quella d'Islanda ed ora anche a quella d'Italia o d'Ungheria. L'attesa continua.

копьё

И макает в горло дракона златой Егорий,
как в чернила, копьё.
Иосиф Бродский, Венецианские строфы (2), IV, 1982

E affonda in gola al drago di un San Giorgio d'oro
la picca, come nell'inchiostro.
Iosif Brodskij, Strofe veneziane (2), IV, 1982
traduzione di Giovanni Buttafava

lunedì 24 ottobre 2011

для переброски в коммунистический век

Грохот, взрыв, выстрел. Победоносиков распахивает дверь и бросается в квартиру. На нижней площадке фейерверочный огонь. На месте поставленного аппарата светящаяся женщина со свитком в светящихся буквах. Горит слово "Мандат". Общее остолбенение. Выскакивает Оптимистенко, на ходу подтягивает брюки, в ночных туфлях на босы ноги, вооружен.

Оптимистенко
Где? Кого?!

Фосфорическая женщина 
Привет, товарищи! Я делегатка 2030 года. Я включена на двадцать четыре часа в сегодняшнее время. Срок короткий, задания чрезвычайные. Проверьте полномочия и оповеститесь.

Оптимистенко
(бросается к делегатке, всматривается в мандат, скороговоркой проборматывая текст)
"Институт истории рождения коммунизма..." Так... "Даны полномочия..." Правильно... "Отобрать лучших..." Ясно... "для переброски в коммунистический век..." Что делается-то! Что делается, господи!..

Владимир Маяковский, Баня, 1930

Fracasso, un'esplosione, uno sparo. Pobedonosikov apre la porta e si precipita nell'appartamento. Sul pianerottolo, un fuoco d'artificio. Nel punto in cui era stato posto l'apparecchio, una donna luminosa, con un rotolo a lettere luminose. Brilla la parola "Mandato". Stupore generale. Appare Optimistenko, che si infila di corsa i pantaloni, in pantofole a piedi nudi, armato.

Optimistenko
- Dove? Chi?!

La donna fosforescente
- Salve, compagni. Sono una delegata dell'anno 2030. Sono connessa al tempo attuale per ventiquattro ore. Il tempo è breve, il lavoro urgente. Verificate le mie credenziali e prendete conoscenza.

Optimistenko
(si precipita verso la delegata, esamina il mandato, biascica velocemente il testo ad alta voce)
-"Istituto di storia della nascita del comunismo... " Così... "Pieni poteri..." Esatto... " Selezionare i migliori... ". Chiaro... "per il trasferimento nell'era comunista..." Che affare! Signore, che affare!

Vladimir Majakovskij, Il bagno, 1930

sabato 22 ottobre 2011

когда я построю свою машину

Но у тебя горит лицо, Ихя. Тебе нехорошо?
Влажные, горячие пальцы охватили Штереру ладонь:
- Хорошо. Так хорошо, что никогда уже не будет так.
Штерер улыбнулся:
- Неправда: когда я построю свою машину - пусть это будет через десять, двадцать лет, все равно - я вернусь, обещаю тебе, в этот вот день, в наше сейчас: мы будем снова сидеть вот так, пальцы у тебя, которого уже не будет, будут влажные и горячие, и ты скажешь: "Хорошо. Так хорошо, что..." Но я трону рычаг и...
- И к берегу?
- Нет, Ихя, мимо и дальше. Сквозь лёт лет.

Сигизмунд Кржижановский, Воспоминания о будущем, 1929


Ma il tuo viso è in fiamme, Ichja. Ti senti male?
Dita madide e calde strinsero la mano di Šterer:
- Mi sento bene. Talmente bene che non mi sentirò mai più così.
Šterer sorrise:
- Ti sbagli: quando avrò costruito la mia macchina - fosse anche tra dieci o venti anni, in ogni caso - tornerò, te lo prometto, in questo giorno in cui siamo adesso: saremo di nuovo seduti così, e le tue dita, che non esisteranno più, saranno madide e calde, e mi dirai: "Mi sento bene. Talmente bene che..." Ma io manovrerò la leva e...
- E andremo sulla riva?
- No, Ichja, molto più lontano. Attraverseremo il volo degli anni.

Sigizmund Kržižanovskij, Ricordi del futuro, 1929

жить без Достоевского

Заговорили мы в одной эмигрантской компании про наших детей. Кто-то сказал:
- Наши дети становятся американцами. Они не читают по-русски. Это ужасно. Они не читают Достоевского. Как они смогут жить без Достоевского?
И все закричали:
- Как они смогут жить без Достоевского?
На что художник Бахчанян заметил:
- Пушкин жил, и ничего.

Сергей Довлатов

In un gruppo di emigranti, ci siamo messi a discutere dei nostri figli. Qualcuno ha detto:
- I nostri figli sono ormai americani. Non leggono in russo. È orribile. Non leggono Dostoevskij. Come possono vivere senza Dostoevskij?
E tutti hanno esclamato:
- Come possono vivere senza Dostoevskij?
Al che l'artista Bachčanjan ha osservato:
- Puškin ha vissuto, ma non l'ha mai letto.

Sergej Dovlatov

libera nos amarlo

cosa sono buchi nella sabbia/io fo buchi nella sabbia poesia analisi/fo i buchi in terra poesia/regazzoni buchi nella sabbia/come fare un buco nella sabbia?/come posso fare fori sulla spiaggia/come effettuare buchi nella sabbia/buchi di pistola after effects/per che i buchi nella terra/più parole per indicare la neve/neve eschimese/neve eschimese elenco/neve+parole+eschimese/parola neve eschimese/nomi di eschimesi per la neve/esquimesi and definizione di neve/eschimese usano parole neve/come si dice neve in eschimese/eschimesi parola neve/parole per definire la neve esquimesi/eschimesi termini per dire neve/come si dice neve in inuit/inuit parola neve/inuit parole neve/eschimesi innumerevoli parole neve/12 modi per dire neve inuit/20 parole per indicare la neve/22 parole per neve in eschimese/10 parole per dire neve/le dieci parole per dire neve inuit/5 parole per neve/eschimesi 15 modi per dire neve/52 nomi neve eschimesi/gli eschimesi usano 52 termini per indicare la neve/gli eschimesi avevano 52 nomi per la neve, perché per loro era importante /neve eschimese 52/come si dice neve in eschimo/come dire neve in eskimese/parole eschimesi con la c/come si dice innumerevoli/google cerco parole che cambiando la consonante iniziale il significato è diverso, ad esempio bava oppure/aerei da guerra parte sotto/il cubismo si collega bene a flaubert?/dove ha scritto adorno che non ci sarà poesia dopo auscwitz/cosa vuol dire silenzio dopo aushwitz/libera nos amarlo meneghello/piazza duomo caduta mussolini milano/passaggio americani del 25 aprile 1945 piazza duomo/piazza duomo fine mussolini/programmi spaziali palestina/programmi spaziali palestinesi/i friulani sono più onesti dei triestini/le cose più bele del mondo/vivono i pesci rossi senza acqua?/animali che vivono sui laghi/differenza spigola branzino/cosa posso fare con una bici/dove nacque la poesia

AA.VV., Ricerche via Google finite su buchi-nella-sabbia.blogspot.com

Testing The Nation

If the Hundred Years’ War lasted a hundred and sixteen,
and the October Revolution took place in November

If Chinese gooseberries are from New Zealand
and Panama hats from Equador

If cat gut is made from the bowels of sheep and other
animals, and camel’s hair brush from squirrel fur

If the Canary Islands were named after dogs
and King George VI’s first name was Albert

If English muffins are not from England,
nor French fries from France –

Waht is rong if r chilren
canot reed or rite, lak comun sens,
tink egs do not gro in Grate Britun
and potatos r milkt from caus? *

* Answers given by children in a London primary school when asked where eggs and potatoes came from.

Shanta Acharya
Journal of Postcolonial Writing


Esaminando La Nazione

Se la Guerra dei Cent'Anni durò centosedici anni,
e la Rivoluzione d'Ottobre avvenne in novembre

Se l'insalata russa in Russia si chiama insalata Olivier
e i cappelli di Panama vengono dall'Ecuador

Se le lingue di gatto sono fatte di pasta cotta 
al forno, e quella di suocera è una pianta delle cactacee

Se le Isole Canarie hanno tratto il nome da cani
e il nome di re Giorgio VI era Alberto

Se i muffins inglesi non vengono dall'Inghilterra,
né le French fries dalla Francia –

Che ce di sbaliato si notri babini
nn sano scrive o legere, nn ano senso comune,
penzano che gli ovi nn cressono in Gran Britania
e le patate son munte da vache? *

* Risposte date da bambini di una scuola elementare londinese interrogati sull'origine delle uova e delle patate.

martedì 18 ottobre 2011

()

(quant mèjo un taser fondo, taser e lèderte)

.

lunedì 17 ottobre 2011

Per la prossima volta

A G.
Per la  prossima volta.

E pensando, nei tuoi giri per i campi
(si può pensare altrove?)
alle grandi cose
proprio quando ti pare che monti e nuvole
si trasfigurino nella Risposta
monti e nuvole ritornano ad essere
ciò che sembrano essere:
monti e nuvole.

F.

*

G., idealmente, mi scuserà, spero. Anzi, so che, idealmente, lo farà, da cui la mia sconsideratezza di far emergere ben due miei abbozzi nello stesso post, il primo dei quali tracciato nel tentativo di condensare alcuni dei suoi pensieri ricevuti via email in qualche estemporaneo verso nato nelle ore in cui la stanchezza prevale su ogni possibile residuo controllo razionale del gesto. Per me ha già significato qualcosa il fatto stesso di provarci, di più, il fatto stesso di pensarci. Eh, se ci ho provato. Ne offro un'altra prova con quello che è uscito da un tentativo alternativo, che riporto altrettanto integralmente a puro scopo di testimonianza (o forse di monito, prima di tutto a me stessa), in cui ho cercato di mantenere il più possibile l'ossatura della prosa originale di G., ma isolandone un prologo o antefatto, in cui sono intervenuta con la grazia di un terzino per introdurre quelle che sono a tutti gli effetti delle incongruità: le rime.

*
Nel 150° anniversario

Il grande caldo se ne è andato, ma non il senso di aver mancato il risultato. A fine agosto, ormai quasi lontano, la Mastrotto di Arzignano, in un'intervista su "Il Giornale di Vicenza", emergeva come ditta d'eccellenza per qualità e tutto il resto, etica (sic) inclusa. Seguiva, dopo pochi giorni, l'accusa di evasione fiscale da parte della Guardia di Finanza locale: per 120 milioni, hanno annunciato. Il direttore del giornale, costernato, concordava con gli operai - ahi, ahi, le tasse van pagate, certo certo, però. Però la ditta dà lavoro a molti, e senza pagherò, e di missioni cattoliche fin nella lontana Africa è gran benefattrice. Poco dopo in paese è stato eretto il monumento all'evasor cortese. Il sindaco è stato comprensivo, se non di cuor evasivo. Non è che in Italia non ci sia l'alternativa: la maggioranza non la vuole, in centocinquant'anni non l'ha mai voluta. E questo, pur se duole, non si muta.

Dum fraus haec feliciter Arzignani atque Vicetiae facta est, ho visitato i templi della dea Hera e della sua figlioccia Athena a Paestum, e pure l'antro della Sibilla a Cuma. Questa volta Hera ha accettato il dialogo. Dice, inter alia, che sul lungo periodo non importa se Mastrotto paga o non paga le tasse, ché i conti torneranno, de toute façon. Intendeva i conti quelli grandi, penso, quelli che dilettano i cosmologi e i gonzi generici: la conceria resta fuori. Mastrotto lo sa d'intuito e lo sa anche l'Agenzia delle Entrate, che, alla fine, si accontenterà di una cifra simbolica, con salvezza dell'etica (sic). Con Athena, invece, ho tirato diritto, come già in Ellade, tempo addietro, troppo supponente allora lei e troppo caldo ora a Paestum per ritentare l'approccio. Però un rimpianto m'è rimasto: era proprio sui conti grandi che necessitavo di qualche delucidazione. Da solo non ce la faccio. Arrivo ad un punto in cui mi pare tutto chiaro: succede durante i miei giri nei campi, per un istante, ma poi, d'improvviso, i monti e le nuvole ritornano monti e nuvole, silenziosi e potenti, come l'erba le piante i boschi. Ero andato fin laggiù in quel di Salerno proprio per quello, senza avere il coraggio di ammetterlo. Sarà per la prossima volta, naturalmente.

G. & F.

Mout de contens

Mout de contens muevent es bonnes viles de commune pour leur tailles, car il avient souvent que li riche qui sont gouverneur des besoignes de la vile metent a meins qu'il ne doivent aus et leur parens, et deportent les autres riches hommes pour qu'il soient deporté, et ainsi queurent tuit li fres seur la communeté des povres.

Philippe de Beaumanoir, Coutumes de Beauvaisis, 1283
(T. 2, L, 1525, page 270)

Molti conflitti nascono nei buoni comuni a causa delle loro tasse, perché spesso succede che i ricchi che curano i bisogni della città versano meno di quello che dovrebbero per sé e i propri parenti, ed esentano gli altri uomini ricchi per esserne anch'essi esentati, e così tutte le spese ricadono sulla comunità dei poveri.

domenica 16 ottobre 2011

Panie konduktorze!

I fatti ordinari sono distribuiti nel tempo, allineati lungo il suo corso come perle su un filo. Essi hanno i loro antecedenti e le loro conseguenze, che si accalcano e camminano l’uno sui talloni dell’altro, senza interruzioni e senza discontinuità. Ciò è importante per la narrazione, la cui anima è continuità e successione.
Ma che fare di quegli avvenimenti che non hanno posto nel tempo, degli avvenimenti avvenuti troppo tardi, quando ormai il tempo è già stato attribuito, distribuito, assegnato, e che restano abbandonati, come se fossero non classificati, sospesi per aria, senza dimora e smarriti?
È forse il tempo troppo angusto per contenere tutto quello che succede? Può accadere che tutti i posti del tempo siano esauriti? Preoccupati, corriamo lungo quel treno di avvenimenti, preparandoci per il viaggio.
Per l'amor del cielo, è possibile che qui non ci siano distributori di biglietti per il tempo?... Signor conduttore!
Calma! Niente panico, sistemeremo tutto senza far rumore, con i mezzi che abbiamo a disposizione.
Il lettore ha mai sentito parlare dei doppi binari del tempo? Sì, esistono tali rami laterali, un po' illegali, è vero, e problematici, ma quando si trasporta della merce di contrabbando, come facciamo noi, un fatto supplementare, inclassificabile, non si può andare tanto per il sottile.
Cerchiamo quindi di sgombrare ad un certo punto della storia un binario morto, un vicolo cieco, per sospingervi questa storia illecita. Soprattutto, non abbiate paura di nulla. L'operazione sarà impercettibile, il lettore non proverà nessun trauma. Forse, nel momento stesso in cui ne parliamo, la manovra è già compiuta e avanziamo lungo il binario parallelo?

Bruno Schulz, L'epoca geniale (Genialna epoka), I
(grazie all'inconsapevole cooperazione tra Google translate alimentato a Genialna epoka, Thérèse Douchy ed un traduttore ignoto)

giovedì 13 ottobre 2011

Zeitmaschine

Ohne daß es jemals angefangen hat
bin ich mit einer Menge von Leuten zusammen
Gleichaltrige
meinen Körper scheinen sie für die Heimat zu halten
auch liebe Verstorbene Alte Bekannte
Vielgenannte
Verschollene Auf Rollen Rollende
Zeitamputierte Einbalsamierte Bis auf die Knochen
Geschichtsblamierte
Ich habe das deutliche Gefühl
daß keiner fehlt
die Büsche teilen sich der Himmel flackert
Gestirne blenden auf das Tier erhebt sich
und die Wolken rennen hin und her
Wir begegnen einer reisenden Theatergruppe
ein junger Herr Den Tod in den Augen
stellt sich vor: W. Shakespeare
wie er leibt und schreibt
Oh ja wir kennen ihn alle
»Warum schreiben Sie« fragt einer von uns
der sich sein Interesse bewahrt hat
Shake wendet sich angewidert ab
und macht sich an den Kostümen zu schaffen
»Warum soviel Tod auf so vielen Brettern?«
Das scheint hier irgendwie nicht anzukommen.
Eine von unseren Damen Deren Schwierigkeiten
technische Schwierigkeiten sind Sagt
»Wir kommen an der historischen Distanz nicht vorbei«
Sie ist bekannt dafür daß sie in Krisen
hysterisch reagiert
Wie ein Bleistift gehen wir
durch die Zeit
»Mir ist« rufe ich »als träten wir auf der Stelle«
»Schon möglich« brummt ein Vierschrötiger
Gleich erscheinen wir als helle Punkte
im technischen Zeitalter
in einer riesigen Haschischwolke besetzt von
kichernden Industriellen
»Es ist zum Piepen Es ist
zum Piepen«
Berlin 10.30 Uhr Guten Tag Nehmen Sie Platz!
Es handelt sich um einen Herrn von der Volkshochschule
der mich abdrängt und ruft »Ich bin immer für
die Trennung von Werk und Autor eingetreten«
Ich erzähle ihm unvermittelt eine Geschichte
aus der Kindheit meiner Mutter
ein schlagender Beweis meiner Ganzheit
und wirklich ist sein Schweigen vieldeutig.
Aus dieser Ewigkeit dämmert er herauf in braunem
Cord »Kennen Sie César Vallejo in der Nachdichtung
des Hans Magnus Enzensberger?«
Vermutlich weiß er daß man ihn für diese Frage
gern haben könnte Er protzt und sollte gegangen sein
»Wenn Sie nicht bald verschwinden« protze ich
»mache ich Sie zur Zeile«
Aber er besteht auf einem Zitat
». . .wär ich nicht geboren, eine andere arme Haut
würde diesen Kaffee trinken!«

Nicolas Born


Macchina del tempo

Senza che la cosa abbia mai avuto inizio
mi trovo assieme a tanta gente
Coetanea
sembrano considerare il mio corpo il loro paese
anche cari Morti Vecchi conoscenti
Nominati spesso
Scomparsi Rotolanti Su rotelle
Amputati di tempo Imbalsamati Fino alle ossa
Ridicolizzati dalla storia
Ho la chiara sensazione
che non manchi nessuno
i mazzi si distribuiscono il cielo vacilla
Stelle abbagliano la bestia si solleva
e le nuvole vanno e vengono
Incontriamo un gruppo teatrale in tourné
un giovane signore si presenta con la morte
negli occhi: W. Shakespeare
in carta e ossa
Oh sì, lo conosciamo tutti
"Perché scrive" chiede uno di noi
che ha mantenuto il proprio interesse
Shake si volta dall'altra parte nauseato
e si mette a cercare i costumi
"Perché così tanta morte su così tante tavole?"
Sembra in qualche modo che qui non conti.
Una delle nostre signore Le cui difficoltà
sono difficoltà tecniche Dice
"Non riusciamo a passare davanti alla distanza storica"
È nota perché nelle fasi di crisi
reagisce istericamente
Procediamo come una matita 
attraverso il tempo
"Mi sento" grido "come se calpestassimo sempre lo stesso punto"
"È possibile" brontola un tizio tarchiato
Tutto in un colpo sembriamo punti chiari
nell'era della tecnica
in un'enorme nuvola di hashish occupata da
industriali che ridacchiano
"È uno spasso È
uno spasso"
Berlino ore 10.30 Buongiorno Si accomodi!
Si tratta di un signore dell'università popolare
che mi spintona e grida "Ho sempre sostenuto
la separazione tra opera ed autore"
Gli racconto immediatamente una storia
tratta dall'infanzia di mia madre
una prova convincente della mia interezza
e il suo silenzio è veramente ambiguo.
Da questa eternità si rabbuia in velluto
marrone "Conosce Bertolt Brecht nella versione
di Franco Fortini?"
Probabilmente sa di poter piacere
per questa domanda Se la tira e dovrebbe essersene andato
"Se non sparisce subito" me la tiro io
"La metto in riga"
Ma insiste su una citazione
"... se non fossi nato, un altro povero diavolo
berrebbe questo caffè!"

martedì 11 ottobre 2011

Ce que j'écris en ce moment


Quello che scrivo in questo momento in una cella del Fort du Taureau, l'ho scritto e lo scriverò per tutta l'eternità, su un tavolo, con una penna, con degli abiti ed in circostanze del tutto simili. E così vale per tutti. 
Auguste Blanqui, L'éternité par les astres : hypothèse astronomique, G. Baillière, Paris, 1872

Il testo di Blanqui è un testo incredibile, se lo si legge alla luce del contesto in cui è stato scritto. Così ho fatto qualche giorno fa, ché la prima volta avevo cercato invece di non farmi distrarre da nessuna critica e nemmeno da precise note biografiche, di cui inizialmente conoscevo solo, più o meno genericamente, una vita tutta spesa per la rivoluzione e la tomba al Père-Lachaise. Quest'ultima, anche se non vede lunghe file di pellegrini pagani come avviene per la tomba di Jim Morrison, vede comunque qualche mano che discretamente vi lascia ancora un fiore. Molto meglio così, direi: non c'è alcun culto, ma non si è spenta ancora del tutto la sua memoria.
Molti pensatori, di cui alcuni illustri, che preferisco non citare perché non intendo misurarmi con i grandi, ma intendo solo scrivere, e quindi, come dice Giovanni, "creare tempo" in una notte qualsiasi di un autunno che soffre di evidenti problemi di identità, trovano nel testo di Blanqui solo una forma di pessimismo senza speranza, specialmente a causa della negazione del progresso, che vi è espressa sia esplicitamente sia implicitamente, nei passaggi in cui emerge, ben prima di molta fantascienza e un decennio prima di Nietzsche, una teoria dell'eterno ritorno. Nel tempo e nello spazio, dice Blanqui, ci sono infiniti sosia di ognuno di noi, "in carne ed ossa, ossia in pantaloni e giacca, crinolina e chignon", in tutto e per tutto uguali ad ognuno di noi.
Trovarvi però solo un radicale pessimismo significa trascurare dell'altro che nel testo pur c'è e quindi forse commettere uno sbaglio, fosse anche marginale, come si sbagliava Blanqui - del tutto perdonabilmente - nel vedere crinolina e chignon nella parte femminile dell'intera umanità, anche in quella di epoca di molto antecedente o molto posteriore al 1872.
Innanzi tutto, Blanqui, per l'ennesima volta in carcere, si ostina a scrivere e lo fa partendo dalle stelle, che probabilmente nella sua cella affacciata su uno stretto cortile gli sono precluse alla vista, dunque desidera: "de-siderare", secondo un'interpretazione che, precisa o meno che sia, ho lo stesso da tempo registrato ed integrato così tra le mie convinzioni, esprime la condizione di chi, non potendo vedere le stelle quando il cielo è coperto, anela di rivederle.
E poi Blanqui afferma anche che resta pur aperto alla speranza "il capitolo delle biforcazioni". Resta aperto "solo" quello, dice: mi sembra già qualcosa, anzi, mi sembra già moltissimo, considerato quanto ne ha saputo trarre uno scrittore come Borges e quanto ognuno di noi può dedurne provando solo a fantasticare un po'.
Blanqui, in una biforcazione, avrebbe potuto per esempio svoltare di nuovo verso le tre condanne a morte, così, non per massima sfortuna, nessuna delle condanne essendo stata eseguita, ma per sommo di ironia, solo per il gusto di assecondare la teoria dell'eterno ritorno, o avrebbe piuttosto potuto svoltare da tutt'altra parte, sperabilmente lontano dalle aule dei tribunali e dal carcere - in cui spese più della metà della sua lunga vita - e verso la vittoria della Comune.
Se ci si allontana poi dall'interpretazione letterale, e quindi se non solo si accettano le crinoline e i chignon esclusivamente come degli esempi, ma anche le biforcazioni come semplici forme rappresentative di "pluriforcazioni", Blanqui avrebbe potuto morire nell'esecuzione della prima condanna a morte, o non nascere mai, o riuscire ad abolire la proprietà privata in Francia, provocandone, poi, con un effetto domino, la medesima sorte in tutta Europa e nel mondo. Nelle bi- o pluriforcazioni favorevoli, se la Comune avesse prevalso su Thiers, non avremmo oggi quella bruttura architettonica e simbolica del Sacré-Cœur(*) a svettare su Montmartre, la rivoluzione avrebbe contagiato prima una ricettiva Germania e poi la Russia, qualche decennio prima del 1917 e in forme a noi oggi ignote, la famiglia degli ex zar avrebbe conosciuto una morte naturale ed anonima in un condominio periferico di Pietroburgo, Mussolini sarebbe rimasto un giornalista con la passione per il violino, il nazismo non sarebbe nato perché privo simultaneamente sia del trattato di Versailles sia del proprio modello ideologico italiano di riferimento, Gasparri non saprebbe trovare Salò sulla cartina d'Italia e, non da ultimo, uno dei grandi pensatori cui mi riferivo avrebbe potuto ultimare la sua opera Das Passagen-werk.
Perché poi, se da una parte Blanqui nega il progresso, dall'altra si apre senza remore su mille altre possibilità, qui ancora inesplorate:
Non dimentichiamo che tutto ciò che si sarebbe potuto essere qui, lo si è altrove, da qualche parte. 
C'è qualcun altro, su Sirio ed altrove, che ha scritto e scriverà queste mie parole, ma, una volta imboccato il sentiero dello scrivere bene, quel qualcuno ha avuto e avrà l'accortezza di correggere tutti gli errori, di accorciare le frasi, di eliminare molti aggettivi e tutto il superfluo e di cancellare tutte le parole inutili, a cominciare dalla parola Gasparri.

(*) Sul Sacré-Cœur ha scritto e scriverà benissimo Barbara Spinelli in "Una parola ha detto Dio, due ne ho udite". Lo splendore della verità, Laterza, 2011:
[...] per capire questo nostro presente, è forse alla Terza Repubblica francese che bisogna risalire: fu allora che nacque, impetuosa, l'idea di un Ordine Morale da instaurare, con la sua graduatoria di valori massimi e minimi e la fusione tra politica, cultura, etica individuale, religione. Il nuovo ordine fu promesso nel 1873 dal maresciallo Mac-Mahon, appena nominato capo dello Stato.
Mai si parlò tanto di valori come in quell'epoca senza sete vera, ma con enormi ubriacature. Già allora se ne mettevano in risalto alcuni, a scapito di altri: se ne cercavano di impareggiabili, universali, affidati alla saggezza superiore della Chiesa. Già allora essi erano considerati, come ai tempi d'oggi, non negoziabili. La storia della Terza Repubblica e dell'era Mac-Mahon è l'esempio di come la politica può perire: alle spalle la Francia aveva una delle più umilianti sconfitte, quella del 1870 a Sedan nella guerra secolare con la Germania, seguita appena un anno dopo dalla rivolta della Comune di Parigi, finita in un massacro.
L'Ordre Moral parte da lì, il suo seme è nel nazionalismo scatenato da sanguinose esperienze e nel congiungersi di due disfatte: disfatta nella convivenza fra nazioni, e disfatta nella convivenza fra cittadini. La costruzione dell'abnorme cupola bianca del Sacré-Cœur di Montmartre, a Parigi, comincia nel 1875 e ambisce a essere la risposta moralizzatrice a queste sfide: anche architettonicamente la basilica è un Machtwort, una parola di potere che fissa, senza grazia, sommi valori. È il dispositivo ideale per una guerra attorno ad essi, combattuta con tanto più accanimento e ansia d'unanimismo in tempi che di valori sono vuoti, che sono incattiviti, inadatti ad affrontare con calma le avversità e gli avversari. È l'ora in cui la diversità e lo scetticismo fanno più paura. In cui i sovrani sognano la sospensione delle opposizioni, della democrazia, e l'avvento di unioni nazionali indeperibili. In cui clandestinamente sognano addirittura l'eternarsi di catastrofi, l'instabilità che cuoce a fuoco lento senza mai attenuarsi: perché le catastrofi rendono ineluttabile l'unione nazionale, auspicabili le tregue d'ogni conflitto, riprovevole qualsiasi moto dell'animo che non sia dominato dalla sequela del delitto e del castigo, della condanna e della redenzione. Il Sacré-Cœur è considerato dai partigiani dell'Ordine Morale come un mezzo per espiare Sedan e la Comune, oltre che per opporsi simbolicamente all'anticlericalismo dei repubblicani. È la Storia che si tramuta - qui, subito - in Giudizio Universale. 

sabato 8 ottobre 2011

Rom liegt irgendwo in Russland

И как книга, раскрытая сразу на всех страницах,
лавр шелестит на выжженной балюстраде.
Иосиф Бродский
Римские элегии, III, 1981

E come un libro, aperto ad ogni pagina, che si legge
d'un fiato, il lauro fruscia su una balaustrata cotta.
Iosif Brodskij
Elegie romane, III, 1981
in Poesie, 1972-1985, a cura di Giovanni Buttafava, Adelphi, 1986

Вновь Проперций мой ко мне вернулся,
Счастие для Кинфии какое!
Исцарапанный, залапанный, помятый,
Облысевший, грязный, исхудавший.
Елена Шварц

Properzio è ritornato da me,
che felicità per Cynthia!
Graffiato, in lacrime, malconcio,
calvo, sudicio, emaciato.
Elena Schwarz
Cynthia


Rom liegt irgendwo in Rußland, am Rande. Vielleicht am Baltischen Meer oder am Schwarzen. Ein beliebter Ausflugsort für die Kulturruinenbegeisterten unter uns. Russische Touristen schreiben gerne Gedichte. Eine Anthologie der russischen Gedichte über Rom ergäbe einen dicken Band. Aber nicht nur die Springbrunnen und Pinien dieser Stadt rascheln in unseren Büchern (Lorbeer raschelt wie ein Buch, in dem alle Seiten zugleich aufgeschlagen sind, schrieb Brodsky in einer seiner "Römischen Elegien"), seit zwei Jahrhunderten besiedeln die Russen Roms sieben Hügel. Nicht nur Nikolaj Gogols Krähen-Gesicht lächelt unter dem glatten fettigen Haar hervor von der Wand des "Caffè Greco". Ganz Italien ist mit von Russen gestifteten Gedenktafeln behängt. Als Jelena Schwarz mich durch Rom führte, stürzte sie immer wieder zu irgendeiner Hausecke, weil sie sich dort eine gemerkt hatte. In italienischer und russischer Sprache stand geschrieben, wer und wann hier gewohnt hat.

Dazu muß man sagen, daß die Lieblingsbeschäftigung der Russen nicht das Wodka-Trinken ist – wie man im Westen irrtümlicherweise annimmt – auch nicht sich prügeln, auch nicht die Zigeuner-Lieder singen. Die Lieblingsbeschäftigung der Russen ist das Anbringen von Denktafeln. Vor kurzem verabschiedete die Moskauer Stadtregierung einen Erlaß: Das eigenmächtige Anbringen von Gedenktafeln und Aufstellen von Denkmälern wird strafrechtlich verfolgt. Um so heftiger behängen wir fremde Wände, falls uns eine gütige fremde Obrigkeit das erlaubt. Die russische Gemeinde in Bologna hat Geld für eine Gedenktafel für Joseph Brodsky in Venedig gesammelt. Dann hat eine russische Bologneserin Jelena Schwarz in Rom angerufen und gefragt, ob und wo in Venedig die Tafel plaziert werden muß. "Fragen Sie doch die Witwe des Dichters", – sagte Jelena Schwarz. "Ja, das haben wir schon, sie meint aber, daß sie gar nicht so sicher ist, ob es Joseph Brodsky überhaupt recht wäre..." Die Entscheidung ist noch in der Schwebe.

Warum wurde Jelena Schwarz in dieser Frage angerufen? Vielleicht, weil sie als Gast der Brodskys Stiftung in Rom war. Zweck der Stiftung ist, russischen Dichtern für eine Weile die bedeutendste Stadt in den Provinzen der russischen Poesie zu schenken. Aber in Wirklichkeit (in der speziellen Wirklichkeit, in der die Dichter leben) war Jelena Schwarz längst in Rom: seit Cynthia. Dieser Frau, die eigentlich Hostia hieß und nur in Gedichten von Properz zu Cynthia wurde, verlieh Jelena Schwarz eine Stimme (beide, Cynthia und Properz, lebten in Rom im ersten Jahrhundert vor Chr., beide wurden berühmt dank seiner Elegien an sie, beide waren haltlos und gemein, sie wahrscheinlich haltloser und gemeiner als er, nur blieb sie stumm wie ein Fisch, bis Jelena Schwarz ihre beiden Cynthia-Bücher verfaßte). Schreibmaschinen-Kopien dieser Cynthia-Gedichte (die mir nun in einer zweibändigen Werkausgabe mit sandfarbenem Umschlag vorliegen) waren das erste, was ich vor mehr als zwanzig Jahren von Jelena Schwarz gelesen habe. Man verliebt sich in diese Zeilen sofort. Über den armen Properz ist da nicht viel: Amor ist schrullig - ich Arme liebe ein kahles Ungetüm und Wieder kam mein Properz zu mir zurück - / So ein Glück für Cynthia! / Verkratzt ist er, verweint, abgeschabt, / kahl, schmutzig, abgemagert.

Ich fuhr nach Rom, um Jelena zu sehen. Ein älterer deutscher Geheimrat soll gesagt haben, daß derjenige, der Italien, insbesondere Rom, sich gut angeschaut hat, nie mehr ganz unglücklich sein kann. Das klang, als wir dort waren, wie eine Beschwörung in unseren Ohren. Eigentlich aber waren wir glücklich, daß wir uns wiedersahen. Aus diesem Glück heraus versprachen wir einander, die Gedichte von Rom und Italien, die wir nach diesem Treffen (vor Weihnachten 2001) schreiben werden, in einem Büchlein zusammenzuführen.

Als unsere gemeinsame Zeit in Rom verflog, setzte ich mich in ein leeres Coupé, schloß die Augen und schlug sie erst in Mailand wieder auf. Jelena ist inzwischen wieder in Petersburg, wo sie seit 1948, dem Jahr ihrer Geburt, lebt. Manchmal denke ich, daß ganz Petersburg, die Hauptstadt der russischen Dichtung, auf ihren schmalen Schultern steht.

Olga Martynova

Aus Olga Martynova, Jelena Schwarz, Rom liegt irgendwo in Russland. Zwei russische Dichterinnen im lyrischen Dialog über Rom. Russisch/Deutsch. Aus dem Russischem von Elke Erb und Olga Martynova. edition per procura, Wien, 2006


Roma è da qualche parte in Russia, ai suoi margini. Forse sul Mar Baltico o sul Nero. Un'amata meta turistica per coloro, tra di noi, che si entusiasmano per le rovine della cultura. Ai turisti russi piace scrivere poesie. Un'antologia delle poesie russe su Roma darebbe uno spesso tomo. Ma nei nostri libri non frusciano solo le fontane ed i pini di questa città (l'alloro fruscia come un libro di cui si aprano contemporaneamente tutte le pagine, scrisse Brodskij in una delle sue "Elegie romane"), è da duemila anni che i russi colonizzano i sette colli di Roma. Non solo il volto da cornacchia di Nikolaj Gogol' se la ride sotto la liscia, unta capigliatura dalla parete del "Caffè Greco", tutta l'Italia è ornata di targhe commemorative offerte da russi. Quando Elena Schwarz mi ha portato in giro per Roma, non faceva che accorrere ad un angolo di qualche casa perché ne aveva notata una. Vi era scritto, in italiano ed in russo, chi e quando vi aveva abitato.

A questo bisogna aggiungere che l'occupazione preferita dei russi non è bere vodka – come a torto si ritiene in Occidente – e neanche scazzottarsi e nemmeno cantare canzoni zigane. L'occupazione preferita dei russi è apporre targhe commemorative. Poco tempo fa l'amministrazione cittadina di Mosca ha emesso un'ordinanza: L'apposizione di targhe commemorative su iniziativa individuale è sanzionata penalmente. Ci mettiamo ad adornare con sempre maggiore accanimento muri stranieri, se un'amministrazione straniera compiacente ce lo permette. La comunità russa a Bologna ha fatto una colletta per una targa commemorativa da dedicare a Iosif Brodskij a Venezia. Poi una bolognese russa ha telefonato ad Elena Schwarz a Roma e le ha chiesto se e dove, a Venezia, si dovesse piazzare la targa. "Chieda alla vedova del poeta", – ha detto Elena Schwarz. "Sì, l'abbiamo già fatto, ma lei crede di non essere poi così sicura che Iosif Brodskij sarebbe proprio d'accordo..." La decisione è ancora in sospeso.

Perché Elena Schwarz è stata interpellata in questa questione? Forse perché era ospite della fondazione Brodskij a Roma. Scopo della fondazione è concedere per un certo tempo ai poeti la città più significativa delle province della poesia russa. Ma in realtà (nella realtà speciale in cui vivono i poeti) Elena Schwarz era a Roma già da molto tempo prima: dai tempi di Cynthia. Questa donna, che in realtà si chiamava Hostia e diventò Cynthia solo nelle poesie di Properzio, ha prestato ad Elena Schwarz una voce (entrambi, Cynthia e Properzio, vissero a Roma nel primo secolo a.C., entrambi divennero famosi grazie alle elegie di Properzio dedicate a lei, entrambi furono volubili e volgari, lei probabilmente più di lui, solo che lei rimase muta come un pesce, almeno finché Elena Schwarz compose i suoi due libri di Cynthia). Delle copie battute a macchina di queste poesie di Cynthia (che giacciono ora davanti a me in un'edizione in due volumi dalla copertina color sabbia) sono state la prima cosa che io abbia mai letto di Elena Schwarz più di vent'anni fa. Ci si innamora subito di questi versi. Del povero Properzio non vi si dice molto: Amor è bizzarro - Povera me amo un mostro calvo e Properzio ritornò da me - / Che felicità per Cynthia! / È graffiato, in lacrime, malconcio, / calvo, sudicio, emaciato.

Andai a Roma per vedere Elena. Si dice che un anzianotto consigliere segreto tedesco abbia affermato che chi ha visto l'Italia, e in particolare Roma, non può più essere del tutto infelice. Ciò suonava, quando eravamo là, come uno scongiuro, nelle nostre orecchie. In realtà eravamo felici di esserci riviste. Da questa felicità ci promettemmo reciprocamente di riunire le poesie di Roma e dell'Italia che avremmo scritto dopo questo incontro (prima di Natale del 2001).

Trascorso il tempo passato insieme a Roma, mi misi in un coupé vuoto, chiusi gli occhi e li riaprii solo a Milano. Elena è tornata nel frattempo a Pietroburgo, dove vive dal 1948, l'anno della sua nascita. Talvolta penso che Pietroburgo, la capitale della poesia russa, stia tutta sulle sue esili spalle.

Ol'ga Martynova

Note
Il libro da cui è tratta questa prefazione è uno dei libri più piccoli e più cari che ho. Me l'hanno regalato a Francoforte, nel periodo in cui avevo iniziato ad imparare il russo, due persone che non credo abbiano mai letto poesie.
Francoforte è la città in cui vive Ol'ga Martynova. Suo marito è Oleg Jur'ev, di cui ho riportato di recente un pezzo dedicato all'assedio di Leningrado.
Elena Schwarz è morta nel 2010. Non so in che misura se ne sia parlato in Italia. Temo meno del dovuto.
In genere faccio del mio meglio, pur nei limiti delle mie possibilità, per traslitterare con cura i nomi russi in italiano. In questo caso, considerando il russo, avrei dovuto scrivere Švarc. Ho preferito invece la traslitterazione tedesca (Schwarz) a quella italiana (Švarc) perché Шварц, in origine, deve essere stato proprio Schwarz.
Pare che il consigliere segreto dei duchi di Weimar Goethe, ritornato dal suo viaggio in Italia, abbia detto: Wer Rom gesehen hat, kann nie mehr ganz unglücklich werden (Chi ha visto Roma non può più essere veramente infelice).

venerdì 7 ottobre 2011

Filò

Quando sono ripassata dai miei, ho provato, poi, a rifare la foto ad una foto dei nonni della mia nonna materna. Però, siccome è sotto vetro (tendiamo ad attribuirle un valore eccessivo), è praticamente impossibile evitare l'effetto dei riflessi. Allora ho ripiegato sui dettagli che da sempre mi attraggono di più, in quella foto: le mani.




Sono mani che parlano. Sono mani che dicono chiaramente chi le ha usate di più. Sono mani che mi ricordano come il mito del fare filò sarebbe tutto da riscrivere, almeno per i miei avi. Perché Giovanni, il mio trisavolo, rimproverava ogni sera Serena, la mia trisavola, che, sfiancata dalle fatiche della giornata, inevitabilmente si addormentava:
- Ave Maria, gratia plena,
- Dominus tecum,
- benedicta tu in mulieribus,
- et benedictus fructus ventris tui, Jesus.
- Sancta Maria, mater Dei,
- ora pro nobis pecca...
- Prega, putana! Sveia, sumo, prega: Ave Maria, gratia plena,
- Ave Maria, gratia plena...

Sumo, nel dialetto veneto orientale, è un'esortazione.

mercoledì 5 ottobre 2011

Il miglior romanzo di guerra (parola di Ernesto)

D'abord, que je vous présente les poilus de la 9e
Il sont quinze en tout et pour tout... pas un de plus,
pas un de moins... Les autres sont restés là-bas, dans
les plaines de Belgique, de la Marne, ou ailleurs !
De ceux-là nous ne parlons plus, - à quoi bon chanter
des de profundis ?

Le grandi barbe della 9ª compagnia

È il titolo di un romanzo, o per dir meglio, la traduzione di un titolo. In francese, — perché il romanzo è francese, di Arnould Galopin, — suona Les Poilus de la 9e.
Mi sembra che "gran barba" messo a rendere in italiano la parola "poilu" si adatti abbastanza bene. Chi siano i "poilus", o le "grandi barbe" è appena accessorio ricordare. Sono i soldati che si trovano al fronte, e preferibilmente vengono denominati così i richiamati ed i veterani. Per quanto il rasoio sia un oggetto di prima necessità e di facile uso, e quantunque anche al fronte non sia impossibile trovare barbieri, avviene assai comunemente che il tempo e l'agio di radersi o di farsi radere manchi al soldato. Le granate e le fucilate da scansare o da spedire non concedono grandi distrazioni. La barba, così, abbandonata a se stessa, approfitta per allungarsi e stendersi, e per occupare e divorare le guancie solitamente più nitide e liscie. Il soldato così diventa un "poilu". La barba vale per lui... uno stato di servizio.
"Les Poilus de la 9e" - è facile immaginarlo - è un romanzo di guerra. Diciamolo subito: fra i tanti che la guerra ha fatto fiorire, questo è certamente il migliore. Sente la fretta della composizione, è vero, è tutt'altro che accurato nella scrittura, contiene qualche episodio che soverchia e sovrabbonda, ma ha una primissima qualità: sa farsi comprendere sincero. La guerra, del resto, Arnould Galopin, l'ha seguita, conosciuta, combattuta, e come soldato e come giornalista. Il quadro che egli ne fa - o per dir meglio serie di schizzi che quadro - lo si sente fedele. È la vita del campo e della trincea, la battaglia colta sul vivo, notata rapidamente sul taccuino da un corrispondente di guerra, e lo stile affrettato, senza eleganze, soldatesco quasi, ha però una nervosità, una sincerità che toccano. Quando non si ha tempo di rigirare e di lambiccare periodi, si resta meglio incatenati al proprio soggetto, è più difficile divagare ed intessere alla verità odiosi fregi.
"Le grandi barbe della nona compagnia" non ha nulla a che vedere con nessuno dei romanzi famosi che hanno la guerra per sfondo o per tema principale. Victor Hugo, Stendhal, Tolstoi, Erckmann-Chatrian, Zola, Rudyard Kipling, ciascuno di questi ha trattato la guerra secondo uno speciale punto di vista. Victor Hugo nell'episodio di Waterloo, nei Miserabili, l'ha rappresentata epica ed eroica. Nella Chartreuse de Parme, Stendhal, che pure mette in scena Waterloo, ce la dipinge solo per quel tanto che può essere compreso e veduto da un singolo oscuro soldato a cui naturalmente sfuggono i grandi movimenti di masse, gli obbiettivi ed i risultati immediati. "È stata davvero una grande battaglia?" si chiede un personaggio di Stendhal, dubbioso e stupito alla fine della fatale giornata che ha segnato il crollo di Napoleone. Egli si era battuto, aveva fatto marcie e contromarcie, assalti e parate, e non aveva capito nulla. Tra parentesi, il Waterloo dello Stendhal, per la verità e l'umanità delle osservazioni è rimasto ancora unico nella letteratura.
Viene Tolstoi. Tolstoi ci dà la guerra veduta dall'alto e la tratta dai suoi effetti sociali. Egli mette in scena soprattutto i capi, Napoleone e Alessandro, i generali, gli ufficali; Erckmann e Chatrian invece la vedono e ne descrivono gli orrori per gli occhi degli umili, della gente del popolo e della campagna. I celebri autori alsaziani, finissimi artisti, più di ogni altra cosa si impiegano a mostrarci il contrasto fra la vita pacata, bonaria, rude e serena del cascinale pacifico e del villaggio oscuro, e quella violenta degli eserciti che un'ambizione, quella di Napoleone I, trascina per l'Europa di battaglia in battaglia, di capitale in capitale.
Le grandi figure non fanno che profilarsi rapidamente e passare. Delle gravi questioni per cui i popoli sono a contesa, appena si accenna per proclamare che l'ideale dell'umanità è nella libertà e nella pace. Al primo piano cosa troviamo? Solo figure semplici: un apprendista orologiaio, un maniscalco, un medico di campagna, un trappolatore di talpe, un maestro di scuola e ragazzi e contadini. La visione dolce dei paesaggi tranquilli e della vita domestica, l'odore sano della terra lavorata ci segue dappertutto e ci dà come la nostalgia di luoghi cari, da lungo abbandonati.
Zola, com'è sua natura, eccelle nel descrivere e nel mettere in movimento le masse. L'uomo si perde, è sommerso nella moltitudine, e ben si può dire che nella sua Débacle non è protagonista questo o quel personaggio, ma l'esercito intero.
Quanto a Kipling, anglosassone, egli par considerare la guerra niente altro che come uno sport, il più eccitante, il più inebriante di tutti gli sports. I suoi ufficiali ed i suoi soldati - per lo più ufficiali e soldati dell'esercito anglo-indiano - fanno alle fucilate, si danno ad inseguire tribù ribelli, così come se fossero impegnati ad una partita di football o si accingessero ad una caccia alla tigre. Il suo Dick, della Light that failed, che cieco si fa condurre sotto Omdurman al campo di Gordon, stretto dai ribelli di Araby Pascià, vuole, poiché non può più vedere la guerra, almeno sentirla, respirarne l'odore, e l'acre odore della polvere ancora lo rimescola tutto e lo fa rivivere.
Niente di tutto questo in Arnould Galopin: né quadri epici, né analisi di caratteri, né considerazioni strategiche, né tesi sociali ed umanitarie: egli ci dà la guerra, con tutti i suoi orrori e tutti i suoi spaventi sia pure, ma vista traverso una lente di filosofica gaiezza, che sa prendere alla meglio anche le cose peggiori, la guerra traverso il temperamento facilmente burlevole, motteggiatore e monellesco del buon popolano di Parigi, il quale è e sarà sempre un inalterabile ed incorreggibile Gavroche. Il parigino, l'uomo che non si stupisce di nulla ma che a tutto si interessa e che tutto commenta con uno scherzo, il curioso maniaco che nel '70 non ristava dall'arrampicarsi su Montmartre per contemplare le vicende dell'assedio e dei combattimenti, il parigino assiste alla guerra come ad uno spettacolo. Quando a Parigi vennero i taube(*) a gittar bombe, il primo moto generale, quasi impulsivo fu quello di correr fuori in strada a vedere.
Appunto, le "grandi barbe" della nona compagnia sono in massima parte parigini, grandi monelli fatti per la celia ed adoratori della novità. Anche quando la vita della trincea è più dura, ed anche quando si debbono stringere i cinturini e si ha fame perché si è "dato fondo a tutte le scatole di scimmia conservata" (le scatole militari di carne) il frizzo non perde mai il suo diritto.
"Noi siam qui in fondo alla trincea", dice uno dei poilus "un po' come sulla zatteraccia della Medusa; con questa differenza, che oltre al non aver nulla da metterci dentro, non abbiamo nemmeno la zattera, e siam tuffati nell'acqua schifa fino al ginocchio. Se dura ancora a piovere, ce l'avremo alla cintola, e allora sarà un bel semicupo!"
Il gergo parigino, pittoresco ed intraducibile, dà anche più sapore ai dialoghi - sempre vivacissimi - ed alle osservazioni, spesso impensate e gustose: i poilus parigini non chiamano mai nessuna cosa col suo nome. Tutto, per loro, si trasfigura e si colora con nomi e parole speciali, ed essi non vivono che tra iperboli e traslati. Hanno trasportato al campo il linguaggio curioso dei sobborghi e qui l'hanno ancora arricchito.
In eloquio "poilu", "berne un sorso" si traduce con "soffiare nella piva" - "non arrischiarsi" diventa "non compromettersi coi datteri" - "mangiare" è "farsi gonfiare il bariletto" - "cogliere al tiro un nemico" si esprime nella perifrasi "mettere nel nero" e "scucire" si dice " per "caricare la baionetta", "colpo di Trafalgar" per "azione importante", "picchiar sodo sulle scatole" per "mangiare di buon appetito" ed "avere un'idea nella cipolla" per "fare un progetto" e così via.
Questa è la lingua parlata dalle "grandi barbe della nona compagnia", la lingua di Jollivet, detto la Girandola, di Platin, detto la Pancia, di Parigot, di Martineau, i quali senza proprio essere i protagonisti esclusivi del racconto (protagonista è l'intera nona compagnia), figurano tuttavia come le "grandi barbe" principali e più segnalate.
Non credete però che l'autore vi narri avventure straordinarie o vi metta in scena prodigiosi eroi o vi conduca per vie irte di difficoltà e di complicazioni ad epiche apoteosi. I "poilus" di Arnould Galopin, se guasconeggiano un po' nel linguaggio come moschettieri di Dumas padre, non sono in realtà che buoni diavoli di soldati che fanno il loro dovere e le loro vicende non sono per nulla divere da quelle che possono toccare a qualsiasi soldato.
L'autore, che narra in prima persona, e figura anch'egli fra i "poilus", afferma del resto, a bella prima, che non scrive un romanzo.
"Confesso umilmente" egli dice, "che non sono un romanziere. Ciò che racconto, l'ho veduto. Non esagero nulla. Poi io sono qui, in certo qual modo, il portavoce di un gruppo di bravi ragazzi i quali non tollererebbero che, per ottenere effetti di penna, raccontassi delle panzane. Finita la guerra, si vedrà. Pel momento bisogna lasciarli parlare essi stessi. Vedrete che sono abbastanza eloquenti e non occorre condire le loro parole di spezie...".
L'accento del racconto è così, da capo a fondo, veridico. L'amore della patria - e sobriamente espresso come sempre fanno le persone che sentono veramente e fortemente epperò non hanno bisogno di far pompa in gran discorsi del loro sentimento, - è la sola passione che commuova gli animi. La fame e la sete, la trepidazione degli agguati, la pazienza delle attese nelle trincee, le marcie, i bivacchi, la caccia alle spie, i rischi delle audaci spedizioni notturne, le ambulanze, le sale degli ospedali, ecco tutti gli elementi della narrazione. Vi troverete episodii, ma intreccio nessuno. E così deve essere. Il vero dramma, così complesso e così vasto — la Guerra — non può essere frazionato o prestar tenui fili ad un intrico secondario. Ma un personaggio c'è sovra gli altri, importantissimo, e che tiene tutto il lavoro e ne forma l'anima: il signor Buon Umore. È questi che incita ed anima tutti gli altri, questi che commenta, questi che filosofeggia. Nei momenti più critici egli compare, ed ecco, nelle più buie contingenze si vede chiaro... Ferito alla gamba, amputato, un poilu, anziché commiserarsi e maledire alla sua sorte, sorridendo si rassegna. "Ero pronto", egli dice "a sacrificarmi pel mio paese... a dargli la mia vita. È colpa mia, forse, se non ho potuto offrirgli che una gamba?". 
Inerte, inchiodato in un letto d'ospedale, un altro, con due palle nella coscia ed una larga ferita di baionetta al braccio, pur non si lagna del suo stato, e pieno di brio, non appena le forze glielo consentono, scrive ai suoi compagni d'arme allegramente: "Insomma, io sto come uno che viva di rendita. Non sono in un ospedale ma in una villeggiatura, con caloriferi, luce elettrica, e quell'affare che sapete, all'inglese. Mi pare di abitare un palazzo. Siamo qui in dieci in una camerata dove il pavimento brilla come uno specchio ed ognuno ha il suo letto pitturato di bianco, con boccie d'oro ai piedi ed alla testa. Quanto ai lenzuoli, sono più fini che fazzoletti da naso, e ve n'hanno con pizzi ed iniziali. L'elastico rimbalza che è un piacere. Ed ognuno ha, pure, per sé solo, un bel tavolino da notte di mogano, col suo inquilino torso da maravigliare... E belle signore vestite di bianco, — se sono belle, corpo di bacco! — ci cantano la ninna nanna... "
Sul punto di andare al fuoco, Plotin e Jollivet non fanno che scherzare. "A sentirli schiamazzare" osserva un compagno "non si direbbe mai che quei due fra un istante andranno a rischiare la pelle".
C'è un tantino di jattanza in questo buon umore, ma tuttavia fa bene.
Perché, — il volume di Arnould Galopin ce lo dimostra — il buon umore, anche in guerra e sopratutto in guerra, è l'ottimo dei compagni, ed è con lui che si va avanti e con lui che si vince. 

Ernesto Ragazzoni, terza pagina de La Stampa, 2 gennaio 1916


Per evitare delle perdite tra la popolazione civile, avevamo ricevuto l'ordine di prendere le bombe più piccole, di circa 2 chili. Non avevano quasi efficacia, ma facevano molto rumore. Solo il morale della popolazione avrebbe potuto essere colpito da questo raid, e forse si sarebbe potuto sperare di far dichiarare Parigi città aperta, visto lo stato della vetustà delle sue fortificazioni. La popolazione era numerosa nelle grandi vie e nelle piazze, in quella bella giornata di tarda estate. Non c'era stato alcun panico, gli abitanti sembravano tranquilli e guardavano in aria.
Ferdinand von Hiddessenil primo pilota ad aver sganciato bombe su una città, il 30 agosto 1914.


martedì 4 ottobre 2011

Ridendo e scherzando

sono più di dieci giorni che si bombarda Reims. Per chi legge i giornali dei primi di ottobre del 1914, naturalmente. Per costoro, il conteggio dei giorni non è immediato, perché una notizia da Rotterdam del 21 settembre riporta che, a quella data, era già da tre giorni che le artiglierie tedesche stavano bombardando la città dalla sponda opposta della Marna, mentre un'altra da Londra del 3 ottobre dice "già da dieci giorni".
La gente di Reims non ancora sfollata sta vivendo in cantina. Ma non è la popolazione di Reims, su cui si concentrano i giornali: è la sorte della sua cattedrale (i simboli contano più degli uomini). Deve aver subito danni considerevoli. E non perché lo dica Le Figaro del 22 settembre, con parole accorate e piene di indignazione, ma tradite dalla frase fatta per cui ci sarebbe solo un "cumulo di macerie":
Senza poter invocare nemmeno l'apparenza di una necessità militare, e per il solo piacere di distruggere, le truppe tedesche hanno sottoposto la cattedrale di Reims ad un bombardamento sistematico e furioso. A quest'ora, la basilica non è più che un cumulo di macerie. Il governo della Repubblica ha il dovere di denunciare all'indignazione universale questo atto rivoltante di vandalismo che, dando alle fiamme un santuario della nostra storia, ruba all'umanità un frammento incomparabile del suo patrimonio artistico.
No, non per le parole del Figaro. Più che altro, per la logica ed i dettagli della smentita ufficiale diramata da Berlino il 23 settembre:
Il governo francese sostiene che il cannoneggiamento di Reims non è una necessità militare. Di fronte a ciò, si constata quanto segue: siccome i francesi hanno fatto della città di Reims, mediante forti trinceramenti, il centro della loro difesa, ci hanno costretto ad attaccare la città con tutti i mezzi. Per ordine del comando superiore dell'esercito tedesco, il duomo doveva venir risparmiato, fin tanto che i francesi non lo avessero sfruttato a proprio vantaggio. Il 20 è stata issata sul duomo la bandiera bianca e noi l'abbiamo rispettata. Tuttavia, abbiamo potuto constatare che sulla torre c'era un posto di osservazione, il che spiegava la buona copertura dell'artiglieria francese contro l'attacco della nostra fanteria. Bisognava rimuovere il posto d'osservazione. Ciò è avvenuto mediante un fuoco di shrapnel dell'artiglieria da campo - nemmeno allora è stato permesso il fuoco dell'artiglieria pesante - e il fuoco è stato sospeso appena rimosso il posto. Come abbiamo potuto osservare, le torri e l'esterno della cattedrale sono conservati. Il tetto è andato in fiamme, come doveva avvenire. La responsabilità è dei francesi, che hanno tentato di abusare della bandiera bianca posta sul venerabile campanile.
E soprattutto, per i tuttavia ed i però di un comunicato del 21 settembre, rilasciato ancora dall'attaccante, che inducono a pensare che i danni subiti dalla cattedrale (che si trasforma in duomo, fuori dalla Francia) fossero effettivamente seri:
Il duomo, nel quale sono ricoverati i feriti,
viene per quanto possibile risparmiato,
tuttavia è già stato colpito da otto cannonate,
però non ha riportato danni gravi.
Le potenze tradizionali modellavano la realtà secondo i propri interessi, per cui una cattedrale danneggiata da delle bombe oscillava tra un cumulo di polvere ed una struttura sì colpita, ma ancora saldamente in piedi, e nella tradizionale propaganda di guerra il nemico si macchiava o della barbarie cieca dell'attaccante o del subdolo utilizzo, nel caso del difensore, di una cattedrale come postazione militare.
Le potenze moderne inventano la realtà: lo scontro di civiltà(1), le reti terroristiche globali, i loro capi, i loro mille bracci destri, le loro vite, le loro morti, i loro fini, le dubbiose stragi di civili che giustificano interventi bellici a fronte delle palesi e continue stragi di civili lasciate impunite. Inventano e si spingono pure oltre l'invenzione: vorrebbero anche che chi non ha il potere si limitasse ad interpretare la loro rappresentazione della realtà. A volte(2) ci riescono.
The aide said that guys like me were ''in what we call the reality-based community,'' which he defined as people who ''believe that solutions emerge from your judicious study of discernible reality.'' I nodded and murmured something about enlightenment principles and empiricism. He cut me off. ''That's not the way the world really works anymore,'' he continued. ''We're an empire now, and when we act, we create our own reality. And while you're studying that reality -- judiciously, as you will -- we'll act again, creating other new realities, which you can study too, and that's how things will sort out. We're history's actors... and you, all of you, will be left to just study what we do.'' 
L'assistente ha detto che tizi come me si trovavano "in quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà," che ha definito come la gente che "crede che le soluzioni emergano dallo studio giudizioso di una realtà discernibile." Ho fatto cenno di sì e ho blaterato qualcosa sui principi dell'illuminismo e dell'empirismo. Mi ha interrotto. "Siamo un impero, ora, e quando agiamo, creiamo una nostra realtà. E mentre voi studierete questa nostra realtà - giudiziosamente, come farete - noi agiremo di nuovo, creando delle altre nuove realtà, che vi metterete a studiare ancora, ed è questo il modo in cui le cose si sistemeranno. Noi siamo attori della storia... e a voi, a tutti voi, non resterà che studiare quello che facciamo". 
Un consigliere di George W. Bush a Ron Suskind, estate del 2002, NYT, 17.10.2004(4)
Buona visione.

(1) Parolaccia che, declinata al passato, suonava Lebensraum, questione superata a prezzo di milioni di morti e finita con due scarabocchi di penna, quelli delle firme con cui Schröder e Putin hanno siglato l'accordo sul Nord Stream.
(2) A volte non ci riescono, comunque: i potenti dimenticano di essere anch'essi mortali, non conoscono i pappici(3) ed in ogni caso sottovalutano la potenza del clinamen.
(3) 'O pappice dicett' 'a noce: damme tiempo ca te spertoso.
(4) Trovato grazie a Barbara Spinelli in "Una parola ha detto Dio, due ne ho udite". Lo splendore della verità, Laterza, 2011