sabato 13 agosto 2011

Grøne eple

Sumaren var kald og regnfull.
Epli vart grøne og flekka av skurv.
Men eg plukkar og sorterar
og staplar i kjellaren.
Grøne eple er betre enn inkje
Bygdi ligg på 61° breidd.

Olav H. Hauge
(link)


Mele verdi

L'estate è stata fredda e piovosa.
Le mele erano verdi e bacate.
Tuttavia le raccolgo e le seleziono
e le accatasto in cantina.
Delle mele verdi sono meglio che nessuna
quando si vive al 61° parallelo.

*

Non conosco la poesia norvegese e neanche il norvegese, se è per quello, anche se il tedesco mi aiuta un po' (Grüne Äpfel. Der Sommer war kalt und regnerisch..., sortieren, Fleck, pflücken, stapeln, Keller, Breitenkreis). Tuttavia, il desiderio di conoscerla c'è, soprattutto per curiosità, ma anche, per quanto in minima, marginalissima parte, per non lasciare tristemente senza seguito nei miei pensieri una brevissima frase che Paolo Nori - non ricordo più dove - ha scritto una volta sulla poesia norvegese. Doveva essere una battuta, se ricordo bene, giocata sul fatto che non esisterebbero grandi poeti norvegesi. Non sto dicendo che Hauge sia stato un grande poeta norvegese, anche se potenzialmente sarebbe un buon candidato, se non altro per il mestiere di giardiniere, per i nomi dei poeti che ha tradotto e per l'aver vissuto solo ed esclusivamente ad Ulvik: per il momento so solo che è stato un poeta norvegese. La battuta di Paolo Nori, tuttavia, non sembrava essere troppo ingenua, perché, sempre se ricordo bene, non escludeva per principio che ce ne potessero essere, ma si limitava ad esprimere il fatto che lui, Paolo Nori, di grandi poeti norvegesi non ne conosceva. La sua frase, espressa più o meno in questi termini, presupponeva, perché la battuta andasse a buon fine, un'intesa col lettore italiano, che non necessariamente conosce grandi poeti norvegesi. Anche se quando l'ho letta, proprio come adesso, non conoscevo grandi poeti norvegesi, e quindi ero e sono uguale in tutto e per tutto al lettore cui Paolo Nori pensava di rivolgersi, la battuta non mi aveva fatto per niente ridere, anzi, ma si è lo stesso (forse esattamente per questo) impressa nella mia memoria e ha finito per trovare posto proprio a fianco del ricordo di un giornalista sportivo della RAI, Gianfranco De Laurentiis, il quale, in attesa di un'intervista a Hakkinen alla fine di un Gran Premio di Formula 1, fattosi precedere da un giornalista finlandese che a Hakkinen si era naturalmente rivolto nella propria lingua, così aveva più o meno espresso il proprio disappunto: ma ora lasciamo pure Hakkinen "parlare in finlandese, che è una lingua tutta sua". Ripensandoci ora, non è detto che noi italiani (salvo gli specialisti ed i curiosi che, diversamente da me, vanno a fondo nelle cose) non conosciamo grandi poeti norvegesi solo per questione di distanza linguistica (ma da quando in qua l'italiano è affine all'inglese o al tedesco?), magari è solo questione di traduzioni o anche solo, più in generale, di tempo. Magari non sono ancora nati i grandi poeti norvegesi. Sembrerà un'idea balzana, ma a me piace pensare che un minuto prima che nascesse Dante o un secondo prima che nascesse Shakespeare, ecc. ecc., l'aria fosse satura di tutto quello che serviva per dare vita ad un grande poeta e che, a leggere nel pulviscolo atmosferico, vi si sarebbero trovati terzine e distici belli e pronti. In ogni caso, che dipenda dalle traduzioni, dalla mia attenzione, o dal tempo o dal pulviscolo, aspetto in ogni caso con fiducia, come per ogni letteratura.
Nonostante la battuta sui grandi poeti norvegesi, per la sua opera di traduttore dal russo (Charms! Chlebnikov!) per l'attenzione che dedica ai dialetti, allo stile parlato e all'oralità in generale e anche per quella che dedica alla memoria, a Paolo Nori sono grata e sarei anche più che disponibile a trovargli non appena possibile un altro alloggio nei meandri del mio cervello, lontanissimo da quello del condominio in cui abita Gianfranco De Laurentiis.

2 commenti:

  1. Se potessi, dedicherei più tempo allo studio di lingue da noi ingiustamente trascurate, come le lingue scandinave, il finlandese, ecc.
    A mio avviso, bisognerebbe il più possibile leggere i testi (letterari e non) nella loro lingua originaria (io lo faccio con i testi di lingue che conosco più o meno bene, francese, inglese, spagnolo...): è una sfida salutare alla nostra abituale "pigrizia" di lettori e anche, ogni volta, un grande viaggio virtuale che porta a scoprire aspetti e sfumature dei testi (romanzi, poesie) che nelle traduzioni, anche nelle migliori, vanno inevitabilmente perduti/e.
    Un lettore abituale, che sia anche "curioso della conoscenza", non può quindi, a mio parere, sottrarsi a questo esercizio, a questa utile esperienza.
    E potendo - parlo per esperienza - è importante anche cimentarsi in prima persona con la traduzione di testi stranieri: è la maniera migliore per immergersi nella complessità delle architetture letterarie e notarne ogni dettaglio, notarne anche la durezza, l'ambiguità, la difficoltà...
    Condivido la tua riflessione "a me piace pensare che un minuto prima che nascesse Dante..." (ecc.). E forse bisogna fare attenzione prima di affermare categoricamente che "non esistono poeti norvegesi" o, che ne so, "drammaturghi armeni", "commediografi cambogiani", ecc.
    Personalmente non ne conosco, ma questo non vuol dire granché.
    E quanto alla battuta "pesantemente televisiva" di Gianfranco De Laurentiis, non so pensare ad altro che ad un elegante, anglosassone "No comment".

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  2. Credo che condividiamo in moltissimi le medesime esperienze. Personalmente, mi confronto con i testi originali anche troppo precocemente (quando so dire nella lingua di turno l'equivalente di "the pen is on the table", per intenderci) e con le traduzioni fin da quando leggevo Verne e Molnár, quindi si parla di molto tempo fa.
    Ho ricordato l'episodio di Nori perché, per quanto in diversa misura ci caschiamo tutti, mi sembrava paradossale che venisse proprio da un traduttore di professione. Di più: ammettiamo che un paese possa non eccellere per letteratura in ogni periodo della sua storia (di periodi bui ne abbiamo anche noi, mi pare, e non pochi), ma pensiamo solo un attimo ad un Kafka che faccia sparire tutti i suoi manoscritti (Gogol' ci era quasi riuscito), ad un autore che per mille motivi non arrivi a pubblicazione o che, se ce la fa, arrivi a pochissimi lettori, pensiamo alla selezione delle traduzioni che si sentono di affrontare le case editrici - non necessariamente condotte in base a criteri letterari, direi - e, infine, pensiamo ad un Carducci: siamo ancora disposti veramente a considerarlo un grande poeta? Se metti in fila questi elementi esemplificativi, puoi facilmente trarre alcune delle altre considerazioni che non ho esplicitato ma che mi hanno spinto a spendere qualche riga sull'episodio dei "grandi poeti norvegesi".
    Resto propensa a ritenere che la battuta televisiva sia indicativa di un sentire piuttosto diffuso, se non universale: ognuno di noi, in fondo in fondo, anche con tutti gli sforzi possibili in senso contrario (io ci provo, ma non è detto ci riesca), consideriamo noi stessi, inclusa la nostra lingua materna, al centro del mondo: il resto può essere interessante, meritevole di studio, ecc., ma il nostro canone resta sempre quello, per cui si finisce facilmente col dire "lingue tutte loro", "nomi impronunciabili" e cose così. Di un sistema di riferimento si ha bisogno, ma è oggettivamente difficile ricordarsi ad ogni istante che è relativo come lo è qualsiasi sistema di riferimento.

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