sabato 6 agosto 2011

Palabras del autor

Con “Los lanzallamas” finaliza la novela de “Los siete locos”. Estoy contento de haber tenido la voluntad de trabajar, en condiciones bastante desfavorables, para dar fin a una obra que exigía soledad y recogimiento. Escribí siempre en redacciones estrepitosas, acosado por la obligación de la columna cotidiana.
Digo esto para estimular a los principiantes en la vocación, a quienes siempre les interesa el procedimiento técnico del novelista. Cuando se tiene algo que decir, se escribe en cualquier parte. Sobre una bobina de papel o en un cuarto infernal. Dios o el Diablo están junto a uno dictándole inefables palabras.
Orgullosamente afirmo que escribir, para mí, constituye un lujo. No dispongo, como otros escritores, de rentas, tiempo o sedantes empleos nacionales. Ganarse la vida escribiendo es penoso y rudo. Máxime si cuando se trabaja se piensa que existe gente a quien la preocupación de buscarse distracciones les produce surmenage.
Pasando a otra cosa: se dice de mí que escribo mal. Es posible. De cualquier manera, no tendría dificultad en citar a numerosa gente que escribe bien y a quienes únicamente leen correctos miembros de sus familias.
Para hacer estilo son necesarias comodidades, rentas, vida holgada. Pero, por lo general, la gente que disfruta de tales beneficios se evita siempre la molestia de la literatura. O la encara como un excelente procedimiento para singularizarse en los salones de sociedad.
Me atrae ardientemente la belleza. ¡Cuántas veces he deseado trabajar una novela que, como las de Flaubert, se compusiera de panorámicos lienzos…! Mas hoy, entre los ruidos de un edificio social que se desmorona inevitablemente, no es posible pensar en bordados. El estilo requiere tiempo, y si yo escuchara los consejos de mis camaradas, me ocurriría lo que les sucede a algunos de ellos: escribiría un libro cada diez años, para tomarme después unas vacaciones de diez años por haber tardado diez años en escribir cien razonables páginas discretas.
Variando, otras personas se escandalizan de la brutalidad con que expreso ciertas situaciones perfectamente naturales a las relaciones entre ambos sexos. Después, estas mismas columnas de la sociedad me han hablado de James Joyce, poniendo los ojos en blanco. Ello provenía del deleite espiritual que les ocasionaba cierto personaje de “Ulises”: un señor que se desayuna más o menos aromáticamente aspirando con la nariz, en un inodoro, el hedor de los excrementos que ha defecado un minuto antes.
Pero James Joyce es inglés. James Joyce no ha sido traducido al castellano, y es de buen gusto llenarse la boca hablando de él. El día que James Joyce esté al alcance de todos los bolsillos, las columnas de la sociedad se inventarán un nuevo ídolo a quien no leerán sino media docena de iniciados.
En realidad, uno no sabe qué pensar de la gente. Si son idiotas en serio, o si se toman a pecho la burda comedia que representan en todas las horas de sus días y sus noches.
De cualquier manera, como primera providencia he resuelto no enviar ninguna obra mía a la sección de crítica literaria de los periódicos. ¿Con qué objeto? Para que un señor enfático entre el estorbo de dos llamadas telefónicas escriba para satisfacción de las personas honorables:
“El señor Roberto Arlt persiste aferrado a un realismo de pésimo gusto, etc., etc.”
No, no y no.
Han pasado esos tiempos. El futuro es nuestro, por prepotencia de trabajo. Crearemos nuestra literatura, no conversando continuamente de literatura, sino escribiendo en orgullosa soledad libros que encierran la violencia de un “cross” a la mandíbula. Sí, un libro tras otro, y “que los eunucos bufen”.
El porvenir es triunfalmente nuestro.
Nos lo hemos ganado con sudor de tinta y rechinar de dientes, frente a la “Underwood”, que golpeamos con manos fatigadas, hora tras hora, hora tras hora. A veces se le caía a uno la cabeza de fatiga, pero… mientras escribo estas líneas, pienso en mi próxima novela. Se titulará “El amor brujo” y aparecerá en agosto del año 1932.
Y que el futuro diga.

Roberto Arlt



Parole dell'autore

Con “I lanciafiamme” termina il romanzo “I sette pazzi”. Sono contento di aver avuto la volontà di lavorare, in condizioni abbastanza sfavorevoli, per terminare un'opera che esigeva solitudine e raccoglimento. Ho sempre scritto in redazioni rumorose, oppresso dall'obbligo della colonna quotidiana.
Dico questo per stimolare i principianti alla vocazione; si interessano sempre del procedimento tecnico del romanziere. Quando si ha qualcosa da dire, si scrive ovunque. Su un rotolo di carta o in una camera infernale. Dio o il Diavolo sono al nostro fianco per dettarci parole ineffabili.
Affermo con orgoglio che scrivere, per me, rappresenta un lusso. Non dispongo, come altri scrittori, di rendite, tempo o di un tranquillo impiego pubblico. Guadagnarsi la vita scrivendo è penoso e rude. Specialmente se, quando si lavora, si pensa che esistono persone alle quali la preoccupazione di trovarsi delle distrazioni provoca ulteriore fatica.
Passando ad altro: si dice di me che scrivo male. È possibile. In qualche modo, non avrei difficoltà a citare molte persone che scrivono bene e che sono lette solo dai membri delle loro famiglie.
Per fare dello stile, bisogna avere comodità, rendite, vite agiate. Però, in generale, le persone che godono di tali benefici evitano il fastidio della letteratura. Oppure la contemplano come un eccellente procedimento per distinguersi nei salotti di società.
Sono fortemente attratto dalla bellezza. Quante volte ho desiderato comporre un romanzo che, come quelli di Flaubert, fosse composto da tele panoramiche...! Ma oggi, tra il rumore di un edificio sociale che ineluttabilmente crolla, non è possibile pensare ai ricami. Lo stile richiede tempo, e se io ascoltassi i consigli dei miei compagni, mi accadrebbe quello che succede ad alcuni di loro: scriverei un libro ogni dieci anni, per prendermi poi una vacanza di dieci anni per averci messo dieci anni a scrivere cento ragionevoli discrete paginette.
Altra cosa: altre persone si scandalizzano per la brutalità con cui esprimo certe situazioni perfettamente naturali a proposito dei rapporti tra i due sessi. Inoltre, queste stesse colonne portanti della società mi hanno parlato di James Joyce, roteando gli occhi. Derivava dal diletto spirituale che provocava in loro un certo personaggio di "Ulisse": un signore che si sazia più o meno aromaticamente aspirando con le narici, in un gabinetto, l'odore degli escrementi che ha defecato il minuto prima.
Ma James Joyce è inglese. James Joyce non è stato tradotto in spagnolo, ed è di buon gusto riempirsi la bocca parlando di lui. Il giorno che James Joyce sarà alla portata di tutte le borse, le colonne della società si inventeranno un nuovo idolo che sarà letto da una mezza dozzina di iniziati.
In realtà, non si sa che pensare della gente. Se sia idiota sul serio, o se prenda a cuore la rozza commedia che recita a tutte le ore del giorno e della notte.
In qualche modo, come primo provvedimento, mi sono deciso a non inviare nessuna mia opera alla sezione della critica letteraria dei giornali. A quale scopo? Perché un signore solenne e indaffarato, tra una telefonata e l'altra, scriva all'attenzione dell'onorata società:
“Il signor Roberto Arlt si ostina a restare ancorato ad un realismo di pessimo gusto, ecc., ecc.”?
No, no e no.
Sono passati questi tempi. Il futuro è nostro: per prepotenza di lavoro. Creeremo la nostra letteratura, non conversando continuamente di letteratura, ma scrivendo in orgogliosa solitudine libri che avranno la violenza di un "cross" portato alla mandibola. Sì, un libro dopo l'altro, e "che gli eunuchi sbuffino".
L'avvenire è trionfalmente nostro.
Ce lo siamo guadagnato col sudore dell'inchiostro e digrignando i denti, davanti all'“Underwood”, su cui battevamo con mani stanche, ora dopo ora, ora dopo ora. A volte la testa ci crollava dalla stanchezza, però... mentre scrivo queste righe, penso al mio prossimo romanzo. Si intitolerà "L'amore stregone" ed uscirà ad agosto del 1932.
E ora, la parola al futuro.

Roberto Arlt

Nessun commento:

Posta un commento