domenica 29 agosto 2010

In fondo in fondo

Il mio caro amico G. ha portato suo figlio, fin da quando questi era piccolo, nel maggior numero possibile di paesi, non per fargli vedere delle cose, che avrebbe potuto trovare tutte, seppur su scala ridotta, in Veneto, ma per fargli sentire quanto prima la maggior varietà possibile di suoni e significati. Ciò nonostante, G. ha sempre considerato i propri sforzi tanto necessari quanto vani, nella convinzione che suo figlio, come tutti, anche se si fosse aperto al mondo e se ne avesse apprezzato e rispettato le differenze, avrebbe pur sempre continuato intimamente a credere che l'unica vera lingua, il canone linguistico, la lingua con cui misurare le altre, in fin dei conti, in fondo in fondo, è sempre e solo una, il dialetto della Val d'Astico, le altre restando, nel migliore dei casi, delle varianti.

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J’ai toujours respecté les Italiens comme nos maîtres ; mais vous avouerez que vous avez fait de fort bons disciples. Presque toutes les langues de l’Europe ont des beautés et des défauts qui se compensent. Vous n’avez point les mélodieuses et nobles terminaisons des mots espagnols, qu’un heureux concours de voyelles et de consonnes rend si sonores : los rios, los hombres, las historias, las costumbres. Il vous manque aussi les diphtongues, qui, dans notre langue, font un effet si harmonieux : les rois, les empereurs, les exploits, les histoires. Vous nous reprochez nos e muets comme un son triste et sourd qui expire dans notre bouche ; mais c’est précisément dans ces e muets que consiste la grande harmonie de notre prose et de nos vers. Empire, couronne, diadème, flamme, tendresse, victoire ; toutes ces désinences heureuses laissent dans l’oreille un son qui subsiste encore après le mot prononcé, comme un clavecin qui résonne quand les doigts ne frappent plus les touches.
Avouez, monsieur, que la prodigieuse variété de toutes ces désinences peut avoir quelque avantage sur les cinq terminaisons de tous les mots de votre langue. Encore, de ces cinq terminaisons faut-il retrancher la dernière, car vous n’avez que sept ou huit mots qui se terminent en u; reste donc quatre sons, a, e, i, o, qui finissent tous les mots italiens.
Pensez-vous, de bonne foi, que l’oreille d’un étranger soit bien flattée, quand il lit, pour la première fois, 'l capitano che ‘l gran sepolcro libero di Cristo, e che molto opro col senno e con la mano? Croyez-vous que tous ces o soient bien agréables à une oreille qui n’y est pas accoutumée? Comparez à cette triste uniformité, si fatigante pour un étranger; comparez à cette sécheresse ces deux vers simples de Corneille :

Le destin se déclare, et nous venons d’entendre
Ce qu’il a résolu du beau-père et du gendre.

Vous voyez que chaque mot se termine différemment. Prononcez à present ces deux vers d'Homere :

Ex ou dai ta prôta diastetéin erisanté
Atréides té anax andrôn, kai dios Achilleis.


Qu'on prononce ces vers devant une jeune personne, soit anglaise ou allemande, qui aura l'oreille un peu délicate : elle donnera la préférence au grec, elle souffrira le français, elle sera un peu choquée de la répétition continuelle des desinences italiennes. C'est une expérience que j'ai faite plusieurs fois.

Voltaire, Lettre à Deodati de Tovazzi, 24 janvier 1761, pages 32-39


Ho sempre rispettato gli italiani come nostri maestri; ma confesserete che ne avete fatto dei bravissimi discepoli. Quasi tutte le lingue dell'Europa hanno delle bellezze e dei difetti che si compensano.
Voi non avete le melodiose e nobili terminazioni delle parole spagnole, che un felice concorso di vocali e consonanti rende così sonore: los rios, los hombres, las historias, los costumbres. Vi mancano anche i dittonghi, che, nella nostra lingua, fanno un effetto così armonioso: les rois, les empereurs, les exploits, les histoires. Voi ci rimproverate le nostre e mute, come un suono triste e sordo, che spira nella nostra bocca; ma è precisamente in queste e mute che consiste la grande armonia della nostra prosa e dei nostri versi. Empire, couronne, diadème, flamme, tendresse, victoire; tutte queste felici desinenze lasciano nell'orecchio un suono che sussiste ancora dopo la parola pronunciata, come un clavicembalo che risuona quando le dita non battono più sui tasti.
Confessate, signore, che la prodigiosa varietà di tutte queste desinenze può avere qualche vantaggio sulle cinque terminazioni di tutte le parole della vostra lingua. E ancora da queste cinque si deve togliere l'ultima, perché voi non avete che sette od otto parole che finiscono per u; restano, dunque, quattro suoni, a, e, i o, che terminano tutte le parole italiane.
Pensate voi, in buona fede, che l'orecchio di uno straniero sia ben lusingato, quando legge, per la prima volta:


. . . . . . . . . . . e ‘l Capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò col senno e con la mano?
(Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Canto I, vv. 1-3)

Credete voi che tutte queste o siano molto piacevoli ad un orecchio che non vi sia abituato? Paragonate a questa triste uniformità, così faticosa per uno straniero, paragonate a questa secchezza questi due semplici versi di Corneille:

Le destin se declare, et nous venons d'entendre
Ce qu'il a resolu du beau-père et du gendre.

(La Morte di Pompeo, atto I, scena 1)

Vedete che ogni parola termina diversamente. Pronunciate ora questi due versi di Omero:

Ex ou dè tà pròta diastéten erísante
Atréides te ánax andrón, kai díos Achilléus.

(Iliade, libro I, v. 6.)

Che si pronuncino questi versi davanti ad un giovane, sia inglese o tedesco, che abbia l'orecchio un po' delicato, egli preferirà il greco, soffrirà il francese, e sarà un po' urtato dalla ripetizione continua delle desinenze italiane. È un'esperienza che ho fatto più volte.

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There are ten parts of speech, and they are all troublesome. An average sentence, in a German newspaper, is a sublime and impressive curiosity; it occupies a quarter of a column; it contains all the ten parts of speech - not in regular order, but mixed; it is built mainly of compound words constructed by the writer on the spot, and not to be found in any dictionary - six or seven words compacted into one, without joint or seam - that is, without hyphens; it treats of fourteen or fifteen different subjects, each enclosed in a parenthesis of its own, with here and there extra parentheses which re-enclose three or four of the minor parentheses, making pens within pens; finally, all the parentheses and re-parentheses are massed together between a couple of king-parentheses, one of which is placed in the first line of the majestic sentence and the other in the middle of the last line of it - after which comes the VERB, and you find out for the first time what the man has been talking about; and after the verb - merely by way of ornament, as far as I can make out, - the writer shovels in "haben sind gewesen gehabt haben geworden sein," or words to that effect, and the monument is finished.
[...]
The Germans have another kind of parenthesis, which they make by splitting a verb in two and putting half of it at the beginning of an exciting chapter and the other half at the end of it. Can any one conceive of anything more confusing than that? These things are called "separable verbs". The German grammar is blistered all over with separable verbs; and the wider the two portions of one of them are spread apart, the better the author of the crime is pleased with his performance. A favorite one is reiste ab, - which means, departed. Here is an example which I culled from a novel and reduced to English:
"The trunks being now ready, he DE- after kissing the mother and sisters, and once more pressing to his bosom his adored Gretchen, who, dressed in simple white muslin, with a single tube-rose in the ample folds of her rich brown hair, had totere feebly down the stairs, still pale from the terror and excitement of the past evening, but longing to lay her poor aching head yet once again upon the breast of him whom she loved more dearly than life itself, PARTED."
However, it is not well to dwell too much on the separable verbs. One is sure to lose his temper early; and if he sticks to the subject, and will not be warned, it will at last either soften his brain or petrify it. Personal pronouns and adjectives are a fruitful nuisance in this language, and should have been left out. For instance, the same sound, sie, means you, and it means she, and it means her, and it means it, and it means they, and it means them. Think of the ragged poverty of a language which has to make one word do the work of six, - and a poor little weak thing of only three letters at that. But mainly, think of the exasperation of never knowing which of these meanings the speaker is trying to convey. This explains why, whenever a person says sie to me, I generally try to kill him, if a stranger.

Mark Twain, The awful German language, Manuscriptum Verlagsbuchhandlung, 2007


Ci sono dieci parti del discorso, e sono tutte fastidiose. Una frase media, in un quotidiano tedesco, è una curiosità sublime e straordinaria; occupa un quarto di una colonna; contiene tutte le dieci parti del discorso - non in ordine regolare, ma mischiato; è costituita principalmente da parole composte costruite dallo scrittore estemporaneamente, che non si trovano in alcun dizionario - sei o sette parole compattate in una, senza giunzione o saldatura - cioè senza tratto d'unione; tratta quattordici o quindici diversi argomenti, ciascuno racchiuso in una propria parentesi, con qua e là ulteriori parentesi che riracchiudono tre o quattro delle parentesi minori, facendo penne con penne; infine, tutte le parentesi e le riparentesi sono ammassate assieme tra una coppia di parentesi regine, una delle quali è posta nella prima riga della maestosa frase e l'altra nel mezzo della sua ultima riga - dopo di cui arriva il VERBO, e si scopre per la prima volta di cosa lo scrittore abbia parlato; e dopo il verbo - solo ad ornamento, per quanto ne possa capire - lo scrittore se ne esce con un "haben sind gewesen gehabt haben geworden sein" o con parole aventi lo stesso effetto, e il monumento è terminato.
[...]
I tedeschi hanno un altro tipo di parentesi, che costruiscono separando un verbo in due e mettendone la metà all'inizio di un emozionante capitolo e l'altra metà alla sua fine. Si può concepire qualcosa che confonda più di questo? Queste cose sono chiamate "verbi separabili". La grammatica tedesca è completemente ricoperta dalle pustole dei verbi separabili; e più le due parti sono poste a distanza, più l'autore del crimine è compiaciuto della propria prestazione. Una forma preferita è reiste ab - che significa partì. Ecco un esempio che ho tratto da un romanzo e reso in inglese:
"The trunks being now ready, he DE- after kissing the mother and sisters, and once more pressing to his bosom his adored Gretchen, who, dressed in simple white muslin, with a single tube-rose in the ample folds of her rich brown hair, had totere feebly down the stairs, still pale from the terror and excitement of the past evening, but longing to lay her poor aching head yet once again upon the breast of him whom she loved more dearly than life itself, PARTED."
Tuttavia, non è bene indugiare troppo sui verbi separabili. Si è sicuri di perdere le staffe presto; e se ci si attiene al soggetto senza ricevere precauzioni, il cervello o si rammollisce o si pietrifica. I pronomi personali e gli aggettivi sono una feconda seccatura in questa lingua e dovrebbero essere omessi. Ad esempio, lo stesso suono, sie, significa voi, e significa lei, e significa le, e significa esso, e significa essi, e significa loro. Pensate alla povertà cenciosa di una lingua che deve far fare ad una parola il lavoro di sei - e questo ad un piccolo, debole esserino di sole tre lettere. Ma soprattutto, pensate all'esasperazione di non sapere mai quali di questi significati l'interlocutore stia cercando di veicolare. Questo spiega perché ogni qual volta qualcuno mi dice sie, generalmente cerco di ucciderlo, se un estraneo.

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Die Franzosen, inklusive der Akademien, gehn mit der griechischen Sprache schändlich um: sie nehmen die Worte derselben herüber, um sie zu verunstalten: sie schreiben z. B. etiologie, esthétique usw.; während gerade nur im Französischen das ai so ausgesprochen wird wie im Griechischen; ferner bradype (Bradipus, Faultier), Œdipe, Andromaque u. dgl. mehr, d.h. sie schreiben die griechischen Wörter wie ein französchischer Bauernjunge, der sie aus fremdem Munde aufgeschnappt hätte, sie schreiben würde. Es würde doch recht artig lassen, wenn die französischen Gelehrten sich wenigstens so stellen wollten, als verständen se Grieschisch. Nun aber zugunsten eines so ekelhaften Jargons, wie der französische (dieses auf die widrigste Weise verdorbene Italienisch mit den langen, scheußlichen Endsilben und dem Nasal) an sich selbst genommen ist, die edle griechische Sprache frech verhunzen zu sehn ist ein Anblick, wie wenn die große westindische Spinne einen Kolibri oder eine Kröte einen Schmetterling frißt. Da nun die Herrn von der Akademie sich stets gegenseitig mon illustre confrère titulieren, welches durch den gegenseitigen Reflex besonders von weitem einen imposanten Effekt macht; so ersuche ich die illustres confrères; die Sache einmal in Überlegung zu nehmen - also entweder die griechische Sprache in Ruhe zu lassen und sich mit ihrem eigenen Jargon zu behelfen oder die griechischen Worte zu gebrauchen, ohne sie zu verhunzen; um so mehr, als man bei ihrer Verzerrung derselben oft viel Mühe hat, das dadurch ausgedrückte griechische Wort zu erraten und so den Sinn des Ausdrucks zu enträtseln. Hieher gehört auch das bei den französischen Gelehrten übliche höchst barbarische Zusammenschmelzen eines griechischen mit einem lateinischen Wort: Pomologie (Obstkunde). Dergleichen, meine illustres confrères, riecht nach Barbiergesellen. Berechtigt zu dieser Rüge bin ich vollkommen: denn die politischen Grenzen gelten in der Gelehrten-Republik sowenig wie in der physischen Geographie, und die der Sprachen sind nur für Unwissende vorhanden; Knoten aber sollen in derselben nicht geduldet werden.

Arthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena, 2bis



I francesi, incluse le accademie, trattano vergognosamente la lingua greca: ne estraggono le parole per rovinarle: scrivono ad es. etiologie, esthétique ecc., mentre è proprio solo in francese che ai viene pronunciato come in greco; inoltre, bradype (bradipo), Œdipe, Andromaque e altri simili termini, cioè trascrivono i termini greci come li scriverebbe un giovane villano francese che li avesse rimasticati da una bocca straniera. Sarebbe veramente bene se gli studiosi francesi volessero almeno far finta di capire il greco. Ora però è uno spettacolo da vedere quello di un gergo così ripugnante, come quello francese preso in se stesso (questo italiano corrotto nel peggiore dei modi con delle sillabe finali mostruose e nasali), che deturpa sfrontatamente la nobile lingua greca, uno spettacolo come quello del grande ragno delle Indie Occidentali che mangia un colibrì o quello del rospo che mangia una farfalla. E siccome i signori dell'Accademia si rivolgono sempre reciprocamente col titolo di mon illustre confrère, il che specialmente da lontano fa un imponente effetto grazie al riflesso reciproco, chiedo agli illustres confrères di prendere una buona volta la cosa in considerazione - insomma o di lasciare in pace la lingua greca e di accontentarsi del proprio gergo o di usare i termini greci senza deturparli; e ciò tanto più perché a causa della sua deformazione spesso ci si deve sforzare molto per indovinare una parola greca pronunciata da loro e così decifrarne il senso dell'espressione. A questo appartiene anche la barbarica fusione, così usuale presso gli studiosi francesi, di un termine greco con uno latino: pomologie (fruttologia). Cose simili, miei illustres confrères, sanno di lavoro da barbiere. Ho tutte le ragioni di muovere tale rimprovero, perché i confini politici nella Repubblica degli studiosi valgono ancora meno che nella geografia fisica, e quelli delle lingue esistono solo per gli ignoranti; gli zotici però, nella stessa Repubblica, non possono essere tollerati.


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Sarà probabilmente un caso, ma i poeti sembrano quelli in grado di prendere più spesso delle deviazioni dalla strada che conduce sempre e solo alla val d'Astico.

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In sheer number of words, English is far richer than Russian. This is especially noticeable in nouns and adjectives. A very bothersome feature that Russian presents is the dearth, vagueness, and clumsiness of technical terms. For example, the simple phrase "to park a car" comes out - if translated back from the Russian - as "to leave an automobile standing for a long time." Russian, at least polite Russian, is more formal than polite English. Thus, the Russian word for "sexual"- polovoy - is slightly indecent and not to be bandied around. The same applies to Russian terms rendering various anatomical and biological notions that are frequently and familiarly expressed in English conversation. On the other hand, there are words rendering certain nuances of motion and gesture and emotion in which Russian excels. Thus by changing the head of a verb, for which one may have a dozen different prefixes to choose from, one is able to make Russian express extremely fine shades of duration and intensity. English is, syntactically, an extremely flexible medium, but Russian can be given even more subtle twists and turns. Translating Russian into English is a little easier than translating English into Russian, and 10 times easier than translating English into French.

Vladimir Nabokov, Playboy, 1964, pages 10-23

In termini di puro numero di parole, l'inglese è di gran lunga più ricco del russo. Lo si può notare nei sostantivi e negli aggettivi. Una caratteristica molto fastidiosa che presenta il russo è la scarsità, la vaghezza e la goffaggine dei termini tecnici. Per esempio, la semplice frase "parcheggiare una macchina" diventa - se tradotta dal russo - qualcosa come "lasciar stare un'automobile per molto tempo". Il russo, almeno il russo raffinato, è più formale dell'inglese raffinato. Così, la parola russa "sessuale"- polovoy - è leggermente indecente e non va pronunciata a caso. Lo stesso vale per i termini russi che rendono varie nozioni anatomiche e biologiche espresse di frequente e familiarmente nella conversazione in inglese. D'altro canto, ci sono parole che restituiscono certe sfumature di moto, azione ed emozione in cui il russo eccelle. Così, cambiando il prefisso di un verbo tra le decine di prefissi a disposizione, si può far esprimere al russo gradazioni molto fini di durata e intensità. L'inglese, dal punto di vista sintattico, è un mezzo estremamente flessibile, ma si può sottoporre il russo a torsioni e giravolte ancora più sottili. Tradurre il russo in inglese è un po' più semplice che tradurre l'inglese in russo, e 10 volte più semplice che tradurre l'inglese in francese.

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Tra i poeti, ve ne sono che ad una o più lingue straniere hanno dedicato direttamente una poesia.

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Al idioma alemán

Mi destino es la lengua castellana,
El bronce de Francisco de Quevedo,
Pero en la lenta noche caminada,
Me exaltan otras músicas más íntimas.
Alguna me fue dada por la sangre-
Oh voz de Shakespeare y de la Escritura-,
Otras por el azar, que es dadivoso,
Pero a ti, dulce lengua de Alemania,
Te he elegido y buscado, solitario.
A través de vigilias y gramáticas,
De la jungla de las declinaciones,
Del diccionario, que no acierta nunca
Con el matiz preciso, fui acercándome.
Mis noches están llenas de Virgilio,
Dije una vez; también pude haber dicho
de Hölderlin y de Angelus Silesius.
Heine me dio sus altos ruiseñores;
Goethe, la suerte de un amor tardío,
A la vez indulgente y mercenario;
Keller, la rosa que una mano deja
En la mano de un muerto que la amaba
Y que nunca sabrá si es blanca o roja.
Tú, lengua de Alemania, eres tu obra
Capital: el amor entrelazado
de las voces compuestas, las vocales
Abiertas, los sonidos que permiten
El estudioso hexámetro del griego
Y tu rumor de selvas y de noches.
Te tuve alguna vez. Hoy, en la linde
De los años cansados, te diviso
Lejana como el álgebra y la luna.

Jorge Luis Borges

Alla lingua tedesca

Il mio destino è la lingua spagnola,
Il bronzo di Francisco de Quevedo,
Ma nella lenta notte camminata,
Mi esaltano altre musiche più intime.
Una mi è stata data dal sangue –
Oh voce di Shakespeare e della Scrittura! –,
Altre dal caso, che è generoso,
Ma te, dolce lingua di Germania,
Ti ho scelta io e cercata, solitario.
Attraverso veglie e grammatiche,
La giungla delle declinazioni,
Col dizionario, che non accerta mai
La sfumatura precisa, mi sono avvicinato.
Le mie notti sono piene di Virgilio,
Ho detto una volta; avrei anche potuto dire
Di Hölderlin e di Angelus Silesius.
Heine mi ha dato i suoi alti usignoli;
Goethe, la sorte di un amore tardivo,
al contempo indulgente e mercenario;
Keller, la rosa che una mano lascia
Nella mano di un morto che l'amava
E che non saprà mai se è bianca o rossa.
Tu, lingua di Germania, sei la tua opera
Capitale: l'amore intrecciato
Delle voci composte, le vocali
Aperte, i suoni che permettono
Lo studioso esametro del greco
E il tuo rumore di selve e di notti.
Ti ho avuta qualche volta. Oggi, al confine
Degli anni affaticati, ti scorgo
Lontana come l'algebra e la luna.

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Se posso esprimere il mio pensiero in modo forse leggermente succinto, ma sicuramente sincero, a me piacciono tutte, le lingue, incluse quelle che non conosco e che non conoscerò mai. Se poi posso anche azzardare, e qui si può fare, non appartengo a coloro che credono in una Ursprache, in una lingua primigenia, se non altro perché mi piace pensare che la sera del giorno stesso in cui il primo uomo ha pronunciato la prima parola, in quella fase precedente al sonno in cui, coricati, si lasciano vagare i propri pensieri, abbia provato subito a cambiarla, variarla e deformarla, insomma, a giocarci.

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Gioachino Rossini, Inno tedesco et al., Il viaggio a Reims, 1825 (libretto)

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