Una poesia di Claudio Grisancich fa così:
dove mai un strassio cussì, omini?
Non so bene come riuscire a spiegare chiaramente un paio di cose, ma ci provo lo stesso. In queste sei parole triestine, di cui fornirò, quale rigorosa, completa traduzione in italiano, un passaggio offerto da un inconsapevole Meneghello, si trovano esemplificati ben due elementi che tendo sempre a ravvisare nella poesia (e nell'arte in genere).
Il primo elemento è l'addensarsi, il concentrarsi del senso di un testo (o di una rappresentazione figurativa della realtà) - almeno quando un testo arriva ad esprimere qualcosa, ché non sempre ci si riesce - in un punto o in pochissimi punti, in una parola, in un tratto di pennello, in un colpo di scalpello, in un piccolo oggetto colto in un grande paesaggio catturato da una fotografia, ecc. Nella poesia di Grisancich, i punti sono chiaramente due: strassio (strazio) e omini (uomini).
Il secondo elemento è il significato di queste due parole-punti di addensamento o concentrazione: sia strassio sia omini non corrispondono esattamente a quelli che sembrano essere i diretti termini equivalenti italiani (lo scarto si avverte benissimo, se si legge il verso ad alta voce: provateci). Entrambi i termini dialettali sfumano la gravità di un vero strazio e quella dell'essere uomini verso qualcosa di più lieve, che non solo ne smorza la potenziale intensità di significato, ma introduce anche un ulteriore elemento: un'autocritica ironica. Se si legge il verso di Grisancich più volte - sempre, rigorosamente, ad alta voce - strassio e omini possono sfiorare addirittura il ridicolo, senza, però, mai raggiungerlo.
Ed ora, siccome "dove mai uno strazio così, uomini?" sarebbe lontanissimo dall'esprimere il senso del verso dialettale, eccone la sola possibile traduzione in italiano che mi sento di dare.
dove mai un strassio cussì, omini?
Non so bene come riuscire a spiegare chiaramente un paio di cose, ma ci provo lo stesso. In queste sei parole triestine, di cui fornirò, quale rigorosa, completa traduzione in italiano, un passaggio offerto da un inconsapevole Meneghello, si trovano esemplificati ben due elementi che tendo sempre a ravvisare nella poesia (e nell'arte in genere).
Il primo elemento è l'addensarsi, il concentrarsi del senso di un testo (o di una rappresentazione figurativa della realtà) - almeno quando un testo arriva ad esprimere qualcosa, ché non sempre ci si riesce - in un punto o in pochissimi punti, in una parola, in un tratto di pennello, in un colpo di scalpello, in un piccolo oggetto colto in un grande paesaggio catturato da una fotografia, ecc. Nella poesia di Grisancich, i punti sono chiaramente due: strassio (strazio) e omini (uomini).
Il secondo elemento è il significato di queste due parole-punti di addensamento o concentrazione: sia strassio sia omini non corrispondono esattamente a quelli che sembrano essere i diretti termini equivalenti italiani (lo scarto si avverte benissimo, se si legge il verso ad alta voce: provateci). Entrambi i termini dialettali sfumano la gravità di un vero strazio e quella dell'essere uomini verso qualcosa di più lieve, che non solo ne smorza la potenziale intensità di significato, ma introduce anche un ulteriore elemento: un'autocritica ironica. Se si legge il verso di Grisancich più volte - sempre, rigorosamente, ad alta voce - strassio e omini possono sfiorare addirittura il ridicolo, senza, però, mai raggiungerlo.
Ed ora, siccome "dove mai uno strazio così, uomini?" sarebbe lontanissimo dall'esprimere il senso del verso dialettale, eccone la sola possibile traduzione in italiano che mi sento di dare.
Un giorno in Corso mi venne incontro Bene, gesticolando. "C'è un grande scrittore che si chiama Cacca!" mi disse. "Col cappa, boemo, mi pare... Kakka o Kaska, un nome così... credo che sia morto.... Una mattina diventa una bestia, una specie di blatta. Grandissimo."
Ci sembrava ovvio che una nostra letteratura moderna nazionale non c'era. Questa impressione durò vari anni. I pochi libri seri, quello di Carlo Levi sulla Lucania, le lettere di Gramsci prigioniero, pareva che appartenessero in fondo al nostro recente passato, quasi letteratura fascista in senso largo: mentre Piovene, Brancati, Moravia, erano letteratura fascista in senso più stretto, i frutti di quell'età. Il primo libro di pregio che parve veramente nuovo venne una dozzina di anni dopo la guerra, era una favola briosa, colta, pungente, un nobiluomo arrampicato sugli alberi. Franco era un po' seccato. "Ti domando io" mi disse "se è il momento di occuparsi di queste raffinatezze." Ma naturalmente sapeva anche lui che il libro era bello, e serio.
Il racconto del 1944 era stato per me La montagna incantata, quello del 1945 fu Il processo. Lessi anche Il castello, ma solo uno dei due sarebbe bastato. In seguito, nel corso dei decenni, lessi anche altre cose di Franz Kafka, sempre che l'impressione che la potenza di quella lettura iniziale rendeva superfluo il resto. Mentre il mondo di Thomas Mann, di Davos, con quella gente impellicciata, garbatamente emblematica, aveva fatto da sfondo alla scena della guerra civile, ora sullo sfondo c'erano gli interni angosciati di Praga.
Con Franco avevamo sempre avuto in sospetto le prose dolenti dei filosofi dell'angoscia, non perché non credessimo all'angoscia in astratto (io almeno: lui, non potrei giurare), ma perché credevamo poco agli angosciati. In filobus a Padova, un giorno che io e Franco appesi alle maniglie nel corridoio centrale stavamo parlando di questi angosciati, Franco mi disse trasognatamente: "No se capisse cossa ch'i gai..." (non si capisce cosa abbiano) e si mise a mimare la loro condizione. Io immediatamente copiai, ci contorcevamo vistosamente tenendoci aggrappati alle maniglie, facevamo le facce straziate. con fiochi lamenti: "Ohi, ohi, ohi", e la gente diceva: "Studenti, hanno buon tempo...". Io me ne intendevo - idealmente - di angosce classiche e drammatiche: quelle collegate con le grane serie, restare intrappolato sotto un gran mucchio di morti, oppure anche essere una vecchia ratatinée, magari negra, a Parigi, ovviamente molto spaesata. Le disgrazie individuali possono riuscire noiosissime, ma in senso generale la vita non mi pareva affatto uno schema angoscioso, anzi il suo andamento complessivo puntava nella direzione opposta a quella dell'angoscia. Sto descrivendo non delle riflessioni esplicite ma ciò che doveva esserci allora in fondo al mio animo, ciò che si sarebbe osservato addentrandosi nelle camere interne dove queste sequenze di pensieri, se sono pensieri, le stanghe con questi salami, stavano appese... Insomma che ci fossero in giro certe angosce naturali non avevo mai dubitato: ma c'entrava veramente il destino?
L'angoscia di Praga era un'altra cosa, assurda e ovviamente fondatissima. Il primo effetto che faceva era che ti veniva voglia di scappare a nasconderti. Subentrava la certezza che non servirebbe. Nulla di ciò che avevo letto mi aveva mai dato così fortemente il senso di un destino schiacciante. La roba greca non mi era mai parso il caso di prenderla del tutto sul serio: lì, si accecavano un po' troppo impulsivamente, e poi quell'interesse malsano per il pollaio dei rapporti familiari meno decenti, quella voglia di stuprare o evirare o sgozzare i figli, i genitori, gli zii, i cognati, e quella mania di tagliare a pezzetti la gente e poi mangiarla o farla mangiare agli altri...
A Praga c'era invece una micidiale combinazione di normalità e raccapriccio. Un impiegato dava uno strappo a una tenda, e in uno squarcio del muro si profilava un quadro di leve e di ingranaggi molto maligni, una specie di grottesco ordigno di tortura, che era poi l'impalcatura della vita ordinaria...
Solo molto più tardi mi misi a considerare i grandi libri di Kafka nel contesto storico della vita europea del nostro secolo. È ovvio che non vanno trattati soltanto come documenti, o banali profezie. Ma visti sotto il profilo di ciò a cui preludono, come prefigurazioni di eventi che poi effettivamente accaddero, è altrettanto ovvio che sono terribili libri profetici, in cui tutta la nostra oscena storia europea degli anni Trenta e Quaranta è rivissuta in anticipo.
Un giorno venne in visita a Reading, pochi mesi dopo la fuga da Praga, un illustre letterato e critico boemo, autore di studi specialistici su Kafka, al quale, chiaccherando, parlai con un certo riguardo ma eagerly di questo stupefacente e spaventoso aspetto del suo autore. Non l'avessi mai fatto! "Ah, no sa" mi disse quell'illustre specialista (parlavamo in inglese): e mi spiegò che Kafka non era un profeta, perché qua e perché là... E mi resi conto che da un lato non capiva la cosa semplicissima e palmare che dicevo io, credeva che scambiassi Kafka per uno che letteralmente faceva le proiezioni e le profezie, come Orwell per esempio; dall'altro aveva paura in termini personali, temeva di poter essere confuso lui con Orwell o con Kafka, e di veder bruciate un po' troppo radicalmente le barchette (fluviali, o a ruote) che aspettavano di riportare la gente a Praga, e aspettano ancora.
Luigi Meneghello, Bau-sète!, Bompiani, 1996
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