Nel 51 a.C., Memmio (cui Lucrezio aveva dedicato il De rerum natura) intende costruire ad Atene una casa sulle rovine della casa di Epicuro; un certo Patrone Epicureo insiste con Cicerone perché interceda presso Memmio, affinché questi lasci a lui l’onore di conservare la reliquia. Cicerone (ad fam. 13.1), nella sua sprezzante stupidità, deride che si voglia conservare «non so quale catapecchia di Epicuro» (nescio quid illud Epicuri parietinarium), e mette in ridicolo l’enfasi che Patrone attribuisce a questo compito (honorem, officium, testamentorum ius, Epicuri auctoritatem, Phaedri obtestationem, sedem, domicilium, vestigia summorum hominum sibi tuenda esse dicit). A distanza di duemila anni, questo sconosciuto epicureo romano di cui nulla sappiamo ci trasmette, attraverso il filtro deformante del suo ampolloso e disprezzabile detrattore, una delle principali qualità dell’epicureismo, che doveva essere l’arte della venerazione. Quando la persona cui devi tutto è morta, e tanto più se, come in questo caso, la dottrina impone di credere che nulla di lui sopravviva alla morte, non esiste altra via per manifestare la propria gratitudine che occuparsi delle reliquie, anche insignificanti, che hanno riguardato quella persona: la sua abitazione, gli oggetti materiali, ma anche la ricerca di notizie biografiche irrilevanti, lo studio di dettagli minuziosi e quotidiani. Questa arte della venerazione si conserva nei settori migliori della ricerca letteraria. E’ facile prendere in giro chi dedica energie straordinarie di assidua ricerca per decidere se, in un quasiasi giorno del secolo scorso, Proust era uscito in anticipo per la sua passeggiata pomeridiana oppure no. Ma l’attenzione a questi particolari è solo una forma di gratitudine, altrimenti impossibile, verso l’autore, un modo per ringraziarlo di avere scritto quello che ha scritto, quasi per dire: tu vali tanto per me, che io giudico degno anche occuparmi delle stringhe delle tue scarpe.
domenica 15 gennaio 2012
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