sabato 21 gennaio 2012

Il narratore che sognava di essere poeta

Per me, l'ha fatto apposta, a morire ora. Vincenzo Consolo avrebbe voluto essere poeta, ma è stato un narratore, ed è per questo che deve aver messo il punto finale alla sua narrazione adesso, prima di addentrarsi troppo in questo nuovo anno.
Consolo riempiva le sue narrazioni (così chiamava i propri romanzi, lo scrivo tra parentesi come se lo dicessi sottovoce) di versi, vi inseriva rimandi a Leopardi e Pascoli, oppure richiami ad una fresca lingua antichissima o popolare (il che è lo stesso). Niente lirismo, nei suoi scritti, anzi, ma molti segnali che hanno lasciato testimonianza non solo di passione civile, ma anche di una nostalgia per una poesia sognata, vagheggiata e mai scritta, come le scritte dei carcerati ne Il sorriso dell'ignoto marinaio, ciascuna riportata a tutta pagina, in un capitolo a parte, a voler farne emergere più distintamente gli involontari versi:

TUBAUT E CUTIEU
MART A TUCC I RICCH
U PAUVR SCLAMA
AU FAUN DI TANT ABISS
TERRA PAN
L'ORIGINAU E DAA
LA FAM SANZA FIN
          DI
              LIBERTAA

lupara e coltello/morte a tutti i ricchi/il povero esclama/al fondo di tanto abisso/terra pane/l'origine è là/la fame senza fine/di/libertà.
A me pare che Consolo abbia voluto andarsene ora. Il vero silenzio non era, per lui, il sottrarsi di parole generiche, ma il silenzio della parola poetica: "l'inespresso, l'ermetico assoluto, il poema mai scritto, il verso mai detto" scriveva in Nottetempo, casa per casa. Ecco perché ora: la sua morte è l'espressione concreta - oh, se amava la concretezza - della sua ultima ode alla poesia, l'ode che non ha mai scritto, ma realizzato, l'ultimo dei suoi omaggi ai poeti, come quello che ha affidato ai suoi personaggi, allo scrittore Gioacchino Martinez ne Lo spasimo di Palermo, per esempio, in cui è chiaro a quale poeta pensasse, ad Andrea Zanzotto:
Aborriva il romanzo, questo genere scaduto, corrotto, impraticabile. Se mai ne aveva scritti, erano i suoi in una diversa lingua, dissonante, in una furia verbale ch'era finita in urlo, s'era dissolta nel silenzio. Si doleva di non avere il dono della poesia, la sua libertà, la sua purezza, la sua distanza dall'implacabile logica del mondo. Invidiava i poeti, e maggiormente il veneto rinchiuso nella solitudine di una pieve saccheggiata - tutt'ossa del Montello questo mondo - "Le tue egloghe, amico, il tuo paesaggio avvelenato, il metallo del cielo che vi grava, la puella pallidula vagante, la tua lingua prima balbettante e la seconda ancor più ardua, scoscesa..." questo cominciava a dirgli, pensandolo da quella sua sponda d'un antico Mediterraneo devastato.
Per me, ha fatto apposta a seguirlo.

4 commenti:

  1. Sono stato amico di Vincenzo Consolo. Ho letto e ammirato come te i suoi libri e il suo modo di scrivere. Conosco meno bene Zanzotto ma, con le tue acute osservazioni, mi hai stimolato a leggerlo tutto.
    Complimenti per il tuo splendido blog che ho scoperto pochi giorni fa.

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  2. Grazie, Francesco, sei gentile. Quando mi capita, come oggi, di avere un riscontro così, mi dico che vale la pena di continuare a lasciare tracce, anche se - come mi ha detto un amico di recente - qui tendo a nascondermi dietro parole e pensieri altrui. A me non sembra di nascondermi, in realtà: il tentativo sarebbe quello di penetrare più a fondo possibile in alcuni pensieri con l'ausilio di quelli altrui, ma accetto che la percezione di chi legge, tanto più da chi mi conosce di persona, possa essere diversa.

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  3. Cara Francesca,
    ieri, leggendo la prefazione di Vincenzo Consolo ad una raccolta di scritti di un autodidatta di Alcara Li Fusi, Giuseppe Stazzone, ho trovato una conferma ulteriore della profonda ammirazione che lo scrittore siciliano provava nei confronti di Andrea Zanzotto.

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