martedì 10 gennaio 2012

Alla finestra per parrocchetto

Ni aquella tarde ni la otra murió el ilustre Giambattista Marino, que las bocas unánimes de la Fama (para usar una imagen que le fue cara) proclamaron el nuevo Homero y el nuevo Dante, pero el hecho inmóvil y silencioso que entonces ocurrió fue en verdad el último de su vida. Colmado de años y de gloria, el hombre se moría en un vasto lecho español de columnas labradas. Nada cuesta imaginar a unos pasos un sereno balcón que mira al poniente y, más abajo, mármoles y laureles y un jardín que duplica sus graderías en un agua rectangular. Una mujer ha puesto en una copa una rosa amarilla; el hombre murmura los versos inevitables que a él mismo, para hablar con sinceridad, ya lo hastían un poco:

Púrpura del jardín, pompa del prado,
gema de primavera, ojo de abril...

Entonces ocurrió la revelación. Marino vio la rosa, como Adán cuando pudo verla en el Paraíso, y sintió que ella estaba en su eternidad y no en sus palabras y que podemos mencionar o aludir pero no expresar y que los altos y soberbios volúmenes que formaban en un ángulo de la sala una penumbra de oro no eran (como su vanidad soñó) un espejo del mundo, sino una cosa más agregada al mundo.

Esta iluminación alcanzó Marino en la víspera de su muerte, y Homero y Dante acaso la alcanzaron también.
Jorge Luis Borges, El hacedor, 1960


Leonardo Olschki ha sostenuto che, in seguito alla Controriforma, la musica divenne la sola manifestazione libera ed autonoma della vita artistica del popolo italiano. Se ci fosse un banchetto dove sottoscriverlo, lo farei di corsa, anche adesso. Il barocco, che della Controriforma è figlio diretto, profondendo, come ha profuso, molta della sua energia nella musica, ha di pari passo svuotato il senso della parola, anche della parola poetica, l'ha resa contenitore vuoto, umiliandola fino allo stato di simulacro od orpello. Da quello svuotamento, se si pensa alla concretezza e alla sonorità (e al magnifico sguardo infantile, anche) della poesia e della prosa anteriori e le si confronta con quelle posteriori al barocco, l'italiano non si è mai completamente ripreso. Il principe della poesia barocca italiana (dove italiana, in questo contesto, è pleonasmo) è Giovan Battista Marino, un poeta agli antipodi del mio modo di sentire: nell'irripetibile periodo in cui non avevo ancora varcato la soglia della lingua francese ed avevo appena traslocato dal tedesco, è stato a Guillevic che mi sono naturalmente rivolta per cominciare ad abitare il francese, ovvero per la necessità di tinteggiare le nuove pareti di casa con un colore che me la facesse sentire accogliente. Questo, tanto per dare rapidamente una misura della distanza che ci separa. Marino è anche letteralmente agli antipodi del cliché del poeta povero e misconosciuto in vita, letto, al più, solo postumamente. Nessuna delle ragioni della sua distanza da me sono sufficienti perché me ne possa comodamente dimenticare, come se non fosse un mio parente, per quanto lontano e non amato: lo è ed è pure un parente che ha avuto dei figli, sia per stile sia per senso degli affari. Ne riporto non una poesia, ma una lettera a Don Lorenzo Scoto, che la mia tastiera, da quando ne ho trovato un estratto in Fernand Braudel, Le modèle italien, Flammarion, 1994, non è riuscita, in questa come in altre occasioni, a contenere: ma, si sa, la mia tastiera è debole e volentieri si piega agli istinti più biechi. E non solo per una questione di memoria, ma anche perché, per più di qualche anno, grazie a Marie de Médicis, riuscimmo abilmente a liberarcene e ad appiopparlo ai francesi, che venerarono le Chevalier Marin, e, non da ultimo, perché nel suo sbeffeggiare l'altro da sé - altro prodotto nazionale, anche se molto meno esportato del barocco, segno di impotenza e di insicurezza - non risparmiò se stesso.
Vi do avviso che sono in Parigi, dove lasciando a voi altri Piemontesi il vaire, il necio ed il mideccò, mi son dato tutto tutto al linguaggio francioso, del quale però altro fin qui non ho imparato che Ouy e Nanì ; ma né anco questo mi par poco ; poiché quanto si può dire al mondo consiste tutto in affermativa e negativa.
Circa il paese, che debbo io dirvi? Vi dirò ch'egli è un Mondo. Un Mondo, dico, non tanto per la grandezza, per la gente e per la varietà, quanto perch'egli è mirabile per le sue stravaganze. Le stravaganze fanno bello il Mondo, perciocché, essendo composto di contrari, questa contrarietà constituisce una lega che lo mantiene. Né più né meno la Francia è tutta piena di ripugnanze e di sproporzioni, le quali però formano una discordia concorde, che la conserva. Costumi bizzarri, furie terribili, mutazioni continue, guerre civili, perpetue, disordini senza regola, estremi senza mezzo, scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni : cose in somma che la dovrebbono distruggere, per miracolo la tengono in piedi. Un mondo veramente, anzi un mondaccio più stravagante del mondo istesso.
Incominciate prima dalla maniera del vivere ; ogni cosa va alla rovescia. Qui gli uomini son donne e le donne sono uomini ; intendetemi sanamente. Voglio dire, che quelle hanno cura del governo della casa, e questi si usurpano tutti i lor ricami e tutte le lor pompe. Le Dame studiano la pallidezza e quasi tutte paiono quattriduane. Per esser tenute più belle, sogliono mettersi de gli impiastri e dei bullettini in sul viso. Si spruzzano le chiome di certa polvere di zanni, che le fa diventar canute, talché da principio io stimava che tutte fossero vecchie.
Veniamo al vestire. Usano di portare attorno certi cerchi di botte a guisa di pergole, che si chiaman verdugati. Invenzione ritrovata (credo) per parto di vanagloria ; acciochè la Signora di Valpelosa ed il Signor conte di Monte ritondo se ne stiano con maggior riputazione sotto l'ombrella. Questo quanto alle donne. Gli uomini in su le freddure maggiori del verno vanno in camicia. Ma vi ha un'altra stravaganza più bella, che alcuni sotto la camicia portano il farsetto : guardate che nuova foggia d'ipocrisia cortigiana. Portano la schiena aperta d'una gran fessura d'alto a basso, appunte come le tinche, che si spaccano per le spalle. I manichini sono più lunghi delle maniche ; onde rovesciandoli su le braccia, par che la camicia venga a ricoprire il giubbone. Hanno per costume d'andar sempre stivalati e speronati e questa è una delle stravaganze notabili ; perchè tal vi è che non ebbe mai cavallo in sua stalla, né cavalcò in sua vita e tuttavia va in arnese di cavallerizzo. Né per altra cagione penso io che costoro sian chiamati Galli, se non perchè, appunto come tanti galletti, hanno a tutte le ore gli speroni ai piedi con certi stivaletti, cavati dalla forma di quelli di Margutte ; e d'avantaggio sopra gli stivali calzano le pianelle. Ma in quanto a me più tosto che Galli, dovrebbono esser detti Pappagalli ; poiché se ben la maggior parte quanto alla Cappa ed alle calze vestono di scarlatto, sì che paiono tanti cardinali, il resto è poi di più colori, che non sono le tavolozze dei dipintori. Pennacchiere lunghe come code di volpi ; e sopra la testa tengono una altra testa posticcia con capelli contrafatti e si chiama Parrucca ; onde a chi n'afferrasse uno per lo ciuffetto interverrebbe quello che intervenne al Satiro con Corisca.
Che ne dite, Don Lorenzo? Anch'io per non uscir dall'usanza sono stato costretto a pigliare i medesimi abiti. Dio, se voi mi vedeste impacciato tra queste spoglie da Mamalucco, so che vi darei da ridere per un pezzo. In primis la punta della pancia del mio giubbone, passando per sotto i campanelli, confina con le natiche. Il diametro della larghezza e della profondità delle mie brache nol saprebbe pigliare Euclide. Per ritrovar la traccia della brachetta vi bisognerebbe un bracco da quaglie, overo spedire un commissario delegato e farvi la perquisizione della Vicaria di Napoli. Fortificate poi di stringhe a quattro doppi, talché, se per maledetta disgrazia mi assaltassero le furie della cacarella, prima che io mi fossi dislacciato, il Prior di Culabria avrebbe fatto il corso suo. Due pezze intiere di zendado sono andate a farmi un paio di legami, che mi vanno sbatacchiando pendoloni fino a mezza gamba con la musica del tif, taf.
L'inventor di questi collari ebbe più sottile ingegno di colui che fece il pertugio all'ago. Sono edificati con architettura dorica ed hanno il suo contraforte e il rivellino attorno, giusti, tesi, dritti, tirati a livello, ma bisogna far conto di aver la testa dentro un bacino di maiolica e di tener sempre il collo incollato, come se fosse di stucco. Calzo certe scarpe che paiono quelle di Enea, secondo che io lo vidi dipinto nelle figure d'un mio Vergilio vecchio in tabellis ; né per farle entrare bisogna molto affaticarsi a sbattere il piede, poi che hanno d'ambedue i lati l'apertura sì sbrandellata che mi convien quasi strascinar gli scarpini per terra. Per fettuccie hanno su certi rosoni, o vogliam dire cavoli cappucci, che mi fanno i piedi pelliciutti, come hanno i piccioni casarecci. Sono scarpe o zoccoli insieme insieme e le suole hanno uno scanetto sotto il tallone, por lo quale potrebbono pretendere dell'Altezza, sì che mi potreste dire scabellum pedum tuorum. Paio poi Cibele con la testa turrita, perché porto un cappellaccio lionbrunesco che farebbe ombra a Morocco, più aguzzo della guglia di Sammoguto. Infine tutte le cose qui hanno dell'appontutto : i cappelli, i giubboni, le scarpe, le barbe, i cervelli, infino i tetti delle case. Si possono immaginare stravaganze maggiori?
Vanno i cavalieri tutto il giorno e la notte permenandosi (come si dice qui l'andare a spasso) ; per ogni mosca che passa, le disfide e i duelli volano. Quel ch'è peggio, usan di chiamar per secondi eziandio coloro che non conoscono (eccovi un'altra stravaganza), e chi non vi va è svergognato per poltrone ; onde io tutto mi caco di non avere un giorno ad entrare in steccato per onore e morirmi per minchioneria. Le cerimonie ordinarie tra gli amici son tante e i complimenti son tali che, per arrivare a saper fare una riverenza, bisogna andare alla scuola della danza ad imparar le capriole, perché ci va un balletto prima che s'incominci a parlare.
Le signore non fanno scrupolo di lasciarsi baciare in publico ; e si tratta con tanta libertà che ogni pastore può dire alla sua ninfa comodamente il fatto suo. Circa il resto, per tutto non si vede che giuochi, conviti, festini ; e con balletti e con banchetti continovi si fa gozzoviglia e, come dicono essi, “buona cera”. Vi si ammazzano più bestie in un giorno che la natura non ne produce in un anno, e vi si divora più carne che non n'hanno i macelli di carnevale. Chi nega l'intelligenza e chi non vuol conceder il moto perpetuo, venga qui a mirar per ogni bettola girandole ricamate di polli e spedonate d'arrosti, che, mosse da virtù invisibile, non cessan mai di voltarsi appresso al fuoco. L'acqua si vende e gli speziali tengono bottega di castagne, di cappari, di formaggio e di caviaro. Di frutti (questo sì) ce n'è più dovizia che di creanza in tinello : chi volesse parlar di uve, di fichi o poponi, avrebbe mille torti. Il teschio dell'asino nell'assedio di Gierusalemme fu venduto a miglior mercato, che qui non costa un limone o una melangola. Si fa gran guasto di vino, e per tutti i cantoni, ad ogni momento, si vede trafficar la bottiglia.
La nobiltà è splendida, ma la plebe è tinta in berettino ; bisogna sopra tutto guardarsi dalla furia dei signori lacchè, creature anch'esse stravagantissime e insolenti di sette cotte. Io ho opinione che costoro siano una specie di gente differente da gli altri uomini, verbigratia come i Satiri ed i Fauni. Hanno una Republica a parte e l'autorità loro non cede punto a quella dei lor padroni. In segno della lor Monarchia portano tutti lo scettro in mano. Vanno in volta per la città a guisa di tanti Ercoli Clavigeri con certi bastonacci di libra, né crediate che passeggino i cavalli d'Ambio ; urtano da per entro il fango con disertazione salvatica, smaltando di zacchere le veste dei gentil uomini, e chi l'ha per male scingasi. Ma la pratica di costoro è pericolosa non tanto ai panni, quanto alle borse, alle quali si vuol avere diligente cura, percioche hanno le ugne lunghe uncinate più che i Girifalchi.
Dove lascio la seccagine dei Pitocchi? O che zanzare fastidiose! e a discacciarle vi vuol altro che la rosta o l'acqua bollita. E vi è tanti di questi furfantoni che accattono per le chiese e per le strade con tanta importunità, che sono insopportabili. Dei carrettoni non parlo, che martorizzando del continuo le povere bestie vanno di su e di giù con un fracasso, che par che vada il mondo a sacco. E i carrettieri hanno un certo lor linguaggio cavallino con alcune interiezioni si fatte, che quando gridano, i cavalli gli intendono.
Tutto questo è nulla rispetto alle stravaganze del clima, che conformandosi all'umore degli abitanti non ha giammai fermezza né stabilità. Le quattro stagioni quattro volte al giorno scambiano vicende e per ciò fa di mestieri, che ciascuno sia fornito di quattro mantelli per potergli mutare a ciascun ora, un da pioggia, un da grandine, un da vento ed un da sole. Ma l'importanza sta che qui il sole va sempre in maschera, per imitar forse le damigelle, che costumano anch'elle di andar mascherate. Quando piove è il miglior tempo che faccia, perché allora si lavano le strade ; in altri tempi la broda a la mostarda vi baciano le mani : ed è una diavol di malta più attaccaticcia e tenace che non è il male dei suoi bordelli : dissi male a dir bordello, perché non ci è bordello ; nondimeno (questa è una delle stravaganze principali) per tutto se ne ritrova. In su 'l capo del ponte nuovo, dove sta l'orologio, che suona le ore o il contrapunto, hanno messa in frontespicio eminente la statua della Samaritana, forse (dicono alcuni) per ammaestrar le femine con quel pubblico esempio a non aver ciascuna cinque mariti.
Volete voi altro? In fine il parlare è pieno di stravaganze. L'oro si appella argento. Il far colazione si dice digiunare. Le città son dette Ville, i Medici, i medicini. I vescovi, vecchi. Le puttane, garze. I ruffiani, maccheroni. Il brodo, un Buglione, come se fussero della schiatta di Goffredo. Un buso significa un pezzo di legno. Avere una bota in su la gamba, vuol dire uno stivale. Ultimamente quella faccenda per cui si consuma la roba e la vita si chiama Vitto. Ma tra le stravaganze maggiori fuettere val tanto, quanto dar delle sferzate. Eccovi fatto un sommario delle qualità della Terra e delle usanze di questa Nazione. Di mano in mano vi darò poi delle altre novelle. Apparecchiatemi dunque costì in Turino un bel gabbione da pormici dentro, perché, se non vorrete che io vi scusi beffana alla festa di S. Giovanni nella Balloria, vi potrò almeno servire alla finestra per parrocchetto, o vero sarò buono per esser messo in piazza il giovedì grasso per passatempo de' putti.
Tenetemi in tanto, Signor Scoto mio caro, vivo nella vostra buona grazia, a cui di buon cuore mi raccomando. E fate i miei baciamani al Conte Lodovico d'Agliè, al Conte Lodovico Tesauro ed al nostro Onorato Clareti. 
Parigi, 1615

Nessun commento:

Posta un commento