sabato 8 maggio 2010

Alle volte basta un frutto per andare lontanissimo

Stasera, mangiando la frutta, ho ripercorso due viaggi di una parola che conoscevo già un po', e ne ho scoperto un terzo, che ho avuto sotto il naso fin dalla mia infanzia, ma che avevo del tutto ignorato, forse proprio perché troppo vicino, che a sua volta me ne ha fatto compiere un quarto, senza muovermi di un passo da casa, verso un luogo ignoto e quindi necessariamente favoloso, in cui non sono mai stata e che chissà se mai vedrò.

I due viaggi che più o meno conoscevo erano questi: il primo, più breve, eppur completo di andata - dal latino "precoce" (praecoquus) all'arabo (al-barquq) - e di ritorno - dall'arabo, probabilmente passando attraverso il siciliano, all'italiano "albicocca", il secondo, di sola andata ma lunghissimo, da Roma a Vladivostok, ovvero dallo stesso luogo di partenza fino al russo (aбрикос) attraverso il greco (πραικόκιον), l'arabo (al-barquq), lo spagnolo (albaricoque), il catalano (albercoc), il francese (abricot), l'olandese (abrikoos, dalla forma plurale del francese) e il tedesco (Aprikose).

Il viaggio di cui non sapevo proprio nulla, quello rimasto sotto il naso, l'ho tracciato dal dialetto triestino che parlava il mio nonno paterno. Perché in tutto questo precoq/alb/abri/apri, stasera mi sono resa conto che l'ermelìn (ermellino) di mio nonno non c'entrava in alcun modo e quasi stonava. Allora ho cercato nel dizionario etimologico Battisti-Alessio, che da ermellino mi ha rinviata ad armellino:
bot. albicocco, lat. sc. Prunus armeniaca, d'area ital. sett. (venez., vicent., trevig. armelin) contrastato dal tipo "albicocco"; presuppone un anteriore armenin dal lat. Armenius dell'Armenia; cfr. piem. e gen. armugnìn.
L'Armenia, altro che stonature.

L'Armenia, un Paese di cui non so praticamente nulla a parte il binomio armeni-azeri, la grazia del ghirigori del suo alfabeto, che riconosco (e vorrei ben vedere) ma non comprendo, i nomi che finiscono in -an come Khatchatourian, l'isola della laguna di Venezia, quel poco che ne ho trovato in Puškin nel suo Viaggio ad Arzrum, il genocidio del 1915 (ed essenzialmente solo grazie A shameful act: the Armenian genocide and the question of Turkish responsibility, scritto dal turco Taner Akçam) e le pagine che le ha dedicato Kapuściński. Grazie alle centinaia di migliaia di volumi dell'isola di San Lazzaro e grazie a quest'ultimo, per me, l'Armenia è il Paese dei libri e dell'impellenza della traduzione.
Vanquished in the field of arms, Armenia seeks salvation in the scriptoria. It is a retreat, but in this withdrawal there is dignity and a will to live. What is a scriptorium? It can be a cell, sometimes a room in a clay cottage, even a cave in the rocks. In such a scriptorium is a writing desk, and behind it stands a copyist, writing. Armenian consciousness was always infused with a sense of impending ruin. And by the fervent concomitant desire for rescue. The desire to save one's world. Since it cannot be saved with the sword, let its memory be preserved. The ship will sink, but let the captain's log remain.
So comes into being that phenomenon unique in world culture: the Armenian book. Having their alphabet, Armenians immediately go about writing books. Mashtots himself sets the example. He had barely produced the alphabet, and already we find him translating the Bible. He is assisted by another luminary of Armenian culture, Catholicos Saak Partef, and a whole pleiad of translators recruited throughout the dioceses. Mashtots initiates the great movement of the medieval copyists, which among the Armenians will develop to an extent unknown anywhere else.
Already by the sixth century, they had translated into Armenian all of Aristotle. By the tenth century, they had translated the majority of the Greek and Roman philosophers, hundreds of titles of ancient literature. Armenians have an open, assimilative intellect. They translated everything that was within reach. They remind me in this of the Japanese, who translate wholesome whatever comes their way. Many works of ancient literature survived owing entirely to the fact that they were preserved in Armenian translations. The copyists threw themselves upon every novelty and immediately placed it on the writing table. When the Arabs conquered Armenia, the Armenians translated all the Arabs. When the Persians invaded Armenia, the Armenians translated the Persians! They were in conflict with Byzantium, but whatever appeared on the market, they would take and translate that as well.
Ryszard Kapuściński, Imperium, Vintage International
Questa cosa dell'andare, da fermi, lontanissimo non funziona con qualsiasi frutto, comunque. Con la mela e la pera, per esempio, arrivo al massimo in Veneto e lì mi fermo:
Pomo pero dime 'l vero...
Luigi Meneghello, Pomo pero - Paralipomeni d'un libro di famiglia, Oscar Mondadori
Con nespola, poi, niente di niente. 

2 commenti:

  1. e con la pesca? :) (<- Persica)

    Nell’ungherese l’albicocca si chiama “kajszi” (pronuncia ‘kaisi’) che deriva dal persiano قیسی qaisi, ‘estivo’, per distinguerla dal suo relativo, la pesca che si chiama “őszi”, ‘autunnale’. La lingua anche qui conserva il ricordo delle origini orientali, benché solo per gli etimologisti.

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  2. Anche con la pesca, anche con la pesca (persigo, in dialetto, che anche in questo, come in altri casi, è fonte preziosa), hai ragione :-)

    Ne deduco che in Ungheria l'autunno è piuttosto praecoquus :-)

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