Sua madre diceva che erano croati, suo padre che erano jugoslavi. Lui non ne sapeva niente. Quando passava le vacanze dai cugini in Croazia, si sentiva croato, ma era una cosa vaga. Il suo nome era serbo: Velibor (grande abete, ma ovviamente i nomi di persona non si traducono). A scuola imparava una lingua dal nome complicato: serbo-croato o croato-serbo o serbo o croato, e lo scriveva qualche volta in alfabeto latino, qualche volta in alfabeto cirillico. Confondeva la b e la v. Avrebbe voluto fare il calciatore. Nero e brasiliano, di preferenza. Da grande, avrebbe voluto chiamarsi Jairzinho. Poi avrebbe voluto diventare poeta. A scuola scriveva poemi dedicati a Tito fatti di versi in rima baciata con -allo di VIVA IL MARESCIALLO! Cantava Druže Tito, mi ti se kunemo (Compagno Tito, noi te lo giuriamo), Hej Jugoslaveni e Comandante Che Guevara. Su questo testo:
A quí sequeda a la cara,
La entrainable transpa rentia
De tu tu corrida pre sentia,
Comandante Che Guevara.
Estratti liberamente interpretati e liberamente assemblati da Velibor Čolić (scrittore bosniaco emigrato in Francia nel 1992), Jésus et Tito (roman inventaire), Gaïa Éditions, 2010
venerdì 14 maggio 2010
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