convinti che la realtà si svolga
indipendentemente dai nostri atti e dai nostri sforzi:
niente altro che la nobile certezza
che esistono cose più grandi e più importanti di noi.
Modesta estrapolazione di cinque versi intravisti nella trama di una prosa originalmente intitolata Parodia jako sposób przetrwania kontynentu, di cui provo a dare una versione italiana a partire dalla traduzione francese di Charles Zaremba.
La parodia come mezzo di sopravvivenza del continente
Perché l'Est europeo vuole che l'Ovest gli dia del denaro? Perché non si parla di nient'altro? Perché la mia radio, perché i giornali che compro sono pieni di percentuali, di cifre, di bilanci e di resoconti di riunioni in cui gli uni vogliono ottenere il più possibile, gli altri dare il meno possibile, dopo di che gli uni e gli altri sono fieri di non avere ceduto di un millimetro? Forse ho una radio che non va, forse compro giornali idioti, forse da voi è completamente diverso. Se è così, voialtri, voi discutete dell'esportazione di cattedrali gotiche, della trasmissione della tradizione mediterranea e greco-romana, della consegna di valori, di paradigmi e di miti fondamentali degni del terzo millennio, ma noi, qui, noi non ne sappiamo niente, la nostra visione si limita ai bancomat che funzionano secondo il principio del moto perpetuo e agli ipermercati in cui, oltre che a merci gratuite, si ricevono liquidi. Forse siamo proprio noi degli idioti e abbiamo mancato in qualcosa, forse i nostri spiriti barbari non distinguono tutte le sottigliezze del gigantesco piano che deve cambiare la faccia del continente.
Non saremmo attratti da nient'altro? Da niente altro che dalla pulizia dei vestiti e delle strade, dalla superiorità delle ricette sulle spese nonché dal numero infinito dei mezzi per ammazzare la noia quando questa finirà per essere il nostro premio? I nostri desideri si limiterebbero a una soteriologia dei prodotti interni lordi ponderati da Kiev a Lisbona? La nostra valuta sarebbe così vuota e sprovvista di senso che la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali la potrà riempire senza resto? Tutto ciò sembra nato morto. C'è qualcuno che ne tragga veramente giovamento? Noi dobbiamo diventare voi, ma voi, voi volete essere noi? Ne dubito.
Può darsi che la mia parte del continente possieda un istinto che la mette in guardia contro una sorta di annientamento pacifico: essa sparirà prima di esistere, diventando appena il riflesso o la caricatura di qualche cosa di più grande, di più forte di lei. Siccome nessuno immagina che sarete voi a cambiare, saremo piuttosto noi a ripetere i vostri gesti, le vostre vittorie e i vostri errori. Certo, è una via ammirevole, ma essa ci priva del diritto alle nostre vittorie e alle nostre sconfitte - anche se le prime dovessero essere minori e le seconde cocenti.
Questo istinto suggerisce anche alla mia parte di non coprirsi di ridicolo prendendo quello che avete di più volgare, perché essa fa esattamente quello che ci si attende da lei. Diventando uno specchio deformante, essa conforta il suo modello nell'idea che si fa della sua dignità, del suo carattere eccezionale.
Sì, la vecchia Europa è in ammirazione davanti a se stessa e alle proprie virtù. Ma si può essere virtuosi all'infinito? Si può impunemente condurre alla perfezione ciò che sembra perfetto, si può sviluppare ciò che è sviluppato senza rischiare l'ipertropia? Da più di mezzo secolo, a questo quadro manca un difetto, una piccola fessura. Si può dire senza esitare che la vecchia Europa sia stata talmente occupata da se stessa da non avere il tempo di commettere il minimo peccato. Spaventata dal proprio passato, essa ha voluto ad ogni costo ritrovare la propria innocenza. Senza dubbio ci è riuscita. Ha evitato come la peste l'odio, limitando all'occasione i suoi altri sentimenti allo stretto necessario. Allargando all'infinito gli spazi di libertà, si è imbrigliata nella contraddizione che consiste nell'essere limitata dalla propria assenza di limitazioni. È proprio quello che la spinge nelle regioni in cui l'offerta di libertà sarà verosimilmente più grande della domanda. In altri termini, ci sarà talmente tanta libertà, che nessuno avrà la forza di consumarla per intero senza rischiare di morire di indigestione. La libertà è diventata una merce l'accessibilità della quale, paradossalmente, governa le società. Il rischio di perderla permette manifestamente di sopportare il suo carattere obbligatorio.
Noialtri qui, noi non crediamo troppo in noi stessi né nell'avvenire. Il tempo è sempre arrivato da noi dall'esterno e, siccome era fatto di una materia omogenea, non avevamo alcuna ragione di pensare che alla fine sarebbe stato differente da quello che era all'inizio. Non avevamo nemmeno una stima esagerata per la ragione. In fin dei conti, è lei ad averci suggerito che la nostra situazione non era invidiabile. Ecco perché non facevamo più caso alle emozioni che cambiano l'immagine del mondo senza cambiarlo. Semplicemente, il rischio che ogni cambiamento comporta ci sembrava tanto grande quanto vano. Perché la storia dei cambiamenti in questa parte del continente è storia di sconfitte. Certo, cadevamo assieme, ma in seguito, noi, noi avevamo solo i nostri occhi gelosi per guardarvi sollevarvi. È più facile condividere la sconfitta (è beneficio netto) che la vittoria.
Abbiamo una fede moderata nell'unità e nella solidarietà dell'Europa. Respingendo il nostro passato, lo consideriamo come miserabile e inutile. Ma chi, oltre a noi, ne ha bisogno? Forse che chiunque vorrebbe esserne l'erede, nello stesso modo in cui rivendichiamo apertamente e palesemente la vostra eredità? Per parlare senza giri di parole: forse che Parigi, per esempio, ha vissuto la sconfitta, il crollo e il caos dell'Est in modo altrettanto forte di quello in cui l'Est avvertiva la semplice esistenza di questa Parigi data ad esempio? Forse che Londra, per esempio, ammetteva l'idea che l'inferno dei Balcani non fosse una manifestazione di esotismo tribale, ma una tragedia altrettanto europea di quella di Coventry nel '40, '41 del secolo scorso?
Queste domande possono suonare come una lamentela, ma non lo sono. Esse parlano semplicemente del provincialismo dell'Occidente che gli fa percepire il resto del continente come una brutta copia di se stesso. Ora l'Est vi prende solamente quello di cui ha bisogno. Vi chiede in prestito l'apparenza, la maschera e il costume grazie ai quali potrà simulare di essere voi. Non abbiamo mai aspettato altro, il compito era dunque abbastanza facile. Percepiti come una massa indistinta divisa da frontiere vaghe e instabili, non abbiamo dovuto compiere uno sforzo particolare per cogliere la sfida. Siccome nessuno distingueva i nostri visi, non abbiamo avuto difficoltà a simulare di essere qualcun altro.
Se l'Occidente faceva prova di provincialismo e di spirito campanilistico, allora noi, noi praticavamo una specie di cosmopolitismo aberrante. Pur continuando a vivere nelle nostre città e nei nostri paesi, non ci vivevamo che in apparenza, considerandoli come entità fittizie. La vera vita era altrove, all'Ovest. Il nostro mondo era irreale. Dovevamo renderlo tale, per evitare di disprezzarlo. I tentativi di dare più realtà al nostro mondo si risolvevano in tristi spedizioni in un passato idealizzato o in un vago millenarismo proclamante l'avvento prossimo di un ibrido favoloso, del dragone a tre teste dell'uguaglianza sociale, della prosperità generale e della libertà totale.
Nel campo del tempo, era dunque l'avvenire o il passato, e nel campo dello spazio, un "altrove" radicale. Eravamo cosmopoliti, e lo siamo tuttora. Se vogliamo essere da qualche parte, è "in Europa", eventualmente a casa nostra, ma di preferenza in un immaginario passato eroico. Odiamo il qui e l'ora, amiamo l'altrove nel tempo e nello spazio, finché l'uno e l'altro arrivano e si trasformano in un presente da aborrire. Non abbiamo mai saputo accettarci per quello che siamo.
Ogni volta che provo ad immaginarmi l'avvenire della mia parte del continente, mi vengono in mente delle immagini di annientamento pacifico e indolore: tutto quello che compone questa regione deve sparire. La confusione, il disordine, l'irresponsabilità, la noncuranza devono sparire. L'amore perverso per la propria storia maledetta deve rendere l'anima. La tendenza all'affabulazione deve cessare di vivere, anche l'attrazione per l'invenzione deve morire, e l'amore per la fantasia sarà sostituito dalla fede in una realtà data una volta per tutte. In una parola, il mondo che abbiamo edificato pazientemente deve sparire, un mondo la cui esistenza era il nostro maggiore merito, la nostra maggiore vittoria, perché era un mondo eccezionale, unico e sprovvisto di prototipi. Non è impossibile che, da una prospettiva "europea", questo mondo assomigli ad una specie di antimondo. Ma siamo noi ad averlo creato e ad avere sviluppato alla perfezione l'arte di vivere nella sua dignità e nelle sue realtà.
E dunque quello che mi viene in mente è piuttosto un bilancio delle perdite che dei profitti. Vedo cose che devono sparire e non immagino nient'altro al loro posto. Per esempio, con che cosa sostituiremo il carattere totalmente disinteressato della vita? Queste ore e questi giorni passati su una sedia ad aspettare, con la convinzione che la realtà si svolga indipendentemente dai nostri atti e dai nostri sforzi. In fin dei conti, non sono niente altro che la nobile certezza che esistono cose più importanti e più grandi di noi.
O con che cosa sostituiremo la capacità di fantasticare, questo dono eccezionale che consiste nel porre l'immaginazione al di sopra di tutto quello che suggerisce la ragione?
Con che cosa sostituiremo questo meraviglioso sentimento di essere superiori a tutti gli altri, e in particolare ai nostri vicini più prossimi, questo sentimento che permette di sopravvivere a tutte le sconfitte?
Con che cosa sostituiremo l'odio di sé? Con che cosa sostituiremo questo grande sentimento che ci obbliga a respingere e a oltrepassare il nostro destino?
Potrei proseguire con questa litania all'infinito, citando tutti gli attributi e gli aspetti della vita in questa regione del mondo. E quando avessi finito con le idee, potrei enumerare le cose che devono sparire per sempre, senza lasciare discendenza e successori o ragionevoli sostituti.
Che cosa ci sarà, per esempio, al posto dell'eterno attaccamento di cavalli che ci funge da blasone e con cui l'Occidente abbelliva la maggior parte dei suoi reportage su questa regione?
E che cosa ne sarà del resto dell'animalità che impregna così profondamente la nostra vita? Che ne sarà delle bestie che vivono così vicino agli uomini? Delle mandrie di vacche che rientrano la sera dal pascolo con la coda alzata e cagano in mezzo al villaggio? Dell'odore del bestiame che ci ricorda da dove veniamo? Quando tutto questo non ci sarà più, quando sarà sparito dal quotidiano, più niente potrà addolcire la nostra solitudine.
E che ne sarà della decomposizione? Del materiale fragile delle nostre case che si sgretolano sotto i nostri occhi perché vogliono accompagnarci nell'invecchiamento e nella morte? Delle nostre città che hanno l'aria di essere in demolizione e al contempo in costruzione? Che ne sarà del provvisorio e del tempo che, in questa regione, penetra all'interno delle cose per farle scoppiare in modo tale che all'ora della propria morte l'uomo non si senta abbandonato e muoia in compagnia dei propri oggetti?
Non posso immaginare che tutto questo possa un giorno essere sostituito da qualcos'altro. E ciò allontana da me per un istante l'idea dell'annientamento pacifico della mia parte del continente. È possibile che tutto quello che ho evocato sia semplicemente insostituibile e debba perdurare.
Infine, l'Europa non può comporsi esclusivamente di presente. Ora tutto indica che l'ossessione del presente distrugge la vita dell'Occidente e che essa cominci a distruggere la nostra. C'è qualche cosa di malaticcio nelle vecchie città europee che esistono senza interruzione da sette o ottocento anni: in mezzo alle costruzioni ieratiche, in uno spazio pieno di un condensato di passato, sotto il degno sguardo di tempi passati, si agita una folla obnubilata dall'istante presente, dall'istante che passa. Le persone assomigliano a insetti occupati dalla loro sola vita. Non hanno passato, perché sono incapaci di comprenderlo, né avvenire, perché l'avvenire si trasforma incessantemente in presente.
Bene, d'accordo. Lasciamo da parte le idee.
Tenterò di raccontare qualcosa di reale. Qualche settimana fa, sono tornato dalla Slovacchia. Ci vado spesso perché abito solamente a quindici chilometri dal confine. La scorsa settimana è stata abbastanza agitata in questo paese. Soprattutto all'est. A Trebišov e in molte altre località, gli zingari hanno saccheggiato dei negozi e si sono scontrati con la polizia. Tutto perché, nell'ambito delle riforme, il governo slovacco ha diminuito di più della metà i sussidi familiari. Per tutti, non solamente per gli zingari. La Slovacchia conta cinque milioni e quattrocentomila abitanti, di cui cinquecentomila zingari. Hanno un tasso di crescita demografica molto più elevato degli altri. Le previsioni dicono che in cinquant'anni saranno la maggioranza in Slovacchia. In questo modo si realizzerà l'idea di uno Stato zigano. Gli slovacchi lo temono e si può capirli. In fin dei conti, sono una nazione abbastanza giovane. Si sono costituiti nel XIX secolo, hanno codificato una loro lingua, hanno detto senza giri di parole: non siamo cechi in quanto nazione e in quanto organismo politico, non siamo più l'Alta Ungheria né la Cecoslovacchia, nonostante siamo stati qui e là nel corso dei secoli. Ora ecco che di fronte a dei negozi slovacchi e alla polizia slovacca, insorge un gruppo di uomini e di donne dalla pelle scura, venuti dalle lontane Indie settecento anni fa, che cercano di pregiudicare il diritto sacro della proprietà, di distruggere un ordine politico e sociale ancora giovane, esistente appena da una quindicina d'anni. Gli zingari vogliono semplicemente prendere quello che, nel loro spirito, spetta loro: il bene altrui, perché per loro, dal momento che non appartiene a degli zingari, non appartiene a nessuno, in fondo. Questa convinzione fa parte dei rudimenti della loro cultura. Una cultura per di più molto più antica di quella slovacca, ed eccezionalmente resistente alle influenze esterne. Hanno vissuto centinaia d'anni in un ambiente estremamente ostile e non sono praticamente cambiati. Sono sopravvissuti alla minaccia dell'annientamento e alla tentazione dell'assimilazione. Hanno adottato qualcuno dei nostri gadget, qualche scarto della civilizzazione, ma senza dubbio non hanno mai avuto voglia di prendere parte all'"eredità culturale europea". Evidentemente, ciò non interessa loro particolarmente.
Non ho trovato alcuna traccia della ribellione degli zingari. La calma regnava ovunque. Ma si incrociavano delle pattuglie della polizia e dell'esercito nei borghi e nei villaggi. Nel paesaggio indolente dell'est della Slovacchia, i ragazzi in uniforme avevano l'aria un po' strana. Come se fossero smarriti e avessero loro stessi bisogno d'aiuto.
Sono andato nella città di Krompachy per vedere il suo straordinario quartiere abbarbicato al fianco scosceso e roccioso della montagna. Sembrava una colonia di uccelli agglomerata su una falesia. Gli zingari l'avevano costruito con rifiuti, scarti, cose gettate di cui nessuno aveva bisogno: lamiere arrugginite, vecchie assi, travi marce. Non capivo per quale ragione prodigiosa tutto stesse in piedi e non fosse portato via dal vento. Sì, era un prodigio, la vittoria degli zingari sulla legge di gravità. Dall'altra parte della strada, i bambini di questa bidonville appollaiata là in alto giocavano nella larga vallata piatta del fiume Hornad. C'era un inizio di disgelo, la temperatura ideale per fare dei pupazzi e dei castelli di neve. Non credevo ai miei occhi: la grande prateria bianca era cosparsa di una o forse persino più decine di enormi palle bianche. Dei bambini scuri ne facevano rotolare di continuo di nuove. Esattamente come se avessero voluto asportare tutta la neve dal prato. Era bello e irreale. Le palle di circa un metro di diametro coprivano lo spazio bianco e deserto come se fossero cadute dal cielo.
Bystrany, 2004 (Sean Gallup/Getty images, Life)
Un po' più lontano si ergevano gli edifici della fabbrica siderurgica col suo camino smisurato, all'ombra del quale giocavano i bambini.
Krompachy (Google Maps)
Queste due immagini non si accordavano in nessun modo. I ragazzini avevano creato il proprio spazio, da qualche parte fuori dal tempo, sull'esempio dei loro genitori, del loro intero popolo. La semplicità di questo gioco sfrenato, il dispendio di energia disinteressato nel nome della creazione di decine di cose inutili ed effimere facevano sì che la presenza dei lugubri edifici industriali avesse l'aria di un'allucinazione assurda, di un sogno malato.
Un'ora più tardi, ero a Levoča. Dei poliziotti gironzolavano sull'antica piazza del mercato, in mezzo a degli alberi spogli. Erano stati inviati per controllare il quartiere zigano nella parte meridionale della città. Ma non succedeva nulla. La piazza era come al solito. Tre cani e cinque poliziotti in uniforme di campagna si annoiavano a morte. Dietro ordine dei loro padroni, i cani pastore saltavano mollemente sulle panchine del parco e poi ne scendevano. Oppure riportavano delle palle di neve. Se non fosse stato per le uniformi, per le armi e per gli stivali coi lacci, si sarebbero detti bravi borghesi con amici a quattro zampe nell'ozio della siesta.
Seduto al tavolo del caffè Tre Apostoli, guardavo attraverso la finestra. Per un'ora, non era cambiato niente. Il surrealismo indolente della scena del parco raggiungeva il suo apice. Dei poliziotti dal capo rasato, corpulenti e armati, si erano trasformati in scolari. Si lanciavano delle palle di neve tra di loro e contro gli alberi. I cani eseguivano degli ordini sempre più idioti: si stendevano sulla schiena e facevano il morto. Tutto sembrava giocoso e ad un tempo minaccioso. Era la non evidenza, l'incarnazione dell'ambiguità. La forza bruta, la noia e il gioco si mescolavano in proporzioni perfette, ma il mio intuito mi suggeriva che la prima, la seconda o il terzo avrebbero potuto ugualmente prendere il sopravvento senza una ragione particolare.
Pensavo agli zingari, tornando a casa al cadere della notte. Per dirla francamente, penso abbastanza spesso a loro. Durante i miei viaggi, cerco le loro abitazioni fatiscenti e provvisorie, in Slovacchia, in Romania e in Ungheria. La loro presenza mi inquieta e, allo stesso tempo, suscita la mia ammirazione. La loro vita marginale rimette radicalmente in questione il carattere della mia "europeità". Ecco un popolo analfabeta dalla pelle opaca che percorre da secoli l'Europa e l'europeità esattamente come se attraversasse delle regioni scaramente popolate, povere e poco attraenti. Alle volte trovano qualcosa di cui fanno uso, ma nell'insieme danno l'impressione di avere portato con loro tutto quello di cui hanno bisogno. Tutto indica che non hanno imparato niente da noi e che nessuna delle nostre glorie suscita la loro ammirazione. Sarebbero da più di seicento anni ciechi e insensibili alle nostre realizzazioni? Viaggerebbero e si insedierebbero unicamente nei paesi deserti, solo buoni per essere continuamente abbandonati? Tuttavia si stenta a credere che il nostro mondo sia privo di interesse fino a questo punto. Si stenta a credere che non abbiano tentato di imitarlo, che non abbiano provato, pur maldestramente, a copiarlo. Considerare le nostre migliaia di anni di civilizzazione al più come una fonte di profitto o come un terreno di accampamento!
E se almeno ciò contenesse una minaccia barbara, un odio del selvaggio per la civiltà, una sete di vendetta o di distruzione... Ma no: è solo indifferenza, una mancanza di interesse.
Non voglio assolutamente dire che qui, all'Est, siamo un po' come gli zingari - per quanto sia una metafora interessante e seducente.
Tuttavia, ci è difficile considerare l'Europa nel suo complesso come nostra proprietà, nostra patria, nostra eredità. In essa siamo stranieri, veniamo dall'esterno, da paesi di cui l'Europa stessa ha solo un'idea vaga, considerandoli piuttosto come una minaccia che come una parte di se stessa.
Noi, noi non valiamo di più. Guardando voi, è il nostro avvenire che guardiamo. In questo modo, la nostra vita diventa noiosa, sprovvista di mistero e passione. Non abbiamo potuto accompagnarvi nel vostro fiorire e nella vostra crescita, ma in compenso canteremo il vostro declino.
Se c'è qualcosa di affascinante in quello che deve accadere, sono gli errori che commetteremo noi stessi. Non è escluso che la nostra missione continentale risieda nella deformazione delle vostre esperienze, nella loro decomposizione, in una metamorfosi grottesca e in una parodia che prolungherà la loro esistenza.
Andrzej Stasiuk, Fado, Christian Bourgois éditeur, 2009
Siccome il termine “rom” non sembra ancora veramente consolidato ovunque e Stasiuk, pur filtrato attraverso il francese, non utilizza in alcun modo in senso peggiorativo il termine tradizionale, nella versione italiana è stato mantenuto quest'ultimo.
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In rete si trovano delle poesie in romanes, anche di autori rom slovacchi. Tuttavia, il ruolo svolto dall'oralità nella cultura rom e il pensiero dell'ostracismo vissuto da Papuzca quando alcune delle sue poesie vennero messe su carta, tradotte e pubblicate dal polacco Jerzy Ficowski - quello cui dobbiamo praticamente tutto ciò che sappiamo su Bruno Schulz -, mi trattengono dal riportarle. Lascio allora uno spazio bianco come la neve.
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O sopanki (About the Shoes) from Rozálie Kohoutová on Vimeo.
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