Pasolini, in Lettere luterane, che raccoglie suoi interventi sul Corriere della Sera e sul Mondo del 1975, spiegava a Gennariello, un ragazzo napoletano, il mutamento antropologico in atto allora negli italiani: per la prima volta nella storia, da quando la produzione delle "cose" era diventata produzione industriale, di massa, un cinquantenne come lui non avrebbe più potuto insegnare ad un quindicenne come Gennariello le "cose" che lo avevano educato, e Gennariello non avrebbe potuto insegnare a lui le "cose" che lo stavano educando (cioè che stava vivendo) perché la loro natura, la natura delle "cose", era cambiata nella sua totalità. Per illustrare la profondità del salto generazionale tra lui e Gennariello e l'estraneità insanabile che ne derivava, Pasolini ricorreva al linguaggio pedagogico delle cose e per farne un esempio concreto considerava le tazzine da tè di un salotto borghese del 1944: le "tazzine coloro giallo uovo chiaro, con delle macchie a rilievo bianche" predisposte da Dante Ferretti per la scenografia del suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma. "Legate all'universo della Bauhaus e dei bunker, esse erano angosciose. Non potevo guardarle senza provare una fitta al cuore, seguita da un profondo malessere. Tuttavia quelle tazzine avevano in sé una misteriosa qualità, condivisa, del resto, dalla mobilia, dai tappeti, dai vestiti e dai cappellini delle signorine, dalle suppellettili, dalle stesse carte da parati: questa misteriosa qualità non dava però dolore, non causava un violento regresso (che poi la notte ho sognato) in epoche anteriori e atroci. Dava anzi gioia. La loro misteriosa qualità era quella dell'artigianato. Fino al Cinquanta, fino ai primi Sessanta è stato così. Le cose erano ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l'artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu."
"Più della metà del mondo vive in aree metropolitane. Il resto della gente le avvolge centripetamente, le tocca, le occlude. Questa è la nostra situazione globale. La realtà non è data dalla naturalezza, ma dagli infiniti oggetti prodotti in serie. Produciamo infinite cose, tanto desiderabili quanto, quasi sempre, inutili. Torniamo a caderci sopra, come dei boomerang. Come un baco da seta, produciamo il filo che ci avvolge, finché diventa bozzolo e poi sarcofago che ci sacrifica, come bestie sacrificate al nulla. Questa è la realtà, o meglio, questo è l'autorealismo in cui viviamo. Anche i popoli si ammassano, gli uni sugli altri, attraverso guerre e migrazioni di massa. Non c'è quasi differenza tra uomini e cose e le masse degli uni assomigliano sempre di più agli altri, che diventano termine di paragone. La realtà non si antropomorfizza, ma l'uomo si cosifica. La mia poetica consiste nel registrare questo paradosso demenziale che siamo obbligati a vivere, dandolo per scontato. Io assomiglio ogni volta di più alla mia bicicletta, e chi la incontra per strada, appoggiata ad un muro, la saluta credendo, a ragione, che lei sia me. Tuttavia, di fronte a questo la mia bicicletta, che ha la sua dignità, da qualche tempo ha cominciato a ribellarsi."
E ora, dopo questa lunga premessa, posso finalmente riportare la poesia di oggi.
La bicicletta
e come si usa, a un certo punto della vita
ridurla quasi a un volto che le diamo
per scorgerla da fuori e compatirla
io, tralasciando quanto sia in natura,
ricorro a un alter ego manufatto
probabilmente ad una bicicletta
che certo non compete alle volate
neppure sta nel gruppo condiviso,
magari è dentro un vicolo sterrato
e quando il troppo adagio la barcolla
per non cadere dà una pedalata
un breve sbando e seguita la corsa,
l’arrivo si confonde alla sortita.
Guido Oldani
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