mercoledì 17 marzo 2010

Contrasti

- Vui vinite, signore, su 'l chiù meglio, e vui, lombardo e neutro, siete il cadì chiù naturale e giusto: si contrastava, tra i riveriti pastori qui presenti, se sia opportuno, nel poetare o pure rivolgere al sicolo idioma tragedia antiqua oppur poema, sia opportuno dicìmo per nui nativi d’Arcamo, patria del primo e granne, onore de la cosca de' poeti e luce di cinnàca, di Ciullo intenno, chiaro al monno intero, e surtutto per nui de l’Accademia ardente che al nome suo s'appenne, sia opportuno far crescere la cima sicola da ràdica toscana o puramente far sbocciare in aura toscana la semente sicola. Giudicate vui, vah, giudicate vui! - E sopra la gran panza, stralucente di catene, di medaglie e orioli, incrociò le braccia, s'assestò sopra lo scranno, e mi fissò co' i suoi occhi a calamaro, quel nero del Soldano. E come lui, co' gli stessi occhi, mi fissaro gli accademici o pastori in attesa ch'io profferissi la sentenza.
- Ma veramente, - balbettai vergognoso - mi so nient di lingua e di poesia. Io son solo un modesto cultore d'antiquaria e ancor più modesto suo ricopiatore.
- Checchecchè ?! - fece il Soldano.
- Non m’intendo, non m’intendo... - dissi allargando le braccia.
- No, no, no, corpo d'un Bacco! - urlò ancora l'ospite battendo il pugno sopra la tavola. - Non m'ingannate. Siete, come scrive il Seppotta nella littra, un grande artista, e dunca il più adatto a giudicare...
- Vi prego...- insistei. Ma quello non s'arrese.
- Allora ascortate, - disse - ascortate due campioni de le due manère contrapposte di poetare: primo è l'illustrissimo don Erminio Chinigò, in Accademia inteso Abelio Zenòdoto, di cui domani, festa di Santa Maria dei Miracoli, si rappresenta nella Badia Nuova la Tirannide rintuzzata nel martirio di Santa Venera e Petrulla, opera tragicorsara; secondo, il reverendissimo padre don Getulio Camàro, in Accademia Aristeo Apollonio, autor di rinomate ottave in purissima lingua sicola-toscana. Attaccate, don Erminio! - ordinò quel signore. Esultante quindi l'accademico, con voce forte, chiara, si mise a recitare versi oscuri, incomprensibili, a me, a voi, a chicchessia, mi credo, non fusse nato in Alcamo, che romorosi applausi si ebbero, e numerosi brindisi, di tutta l'adunanza.
Poscia seguì il prete, grevio, untuoso, che pur poetando nel più cercato e prezioso italico linguaggio, tanto dolz e pien de schiribizz, de pezz, e pazz, e pozz, e puzz, e pizz, come ridendo dice il nostro Maggi, erano i versi suoi sì gonfi di metafore, e di immagini e concetti sì peregrini e falsi, e manierato il tono, e il ritmo artefatto, di sì insomma eunucata poesia, che ricordavano la frutta artificiale di zucchero e di mandorla, o quello stile stracarico di chiese, a pietre mischie e tramischie, che chiaman gesuitico, e più di questo, e quella, mi davan la nausea, e gli impulsi impellenti (che la scusa!) di ributto.
Sursi improvviso pallido, sudato, e chiesi di uscire all'aria, che il clima e il viaggio m'aveano straccato: che scusassero... E solo allora il Soldano si convinse di richiamare il figlio e farmi accompagnare alle mie stanze.

Vincenzo Consolo, Retablo, Sellerio editore Palermo 2009, pagg. 54-57 (prima edizione 1987)

Il retablo (retro tabula altaris) è "l'invenzione (derivata da El retablo de las maravillas, uno degli entremés di Cervantes) di far veder nel quadro ciò che si vole, dietro ricatto d'essere, se non si vede, fortemente manchevole o gravato d'una colpa".

Cosa non si è inventato Consolo per far fuggire il proprio alter ego, il pittore Fabrizio Clerici, dalla Milano di Craxi.

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