Sono nato a Czernowitz. La mia lingua materna è il tedesco. Con i nonni, parlavo yiddish. Con i domestici, parlavo ruteno. Quando sono nato, Czernowitz era in Romania e si parlava rumeno. Così è stato fino a quando ho compiuto 8 anni. Quando è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, questo idillio con il tedesco di colpo si è infranto. Ci hanno messi nel ghetto e poi ci hanno trasferiti in un campo. Mi hanno separato da mio padre, mentre mia madre era già stata uccisa. E io, io sono rimasto solo. Ho deciso di fuggire dal campo. Ero biondo, sembravo un bambino ucraino. Mi ha adottato il mondo dei ladri e la guerra l'ho passata con loro.
Nel 1946 sono immigrato in Israele, avevo 13 anni e mezzo, senza educazione, senza genitori, senza lingua. Avevo tante lingue, ma tutte assieme non bastavano a comunicare. Eravamo come dei balbuzienti che parlavano la lingua del corpo, ma non quella della bocca. Ognuno cercava di esprimersi con quello che aveva. A poco a poco, abbiamo appreso l'ebraico. È stato un grande sforzo, far entrare una lingua articolata in modo diverso rispetto alle altre lingue che conoscevo. Il suo suono era quello di una lingua che impartisse degli ordini: "Avanti! Dormite! Mettete in ordine!" Suonava come se fosse nata dal mare, dalle sabbie che ci circondavano ad Atlit. Non è una lingua che scaturisca da sola, ma è come un riempirsi di ghiaia. Ho lavorato molto per imparare l'ebraico, come se avessi dovuto scavare una montagna. Ho cominciato a scrivere sulla mia vita, sul mio destino, sulla mia infanzia da orfano, sui miei genitori morti, sulla mia città perduta, sulle piccole cose che mi avevano circondato. E, così facendo, quando scrivevo in ebraico e mi sforzavo di adottare la lingua e tutte le sue espressioni idiomatiche, emergevano, di tanto in tanto, altre lingue. Queste interferivano con la mia scrittura. Ero obbligato a reprimerle perché non oscurassero le parole di altre lingue, alle volte dei mozziconi di parole, talvolta una frase, perché queste non emergessero. Era complicato, perché la maggior parte dei miei eroi sono degli immigrati. E, in effetti, parlano tedesco. Nella loro vita quotidiana, parlano tedesco, ma a casa mia parlano ebraico. Ogni immigrato porta con sé due lingue, due paesaggi, un mondo duale. L'immigrato non era accettato. Nel 1946, negli anni '40 e '50, il paese era ideologizzato, e l'ideologia richiedeva che si parlasse ebraico: "Dimentica, dimentica il tuo passato, dimentica la tua lingua materna, dimentica la tua personalità". Io e la mia generazione abbiamo represso tutto quello che era in noi e, su questa crosta, in superficie alla coscienza, abbiamo costruito un'altra vita, non legata al passato. A poco a poco, entrando nella creazione, ho saputo che niente di ebraico doveva essermi estraneo. Così, ho imparato l'yiddish. L'ho imparato anche per scacciare il tedesco. Vi sono dei motivi psicologici complessi. Provengo da una famiglia assimilata, e ogni famiglia assimilata aveva un'avversione per il proprio ebraismo. E l'yiddish era il simbolo dell'ebraismo. Per conoscere tutto ciò che è ebraico, ho imparato l'yiddish. Lo conosco bene, non alla perfezione. Lo leggo e posso scriverlo. Leggo la letteratura e la saggistisca in yiddish. Questa lingua mi è cara perché era la lingua dei miei nonni e perché ho visto la morte attraverso questa lingua. Ho visto vecchi ebrei, donne deboli, bambini alla soglia della morte, e tutti parlavano yiddish. Con il tedesco ho sempre avuto un rapporto ambivalente. Era la mia lingua materna, ma era anche la lingua degli assassini. Un uomo che perde la propria lingua materna resta infermo a vita. La lingua materna non si parla, essa scorre. Bisogna vegliare senza sosta che niente di straniero penetri nella lingua acquisita. Oggi non ho un'altra lingua. L'ebraico è la mia lingua materna. Sogno, scrivo in questa lingua. Ancora oggi ho timore di perderla. Alle volte, mi sveglio e questo ebraico, acquisito con così tanta pena, svanisce, sparisce. Cerco di recuperarlo e non ce la faccio.
Aharon Appelfeld
in Misafa Lesava (משפה לשפה - D'une langue à l'autre), un film di Nurith Aviv, 2004
Nous avons l'habitude d'entourer les grandes catastrophes de mots afin de nous en protéger.[...] Le silence qui avait régné pendant la guerre et peu après était comme englouti par un océan de mots.[...] Avec le même sens que celui des aveugles, j'ai compris que dans ce silence était cachée mon âme et que, si je parvenais à le ressusciter, peut être que la parole juste me reviendrait. (A.A.)
RispondiEliminaSono io a ringraziare te, oggi.
RispondiEliminaNon considerarla una replica, solo una piccola aggiunta, probabilmente décalée, che sicuramente conoscerai:
"Die Sprache meines Geistes wird die deutsche bleiben, und zwar weil ich Jude bin. Was von dem auf jede Weise verheerten Lande übrig bleibt, will ich als Jude in mir behüten. Auch ihr Schicksal ist meines; aber ich bringe noch ein allgemein menschliches Erbteil mit. Ich will ihrer Sprache zurückgeben, was ich ihr schulde. Ich will dazu beitragen, daß man ihnen für etwas Dank hat."
Elias Canetti, Aufzeichnungen
gleich danach erfolgte eine Periode des Glücks, und das hat mich unlösbar an diese Sprache gebunden (die gerettete Zunge)
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