domenica 5 febbraio 2012

Schmöker

von Detlef Holz

Aus der Schülerbibliothek bekam ich die liebsten. In den unteren Klassen wurden sie zugeteilt. Der Klassenlehrer sagte meinen Namen, und dann machte das Buch über die Bänke seinen Weg; der eine schob es dem anderen zu, oder es schwankte über die Köpfe hin, bis es bei mir, der sich gemeldet hatte, angekommen war. An seinen Blättern haftete die Spur von Fingern, die sie umgeschlagen hatten. Die Kordel, die den Bund abschloß und oben und unten vorstieß, war verschmutzt. Vor allem aber hatte sich der Rücken viel bieten lassen müssen; daher kam es, daß beide Deckelhälften sich von selbst verschoben und der Schnitt des Bandes Treppchen und Terrassen bildete. An seinen Blättern aber hingen, wie Altweibersommer am Geäst der Bäume, bisweilen schwache Fäden eines Netzes, in das ich einst beim Lesenlernen mich verstrickt hatte.
Das Buch lag auf dem viel zu hohen Tisch. Beim Lesen hielt ich mir die Ohren zu. So lautlos hatte ich doch schon einmal erzählen hören. Den Vater freilich nicht. Manchmal jedoch, im Winter, wenn ich in der warmen Stube am Fenster stand, erzählte das Schneegestöber draußen mir so lautlos. Was es erzählte, hatte ich zwar nie genau erfassen können, denn zu dicht und unablässig drängte zwischen dem Altbekannten Neues sich heran. Kaum hatte ich mich einer Flockenschar inniger angeschlossen, erkannte ich, daß sie mich einer anderen hatte überlassen müssen, die plötzlich in sie eingedrungen war. Nun aber war der Augenblick gekommen, im Gestöber der Lettern den Geschichten nachzugehen, die sich am Fenster mir entzogen hatten. Die fernen Länder, welche mir in ihnen begegneten, spielten vertraulich wie die Flocken umeinander. Und weil die Ferne, wenn es schneit, nicht mehr ins Weite, sondern ins Innere führt, so lagen Babylon und Bagdad, Akko und Alaska, Tromsö und Transvaal in meinem Innern. Die linde Schmökerluft, die sie durchdrang, schmeichelte sie mit Blut und Fährnis so unwiderstehlich meinem Herzen ein, daß es den abgegriffenen Bänden die Treue hielt.
Oder hielt es die Treue älteren, unauffindbaren? Den wundervollen nämlich, die mir nur einmal im Traume wiederzusehen gegeben war? Wie hatten sie geheißen? Ich wußte nichts, als daß es diese längst verschwundenen waren, die ich nie wieder hatte finden können. Nun aber lagen sie in einem Schrank, von dem ich im Erwachen einsehen mußte, daß er mir nie vorher begegnet war. Im Traum schien er mir alt und gut bekannt. Die Bücher standen nicht, sie lagen; und zwar in seiner Wetterecke. In ihnen ging es gewittrig zu. Eins aufzuschlagen, hätte mich mitten in den Schoß geführt, in dem ein wechselnder und trüber Text sich wölkte, der von Farben schwanger war. Es waren brodelnde und flüchtige, immer aber gerieten sie zu einem Violett, das aus dem Innern eines Schlachttiers zu stammen schien. Unnennbar und bedeutungsschwer wie dies verfehmte Violett waren die Titel, deren jeder mir sonderbarer und vertrauter vorkam als der vorige. Doch ehe ich des ersten besten mich versichern konnte, war ich erwacht, ohne auch nur im Traum die alten Knabenbücher noch einmal berührt zu haben.

Walter Benjamin unter dem Pseudonym Detlef Holz
Vossische Zeitung, 17. September 1933, Beilage: Das Unterhaltungsblatt, Nr. 257, S. 2


Feuilletons

di Detlef Holz

Dalla biblioteca scolastica prendevo i più belli. Venivano assegnati nelle classi inferiori. L'insegnante diceva il mio nome ed ecco che il libro si apriva la sua strada sopra i banchi; l'uno lo passava all'altro, o lo faceva ondeggiare sopra le nostre teste, fino a farlo arrivare da me, dopo un mio cenno. Sulle loro pagine restavano impresse le impronte delle dita che le avevano girate. La cordicella che terminava la rilegatura e che avanzava sopra e sotto era lurida. Più di tutto, però, era il dorso a lasciar molto a desiderare, al punto che entrambe le metà della copertina slittavano via da sole e il taglio del volume formava scalette e terrazze. Alle loro pagine, però, talvolta pendevano, come capelli d'angelo ai rami degli alberi, tenui fili di una rete da cui un tempo, quando avevo imparato a leggere, mi ero lasciato avvolgere. Il libro stava sul tavolo, un tavolo troppo alto. Leggendo mi tappavo le orecchie. Avvolto in quel silenzio avevo già sentito una volta raccontare. Sicuramente non mio padre. Tuttavia, qualche volta, d'inverno, quando stavo alla finestra nel calore del soggiorno, la bufera di neve fuori mi raccontava delle storie in quello stesso silenzio. Quello che mi raccontava non riuscivo esattamente a coglierlo, perché il nuovo si frapponeva continuamente al ben noto con troppa intensità. Mi ero appena accostato ad un turbinio di fiocchi, che subito riconoscevo che dovevano affidarmi ad uno nuovo, che vi era all'improvviso penetrato. Ora però era arrivato l'istante di seguire nella tormenta delle lettere le storie che mi si erano defilate alla finestra. I paesi lontani che vi incontravo si succedevano placidamente l'uno dopo l'altro come dei fiocchi. E siccome il lontano, quando nevica, conduce non in estensione, ma in profondità, Babilonia e Baghdad, Acri e l'Alaska, Tromsø e il Transvaal si trovavano dentro di me. L'aria pura dei romanzi che vi penetrava dentro si insinuava con sangue e catastrofi così irrimediabilmente dentro il mio cuore, che questi finì per restare fedele ai volumi logori.
O non era piuttosto una fedeltà ai libri più vecchi ed introvabili? Intendo ai libri meravigliosi che una volta in sogno mi fu dato di rivedere? Quali erano stati? Sapevo solo che erano scomparsi da tempo, che non avrei più potuto trovarli. Ora però stavano lì, in un armadio, che mi ero reso conto di non avere mai visto prima, da sveglio. In sogno mi sembrava vecchio e ben noto. I libri non vi erano riposti in piedi, ma distesi, nel suo angolo meteorologico. In essi il tempo volgeva al temporale. Aprirne uno mi avrebbe portato direttamente nelle viscere in cui un testo, gravido di colori, si trasformava in variabile e caliginoso. Erano colori effervescenti e sfuggenti, ma finivano sempre in un violetto che sembrava provenire dal corpo di una bestia macellata. Inesprimibili e grevi di significati, come questo violetto condannato, erano i titoli: ciascuno mi sembrava più bizzarro e familiare del precedente. Eppure, prima che mi potessi assicurare il primo migliore, mi svegliavo, senza aver toccato nemmeno in sogno una volta ancora i vecchi libri da ragazzi.

(cfr., volendo)

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