martedì 14 febbraio 2012

Teste - e siamo a 4

Nei periodi di lettura più intensi, specie da adolescente, leggevo a letto a pancia in giù, non necessariamente di notte, col libro a terra, la testa fuori dal letto, lasciando su questo solo il mento appoggiato, il braccio destro penzoloni, a mantenere il libro aperto e le dita come una benna a polipo a riposo, pronte a sollevarsi per voltare pagina. La posizione faceva un po' male al collo, dopo un certo tempo, il sangue andava alla testa, se la sporgevo troppo, e il formicolio non attendeva troppo a salire lungo il braccio, ma riuscivo lo stesso a mantenerla a lungo perché era la posizione del tuffatore di testa nel momento in cui è in volo: il tuffatore di testa, pur sapendo di rischiarla se l'acqua non è profonda, non saprebbe prendere contatto con l'acqua diversamente.
Tra tutti gli scrittori che ho conosciuto in quella posizione scomoda ma così confacente a me, mi chiedo chi sia quello cui devo più di tutti, quello che ha contribuito più di altri ad indirizzare il mio sguardo verso la direzione che ha oggi, che con tutta probabilità non è la direzione ideale, ma è quella che sento mia, con cui so guardare gli altri, avvicinarli o prenderne le distanze, prendere la mira o svirgolare, assumere rischi, assorbire le testate. Mi piacerebbe, e molto, dire che si tratta di un autore dell'Ottocento russo o del Novecento tedesco o di qualche grande narratore statunitense, ma non è così: le traduzioni filtrano, lasciano passare le storie, ma non possono, per loro stessa natura, lasciare sviluppare un rapporto intimo con lo scritto, in ogni sua fibra, col profumo delle parole e con il ritmo ed il respiro della prosa originale. Nonostante tenda ad evitare con una certa attenzione gli scrittori baciati dal successo commerciale del momento, con qualche notevole eccezione, di cui sono piuttosto pentita ma che al tempo stesso non ho alcuna remora a riconoscere (uno su tutti, negli ultimi anni: Bolaño, da cui mi ha provvidenzialmente salvata, con una tempistica perfetta, Arlt), in realtà, se ne dovessi scegliere solo uno, con tutti i limiti del caso, io credo dovrei per forza di cose nominare Piero Chiara, che un certo successo commerciale in vita ha pur conosciuto, e dovrei farlo per il suo stile misurato, la sua ironia elegante, la sua leggerezza, il suo voluto, costante defilarsi dalla visibilità del proscenio dei letterati o delle grandi città e il suo scandagliare la vita della provincia italiana senza alcun tabù, lontano da ogni perbenismo o dalle convenienze, palesi o più nascoste, cui la maggior parte degli scrittori italiani volentieri si sottopone.
Mi piace ricordarlo oggi, semplicemente così, senza che ricorra - a mia conoscenza - alcun anniversario e senza alcun motivo particolare.

4 commenti:

  1. Sulla lettura assomigli a Ben Gurion, che non leggeva mai in traduzione, perché delle traduzioni non si fidava. Ho visto la sua casa a Tel Aviv, originariamente tre stanze, cucina camera salottino, poi ampliata con altre due, e infine alzata di un piano, quest'ultimo interamente dedicato ai libri, tre grandi stanze, occupanti l'intera superficie del piano terra, interamente tappezzate di libri dal pavimento al soffitto, in dieci lingue diverse - quelle in cui lui leggeva - oggi, per sua volontà, liberamente accessibili a chiunque.

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  2. Magari fossero dieci, magari. Ho letto e leggo molto in traduzione, per forza di cose, ma sempre con la sensazione di un arricchimento monco. Negli ultimi anni sono venuta anche meno alla regola d'oro, che prevedeva di leggere sempre in originale almeno le lingue che riesco a leggere: mi è capitato di leggere autori spagnoli ed inglesi in francese, solo per questione di accessibilità dei titoli. Un gran dolore al cuore.

    Quindi si possono prendere in prestito i suoi libri come in una biblioteca?

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  3. Prendere in prestito nel senso di portare via credo di no, solo consultabili in sede. Se ti interessa puoi trovare alcune immagini qui:
    http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/2011/01/19/e_quattro_11.html.

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